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Autore: La neve di aprile    03/09/2006    8 recensioni
« Magari ti richiamo, eh? Ciao! »
Ecco, ci avrei giurato.
È la storia della mia vita che dopo un appuntamento nemmeno tanto disastroso, vengo ripetutamente scaricato con questa odiosissima frase.
Magari ti richiamo.
Magari lo facessero davvero, poi.
Genere: Comico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Un enorme grazie ad Arianna,
che gentilmente ha betato la prima metà.

 

 

Magari ti richiamo



 


Mio dio, sembra così terribilmente imbarazzata.
Sono sicuro che non è un buon segno, sono sicuro che sta per dire quella frase e che…
« Magari ti richiamo, eh? Ciao! »
Ecco, ci avrei giurato.
È la storia della mia vita che dopo un appuntamento nemmeno tanto disastroso, vengo ripetutamente scaricato con questa odiosissima frase.
Magari ti richiamo.
Ma che cazzo vorrà poi dire?! Non è molto più onesto dire una cosa del tipo “senti, non sei proprio il mio tipo” o “tra di noi non funziona perché sei troppo stronzo/troppo povero/ troppo sfigato/troppo brutto”?
Ovviamente no.
Magari ti richiamo!
Magari lo facessero davvero, poi. Già è abbastanza triste concludere la serata senza mandarlo in buca, ancora ti ritrovi con una stronzettina che manda in frantumi tutte le tue speranze e prende a bastonate la tua autostima.
Ogni volta che mi sento dire questa frase –praticamente sempre- mi si visualizza davanti questa scena dove c’è lei, tutta sorridente, che mi infila un braccio nel petto e mi strappa fuori la mia autostima, per poi picchiarla ben bene sotto il mio naso e andarsene senza dire una parola.
Forse un po’ cruenta, come immagine, ma rende perfettamente l’idea.
Parliamoci chiaro, non è che sono uno di quelli sfigati di quarta categoria che sbavano dietro alla prima figa che passa e fanno possibile e impossibile per inzuppare il biscotto e non sono nemmeno uno di quegli strafighi che schioccano le dita e si ritrovano ai piedi uno stuolo di pseudo top model adoranti pronte a fare tutto quello che vogliono.
Sono normale. Un ragazzo tale e quale ad altri mille, se non di più.
Capelli scuri, occhi scuri, abbastanza alto, ventitre anni.
Insomma, nulla di speciale e nulla di particolarmente terribile. Mia madre continua ad insistere sul fatto che forse sono un tantino irruento e che questo mi “impedisce di trovare una brava ragazza con cui sistemarmi felicemente e mettere al mondo un nugolo di nipotini” per la sua gioia, ma io, sinceramente, tutta questa irruenza non ce la vedo minimamente.
Sono solo un tantino sfortunato, non ho ancora trovato la ragazza giusta.
Ma io so che è lì fuori.
Basterebbe solo trovarla.


*



Ho iniziato a collezionare rifiuti al primo anno del liceo.
La primissima ragazza con cui sia mai uscito non era questa gran cosa, ricordo solo vagamente il suo viso. Ma del resto, a sedici anni un ragazzo ha solo una cosa per la testa: il sesso. Sesso sesso sesso sesso.
A tutte le ore del giorno, a casa, in chiesa, a scuola, in palestra, è il suo pensiero pressoché fisso. E Giada –così si chiamava la ragazza- aveva la reputazione di essere una facile, che andava con cani e porci. E aveva due tette che erano la fine del mondo.
Le chiesi di uscire durante un intervallo, in una mattinata piovosa. Eravamo tutti fuori, in barba al brutto tempo, con una cicca in bocca e la maglietta a maniche corte nonostante si crepasse di freddo. Quante cose si fanno, in nome della moda del momento!
Giada era lì, assieme a un gruppetto di amiche starnazzanti e le ascoltava ridacchiando, con la schiena appoggiata al muro. Una ciocca di capelli le era scivolata via dalla coda e le sfiorava una guancia delicatamente.
La fissai per tre minuti buoni, prima di avvicinarmi tutto baldanzoso e buttargliela.
« Cià. » le dissi, masticando rumorosamente la gomma e inspirando contemporaneamente una grossa boccata dalla sigaretta. Quasi mi strozzai, nel tentativo di non tossire e quindi perdere la faccia.
« Ciaaoh. » mi rispose lei, strascicando le vocali in una maniera a dir poco oscena.
« Hai da fare stasera? »
Niente chiacchiera, subito al dunque: era questa la regola. Credo fossimo tutti segretamente convinti che l’arrivare subito al sodo fosse sintomo di grande sicurezza, cosa che le ragazze cercavano in un ragazzo. Poco importava che io in realtà me la stessi facendo sotto e non avessi la più pallida idea di cosa fare e/o dire se avesse rifiutato.
Giada disse di no, che non aveva da fare.
« Perchéh? » aggiunse poi, sorridendo complice alle sue amiche che sghignazzavano alle sue spalle.
« Così. »
« Vuoi chiedermi di uscire? »
Le risatine alle sue spalle intanto aumentavano e, all’epoca, non avevo assolutamente la testa per metterle a tacere. Ero sufficientemente nel panico per la piega indesiderata che la conversazione aveva preso.
« Tu vuoi uscire con me? »
Ricorsi a un vecchio giochetto che facevo sempre con mia madre quando mi chiedeva dei miei voti o del perché non vedesse mai il mio libretto scolastico: le rovesciai la domanda e mi misi a pregare, a scongiurare, che dicesse di sì.
« Okay. »
In quel momento mi parve di essere illuminato da un raggio di sole e che una schiera di angioletti dai culi scoperti si fosse messa a cantare nella mia testa: mi aveva detto di si!
« Alle otto e mezza sotto i portici? »
« Okay. »
« Okay. »
« Fico. »
« Fico. »
Non aggiunsi altro e fingendomi parecchio annoiato me ne tornai dai miei amici, come se niente fosse.
« Stasera mi faccio la Giada. » dissi loro, buttando la cicca a terra e sputando, per poi infilarmi in classe, senza minimamente presagire il disastro che sarebbe successo.

Quel pomeriggio lo ricordo come uno dei peggiori della mia vita.
Passai in rassegna tutti i porno di mio padre, nella speranza di apprendere qualche misterioso trucchetto che facesse svenire Giada e le impedisse di definirmi “uno come tanti altri” e quasi mi feci beccare da mia nonna mentre mi rollavo una canna per rilassarmi un po’. Ero un fascio di nervi, non riuscivo a spiccicare parola e feci la doccia più o meno cinque volte di fila.
Alla fine, alle sette e mezza –ora in cui avrei dovuto iniziare a prepararmi- ero stremato come se avessi corso una maratona.
Arrivai all’appuntamento con un quarto d’ora buono di ritardo, per via di mia madre a cui improvvisamente era venuta la voglia di cenare tutti assieme, come una vera famiglia.
Giada, miracolosamente, era ancora lì, appoggiata ad una colonna con addosso una minigonna tanto corta da sembrare una cintura e una giacchettina rosso fuoco che le lasciava scoperto l’ombelico.
Mi guardò malissimo, ma non fece commenti.
La serata trascorse velocemente: un panino al McDonald, una passeggiata su e giù per i portici e poi al cinema, per l’ultimo spettacolo.
Il film era Fight Club e il cinema era deserto. C’eravamo solo noi due e un altro paio di coppiette che iniziarono a darsi da fare già quando iniziarono i trailer.
Ero più teso del solito: la mia ora stava per scoccare.
La mia prima volta.
La mia prima volta.
La mia prima volta.
Quel pensiero mi rimbombava per la testa, senza sosta, e io non sapevo cosa fare.
Dovevo essere io a prendere l’iniziativa?
Se si, dovevo baciarla o andare più sul pesante?
Una palpatina o una carezzina spinta sulla gamba?
Quasi gridai per la paura, quando lei, sbuffando, si chinò su di me e mi abbassò la cerniera dei jeans.
Ero pietrificato.
« Sei proprio tonto, eh. » mi fece notare lei dopo avermi fatto una mezza sega quel tanto che –secondo lei – basta per “svegliarmi un po’”, mettendosi a cavalcioni su di me e sollevando la minigonna. Quasi timidamente, allungai le mani e le palpai le tette un paio di volte: assolutamente deliziose.
La mia prima volta.
La mia prima volta.
La mia prima volta.
Rimasi scioccato quando mi accorsi che non riuscivo a penetrarla.
Non trovavo quello che all’epoca era detto semplicemente “buco”.
Inizia a sudare e mi dimenai sulla sedia per trovare un po’ d’aria fresca, ma la sala era impestata di fumo e odore di pop corn stantio. Alla fine Giada si stufò e si piazzò sopra di me.
Mi ritrovai dentro di lei prima che potessi dire qualsiasi cosa e rimasi senza fiato.
Voglio dire, nessuno ti prepara a questo.
Nessuno ti dice che è tutto umido e caldo.
Nei film che avevo guardato quel pomeriggio, non c’era nessun riferimento al “cosa si prova una volta dentro”.
Fu tutto talmente sconvolgente che venni subito.
Lei strillò, io strillai.
Si scostò da me in fretta e furia e si abbassò la gonna con uno strattone, prima di iniziare a inveire contro di me e correre alla ceca tra le poltroncine rosse alla ricerca dell’uscita.
La rincorsi, passando tra due ragazzi che erano così avvinghiati da sembrare un unico corpo di gomma che si contorceva, e la raggiunsi solo nel corridoio.
« ‘cazzo vuoi ancora, eh? » era pressoché isterica e per un attimo mi sentii in colpa. Molto in colpa. Non dissi niente e la seguii come un’ombra anche fuori dal cinema, fino alla fermata dell’autobus, mentre lei sbuffava, si accendeva una sigaretta e la spegneva dopo una boccata soltanto, per poi sbuffare e accendersi un’altra sigaretta e spegnerla dopo un’altra boccata.
La guardavo affascinato, senza spiccicare parola fino a quando non arrivò l’autobus.
« Usciamo anche domani? » le chiesi speranzoso. Lei si bloccò tra le porte aperte dell’autobus e girò la testa verso di me. Per qualche secondo non riuscì a parlare.
« Magari ti richiamo, eh? » mi disse, per poi svanire nell’autobus.
Se fossi stato un po’ meno agitato, se fossi stato un po’ più lucido, forse non avrei sorriso come un ebete all’idea che sicuramente ci sarebbe stato un secondo appuntamento, non mi sarei dannato l’anima passando pomeriggi interi davanti al telefono in attesa di una telefonata.
Se fossi stato un pochino più sveglio, avrei capito che era solo un modo carino per scaricarmi.
Forse le avevo fatto pena.
Chissà.

*



Il resto del liceo scivolò liscio e tranquillo, senza grossi problemi: ci furono un paio di travolgenti storie durate quasi un anno, e un sacco di scappatelle a base di sesso sfrenato e seghe tra i sedili di un autobus scassato. Insomma, il solito.
Dopo un più che dignitoso 85 alla matura decisi di non andare all’università, ma trovai lavoro in un ufficio in pieno centro.
Era il massimo: passavo le giornate circondato da donne più o meno grandi di me, con minigonne nere strettissime e cortissime e vertiginosi tacchi a spillo e durante le serate andavo in giro per bar assieme ad un gruppo di irriducibili amici a caccia di ragazze.
Con qualcuno ha funzionato per una notte, con qualcun'altra addirittura per due, ma alla fine, tutte quante, mi scaricavano con un classico “magari ti richiamo, eh?”.
Persino questa qui, conosciuta l’altra sera al Twister, mi ha scaricato. Una classica ragazza tutta corpo niente testa con la quale di solito ci si diverte e basta, ha avuto il coraggio di darmi il benservito. E io ho pure speso 80€ della mia paga per portarla a bere un aperitivo in riva al mare e poi a cena in un localino di classe con vista sul castello. Insomma, mi ero proprio dato da fare!
Non che ci contassi poi moltissimo, alla fine. Era solo un modo carino per chiederle di darmela.
A volte penso che se andassi con una puttana qualunque, raccattata in via Trento, spenderei molto di meno e avrei la certezza di fare centro.
Ma a parte che io sono fondamentalmente contrario alla prostituzione, non sarebbe la stessa cosa. Mi piace uscire con le donne, è bello vedere la cura con cui si preparano per apparire belle anche quando poi ti scaricano.
Insomma, è sempre una soddisfazione.
La guardo per un attimo, mentre si allontana in bilico sopra dieci tacchi a spillo di stivali di pelle e sospiro, nel guardare il suo bel culo fasciato in un paio di jeans scuri che si allontana.
Ahh, non era destino.
Non è mai destino ultimamente, mi ritrovo a pensare, mentre cammino verso casa con le spalle curve e lo sguardo basso.
Ma io non demordo, eh!
La donna della mia vita è li fuori.
Devo solo trovarla, in un qualche modo.
Bello sarebbe avere un navigatore satellitare per accelerare un po’ i tempi.

*



La mattina dopo mi sveglio insolitamente allegro.
Oggi sarà una splendida giornata! Mi dico tutto convinto andando verso il bagno. E subito vado a sbattere con il piede contro lo spigolo della porta.
Mentre una valanga di imprecazioni molto poco gentili nei confronti della porta, di sua madre e dell’albero da cui è stato preso il legno, mi escono di bocca, saltello in bagno e apro l’acqua della doccia, che inizia a scrosciare allegramente.
Quando nuvole di vapore iniziano ad appannare lo specchio, mi ci infilo dentro, crogiolandomi nell’acqua rovente. Per più o meno cinque secondi, perché subito l’acqua, da bollente, diventa gelida e subito dopo molto più che bollente, per poi tornare gelida senza darmi il tempo di chiuderla.
Urlando e imprecando più di prima, mi lancio fuori dalla cabina doccia e guardo con aria ostile il lavandino, pensando che dovrei radermi. Ma non è il caso, non vorrei che accidentalmente mi tagliassi la giugulare con una lametta, in un momento di distrazione.
Per un attimo, dopo essermi vestito e successivamente cambiato –dopo essermi versato addosso il caffè e persino un po’ di marmellata-, prendo in considerazione l’idea di non mettere il piede fuori di casa e rintanarmi sotto le coperte aspettando che questo improvviso attacco di sfiga passi.
Ma poi getto un’occhiata al cielo azzurro, limpido come può esserlo solo d’estate, e una rondine svolazza allegramente davanti alla mia finestra, cinguettando.
No, non è il caso di restare a casa per un po’ di coincidenze sfortunate!
Esco di casa di nuovo pimpante e mi dirigo al lavoro, dove la mattina trascorre rapida e senza grossi intoppi, fatta eccezione per il monitor del mio pc che è esploso senza ritegno mentre ero a prendermi un caffè in corridoio. Ma sono incidenti che capitano, dopotutto, era successo anche a una mia collega qualche mese fa: lo schermo si ritrova a dover sopportare un sovraccarico eccessivo di corrente e salta per aria, come un pop-corn.
Si, peccato che io lo avessi spento proprio per evitare una cosa del genere.
Dopo un pranzo a base di tramezzini prosciutto e maionese annaffiati con una coca-cola fresca di frigo, mi trastullo per un po’ prima di tornare in ufficio.
Cammino a zonzo per il naso per aria –evitando un lampione per miracolo, tra parentesi-, per poi infilarmi nelle porte girevoli del palazzo e incamminarmi verso gli ascensori.
Solitamente non c’è mai nessuno, a quest’ora, tutti quanti fanno possibile e impossibile per restare fuori il più a lungo possibile, ma oggi c’è una figurina piccina piccina che aspetta davanti alle grandi porte cromate chiuse.
La osservo incuriosito: bel culo, bel viso, ben vestita.
Carinaaaa!
Mi avvicinò, con discrezioni, continuando a guardarla in silenzio.
Con aria pensierosa, toglie di occhiali da sole e inizia a mordicchiare una stanghetta, prima di accorgersi di me e sorridermi.
« Salve! »
Ha due incredibili occhi nocciola e un sorriso che, sebbene non sarebbe l’orgoglio di un dentista, è di uno splendore unico.
« Salve. » la saluto a mia volta « lavora qui? »
Scuote il capo, ridendo.
« No, grazie al cielo! Sono qui per salvare una mia amica. » mi spiega, sollevando un sacchetto assolutamente anonimo di carta marrone.
« Fortunata la sua amica, allora. » replico, senza sbilanciarmi troppo. Non mi pare sia il caso di provarci, non nel palazzo dove lavoro e non davanti agli ascensori. Sarebbe squallido, assolutamente squallido. E poi, gli incredibili attacchi di sfiga di questa mattina mi spaventano non poco.
Faccio per avviarmi verso le scale, come se lo facessi ogni giorno, quando la sua voce mi ferma.
« Non prende l’ascensore? È appena arrivato. »
« No, non si preoccupi, faccio sempre le scale. » rispondo con un gran sorriso, accennando un sorriso e iniziando a salire i primi gradini. Chissà perché non faccio mai le scale, mi chiedo dopo le prime due rampe.
Circa dieci rampe dopo, mi rendo conto del perché solitamente preferisco gli ascensori: 7 piani a piedi non sono uno scherzo.
Sbuffando, finalmente approdo al mio piano e vado a sprofondare nella mia poltroncina girevole, ripensando alla sconosciuta incontrata poco fa. Mi stringo nelle spalle, realizzando che probabilmente non la rivedrò mai più e chiamo rapidamente il solito gruppo per andare in giro stasera.
« E non ci hai provato? Nemmeno un pochino? » indaga con molta poca discrezione Andrea, mentre guido verso i portici, cercando un parcheggio. Non ho mai capito perché, ma il venerdì sera tocca sempre a me mettere la macchina e scarrozzare tutti quanti in giro. Mica giusto!
« No, nemmeno un pochino. Faceva troppo affamato di figa provarci davanti agli ascensori. » ribatto, adocchiando un buco un po’ più avanti e mettendo la freccia.
« Naaaaa! Non dire stronzate senza aver bevuto. »
Sospiro, destreggiandomi in qualche manovra particolarmente complicata e parcheggiando perfettamente la macchina.
Circa, perfettamente.
Una strisciatine niente male a quella dietro l’ho data, anche se molto leggera.
Faccio finta di niente, mentre scendo e mi preparo a una serata come tante altre: immense camminate, chiacchierate senza senso e abbordaggi destinati a fallire.
Che razza di vita, quella di un ventitreenne nel 2006!

*



Sono circa le tre e mezza, quando torno verso la macchina da solo. Andrea è riuscito a recuperare un passaggio da una biondina che ha rimorchiato e il resto del gruppo si è disperso un’oretta fa con la classica scusa del “domani devo lavorare”.
Inspiro a fondo l’aria fresca della notte, godendomi un insolito silenzio.
Silenzio immediatamente rotto da un’improvvisa serie di imprecazioni chiaramente femminili che aumentano di volume man mano che mi avvicino alla macchina.
« …’sto coglione che mi ha rigato la macchina, se lo becco lo rovino! Ma tu guarda ‘sto stronzo! »
Oh oh.
Prego che non stia parlando del danno che ho fatto io a inizio serata, mentre corro verso la mia Fiesta del 2003 semi nuova: subito accanto, c’è una ragazza in tacchi e tubino nero, che impreca a gran voce controllando il paraurti della Mini Cooper parcheggiata dietro la mia auto.
« E’ grave il danno? » domando, trattenendo poi il respiro nello scorgere davanti a me la ragazza di questa mattina, con l’aria più incazzata che abbia mai visto sul viso di una donna.
« E’ tuo questo rottame? » mi chiede senza riconoscermi e indicando la mia macchinina.
Il mio orgoglio di uomo solleva la testa di scatto, mentre ribatto con aria piuttosto ostile.
« Ehi, modera i termini! Non ti ho distrutto la macchina, è solo un graffio! »
« un graffio un cazzo, la macchina mica è mia! È dei miei genitori e se non gliela riporto in perfette condizioni mi fanno un culo come una casa! » si mette a gridare, per poi arrossire violentemente qualche attimo dopo.
« Scusa.. » dice imbarazzata « non volevo aggredirti, ma se i miei vedono il graffio rimango a piedi. »
Sorriso, anche se a fatica.
« Basta che la porti in carrozzeria. »
« Si, quando? Domani mattina i miei usano la macchina. »
Sembra veramente affranta. Ed è veramente carina, niente di eccessivo come molte sue coetanee che per uscire si ricoprono la faccia con quintalate di trucco, che poi sono assolutamente insopportabili se la serata si conclude felicemente a casa di uno dei due.
Ogni tanto mi chiedo se le ragazze abbiamo mai assaggiato i loro fondotinta, perché leccare una guancia con tre dita di quella roba spalmata sopra è assolutamente disgustoso.
« Mh. » mi avvicino alla macchina per esaminare l’entità del danno: nulla di che. « Un po’ di pasta abrasiva e il problema si risolve. »
« Perché mi aiuti? » mi chiede tutto d’un tratto, sulla difensiva. Mi alzo in piedi, stringendomi nelle spalle.
«E' il minimo che uno stronzo coglione come me possa fare per rimediare al danno. »
Per un attimo rimane spiazzata, poi assume una tonalità vagamente simile al porpora.
« Tu! Razza di disgraziato, ma chi ti ha insegnato a guidare? Sei un pericolo pubblico, vai in autobus invece che far danni alle macchine altrui! » esplode tutto d’un fiato.
Le poso una mano sulle labbra, per farla tacere.
« Senti, vuoi che ti aiuto a risolvere il problema? Perché se devo star qui a sorbirmi i tuoi insulti, allora tanti saluti, mi prendo e me ne vado, d’accordo? »
« Spero vivamente tu stia scherzando. Adesso vieni con me e risistemi il danno con questa tua pasta abrasiva del cazzo, intesi? » tuona tutta impettita, afferrandomi per un braccio e sbattendomi praticamente di forza nella sua macchina.
Okay, magari non proprio di forza.
Fatto sta che mi ritrovo tutto d’un colpo assieme a questa sconvolgente ragazza che con naturalezza si siede davanti al volante, avvia dolcemente il motore e accende l’autoradio.
I can fly…
È bello guardarla mentre guida, mentre accompagna la macchina nelle curve piegando la testa di lato, mentre canticchia una canzone in inglese che non ho mai sentito prima e mi domanda come sia stata la mia serata.
Ride, mentre le racconto di Andrea e dei suoi tentativi falliti, di come sia andato avanti tutta la serata a coca-cola e salatini, annoiandomi a morte.
È assurdo.
Quando è stata l’ultima volta che è stato così facile parlare con una ragazza?
Quando mai ho incontrato una ragazza con cui fosse tutto così facile?
Quasi mi dispiace, dopo averle rimesso a posto il graffio con la pasta abrasiva, di andarmene.
« Ecco qua, la tua macchina è a posto. Come nuova! »
Mi sorride, soddisfatta.
« Beh, allora in questo caso direi che sei perdonato per il danno. »
« Mi sembra il minimo. » sorrido a mia volta, rialzandomi in piedi.
« Sei stato davvero gentile. » continua lei, passandosi una mano tra i capelli.
Mi stringo nelle spalle.
« Dovere. » mi mordicchio le labbra, tentennado: se c’è un momento giusto per chiederle il numero di telefono, è adesso. Che senso ha trascinare la cosa per le lunghe? È l’alba, ho sonno, domani devo lavorare e devo tornare in centro a piedi.
« Sono stata bene, con te. » esordisce di punto in bianco, precedendomi di qualche secondo.
« Anch’io. » le rispondo sinceramente. Infilo le mani nelle tasche, inspirando a fondo prima di chiederle.
« Senti, non è che.. »
« Senti, non è che.. »
Ci guardiamo, dopo aver detto la stessa cosa contemporaneamente, e scoppiamo a ridere.
Dio, è splendida quando ride. Le brillano gli occhi che è una meraviglia.
« dai, dimmi. » le faccio, una volta che ci siamo calmati.
« Mi chiedevo.. mi daresti il tuo numero di telefono, così magari ti richiamo. »
Oddio.
Oddio.
Mi ha chiesto il numero e ha detto quell’orribile frase. Sta a vedere che lo dice solo per fare la bella figura.
Ma no, mi dico mentre lo do il numero, non è possibile.
Non sembra quel tipo di ragazza.
Ci salutiamo con un sorriso e mi incammino verso il centro.
Così magari ti richiamo.
Mi sa tanto che questa volta sarà davvero così.
E nonostante il sole stia sorgendo e tra qualche dovrò essere al lavoro, non posso fare a meno di sorridere.







 

FINE

   
 
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