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Autore: Sylphs    23/01/2012    2 recensioni
Sei mesi dopo la notte del don Juan, una giovane pianista un po' inopportuna arriva al teatro dell'Opera per seguire delle lezioni...ma un misterioso e ambiguo incidente capitato durante una rappresentazione la porterà ben presto a indagare sull'esistenza del temibile Fantasma dell'Opera e una domanda opprime l'animo di tutta la compagnia: è realmente scomparso, oppure la loro era solo una speranza vana?
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Convivenza forzata
 

 
 
 
Vivian si era ufficialmente stabilita nella Dimora sul Lago, e se non fossero insorte complicazioni ci sarebbe rimasta per dieci giorni, al termine dei quali, come l’aveva informata il suo rabbioso ospite, “sarebbe dovuta scomparire per sempre, non facendo parola con nessuno di ciò che aveva visto nei sotterranei”. Aveva dovuto minacciarla fino all’esasperazione che le ripercussioni di un suo eventuale tradimento sarebbero ricadute su di lei e su parecchi membri della razza umana prima di ritenersi soddisfatto, ed aveva anche aggiunto che, essendo divenuto con il suo beneplacido suo protettore, l’avrebbe tenuta in casa sua nelle condizioni che desiderava e secondo regole stabilite da lui.
Vivian questo non se l’era aspettato, ma per evitare di far crollare definitivamente la labile pazienza del Fantasma dell’Opera aveva accettato, covando dentro di sé il risentimento e l’odio cresciuti in lei dopo che l’aveva sottoposta alla prova della Sfinge. Era evidente, infatti, che egli era stato colto alla sprovvista dal corso degli eventi e che l’ultimo dei suoi desideri era tenerla con sé, e se voleva conquistarsi la sua fiducia e fare in modo che si svelasse, avrebbe fatto meglio a non rendere ancora più forzata quella convivenza e a compiacerlo in tutti i modi per ottenere da lui una maggiore libertà.
Perché al momento, in effetti, non gliene aveva accordata neanche un po’.
Le aveva ceduto la camera da letto in cui si era ripresa dallo svenimento e l’adiacente bagnetto, dove aveva tutto il necessario per provvedere ogni giorno alla sua toletta personale. Però aveva il divieto assoluto di girovagare per i sotterranei (per il suo stesso bene, poiché erano pieni di trappole) e di mettere il naso nella stanza di Erik, vicino alla sua. Egli avrebbe fatto in modo di procurarle tre pasti al giorno, colazione, pranzo e cena, e glieli avrebbe lasciati davanti all’ingresso della sua camera ad orari prestabiliti. Lei avrebbe dovuti prenderli, consumarli e porre nello stesso posto il vassoio vuoto, che lui sarebbe passato a ritirare. Non doveva rivolgergli la parola se non era lui a farlo per primo (ciò, a sua detta, sarebbe stato assai improbabile) né infastidirlo con la sua presenza mentre componeva o lavorava.
In definitiva non era affatto un’ospite, ma una prigioniera, e avrebbe dovuto trascorrere le sue giornate sola nella camera da letto, senza poter uscire e parlare con qualcuno.
“Questo è ciò che vi offro, mademoiselle” aveva sibilato astiosamente il fantasma: “Se non vi aggrada non avete che da dirlo e sarò ben lieto di lasciarvi andare”.
Lei non avrebbe mai potuto cambiare idea dopo aver affrontato la prova della Sfinge. Ma aveva compreso subito che riuscire nel suo piano sarebbe stato assai arduo: per farlo, era necessario avere una maggiore libertà di movimento e numerose occasioni di conversazione con il proprietario della Dimora sul Lago, invece le erano preclusi entrambi.
Esattamente come il carcerato condannato all’ergastolo, se li sarebbe dovuti guadagnare con la buona condotta.   
In ogni modo, cercò di incominciare il suo soggiorno con lo stato d’animo più positivo e i propositi più solidi e venne fornita di biancheria intima pulita e di qualche abito dal suo silenzioso ospite, uscito un attimo a comprarglieli e presentatosi con la solita espressione cupa e l’immancabile mezza maschera bianca sulla soglia della sua camera. Glieli aveva gettati contro con disprezzo, senza guardarla, ed era subito andato via dicendole gelidamente: “Indossateli”.
Abituarsi ai suoi terribili modi di fare sarebbe stato difficile anche per un’anima mite, dolce e accomodante, ed era pressoché impossibile per la focosa Vivian, la quale doveva continuamente trattenersi dal rispondergli a tono o dall’esprimere il suo risentimento. Taceva, indignata, ricordandosi appena in tempo che se avesse agito con coscienza gli avrebbe inflitto un colpo dei più duri, vendicandosi dei torti che le aveva fatto. Doveva pensare al futuro, ingoiare la bile e sperare. Perciò si era presa i vestiti che, sospettava, egli doveva aver rubato (ora che era ricercato e con quell’aspetto insolito non sarebbe potuto entrare naturalmente in un negozio) e li aveva sistemati nella polverosa cassaforte ai piedi del letto a baldacchino. Odorava di vissuto, la stanza divenuta adesso la sua cella, e la prima notte, coricandosi con una certa riluttanza tra le lenzuola rifinite di pizzo e le pesanti coperte, aveva avvertito su di esse un profumo femminile, una di quelle fragranze che, anche se non ne conosceva la proprietaria, la induceva a credere che fosse una donna giovane e molto bella. Dunque le era stata assegnata la camera in cui aveva dormito Christine Daaé, l’antico amore del Fantasma dell’Opera! Come si sentiva, lui, ad avere un’altra ragazza di quell’età nella Dimora sul Lago?
Ovviamente non osò domandarglielo. La cantante era una delle tante cose non dette che gravava su di loro, e quell’innato sesto senso nascosto in ognuno di noi suggeriva a Vivian di evitare accuratamente l’argomento, tabù quasi quanto quello del mistero della maschera che l’uomo indossava a tempo pieno. Non aveva più fatto osservazioni in proposito, abituandosi a quel particolare bizzarro, ma era profondamente incuriosita e avrebbe voluto vedere cosa il suo ospite nascondeva con tanta scrupolosità. In un primo momento aveva supposto che egli si servisse di quell’oggetto come di un costume, per rendere più credibile la sua mascherata da fantasma, ma adesso, notando che non se la toglieva nemmeno nella solitudine dei suoi domini, aveva accantonato l’ipotesi. Perché era così morbosamente attaccato a quella patina perlacea? Quella parte di volto costantemente scoperta non era affatto male, per quello che Vivian riusciva a giudicare, per quale motivo doveva dimezzarlo?
I misteri che lo circondavano erano numerosi e affascinanti, e lei aveva solo dieci giorni a disposizione per venirne a capo. Poi, se non voleva condannare a morte certa se stessa e parecchi membri della razza umana, non sarebbe più potuta tornare alla Dimora sul Lago.
 
I primi tre giorni, in effetti, furono un fallimento sotto ogni punto di vista.
Purtroppo per Vivian, il suo temperamento era per natura amante della libertà e degli spazi aperti e scalpitava come un animale in gabbia nell’atmosfera soffocante della camera, accrescendo la sua noia, il suo fastidio e la sua indolenza e rendendole quasi impossibile l’idea di dover trascorrere la settimana a venire in quella maniera terribile. Non viveva bene circondata da quattro mura, e le capitava spesso di pentirsi d’essersi imbarcata in quell’impresa e di indugiare con nostalgia sui ricordi delle sue scampagnate ad Annecy, sui bagni nel fiume irruento, sulle battaglie a palle di neve, sulle passeggiate al chiaro di luna per i sentieri campagnoli. Quel luogo le era rimasto nel cuore, le provocava sensazioni assai più piacevoli di Parigi e le mancava ancora di più adesso che viveva come una prigioniera.
Nella sua attuale sistemazione, non aveva molti svaghi con cui passare il tempo e soffriva per la mancanza di compagnia. Non che vantasse molti amici all’esterno, ma le sarebbe piaciuto poter parlare con qualcuno per confidargli tutte le peripezie che le stavano capitando, e il silenzio tombale che imperversava perpetuamente nella Dimora sul Lago le pesava come un macigno; non si poteva dire che il Fantasma dell’Opera, di cui non conosceva neanche il vero nome, fosse un tipo chiassoso. Non lo vedeva e non lo sentiva quasi mai, si chiudeva per quasi tutta la giornata nel suo studio e vi rimaneva fino a sera, dedicandosi a progetti che non avrebbe mai voluto apprendere. Agli orari che aveva scelto per consegnarle i pasti le lasciava un vassoio pieno di cibo sulla soglia della stanza da letto e si eclissava prima che lei andasse a ritirarlo, sfuggente come uno spettro. La qualità del nutrimento, doveva proprio ammetterlo, era ottima, anche se non riusciva ad immaginare dove potesse procurarsi pietanze così prelibate.
A colazione aveva tè caldo con biscotti al miele, frittelle, riso soffiato, pane con burro e marmellata e latte riscaldato, a pranzo poteva gustare una deliziosa ala di pollo innaffiata con del Tokai e circondata da gamberetti freschi e a cena aveva soufflé, stufato bollente e torta ai mirtilli. Ripuliva tutto quanto da cima a fondo, non curandosi del galateo che prevedeva che una signorina non fosse mai ingorda (suo padre le aveva insegnato ad apprezzare le poche cose che la sorte le aveva concesso), e non disdegnava il vino, offertole in un bicchiere, né il cordiale che quasi sempre accompagnava la sua cena per aiutarla a digerire. Il menu del giorno veniva deciso dal Fantasma dell’Opera, ma almeno in quello, la ragazza non ebbe mai di che lamentarsi, poiché anche i piatti più complicati le risultavano graditi. Gli unici sprazzi di luce in quella prigionia oscura erano proprio i momenti in cui si apprestava a mangiare. Ed era una fortuna che fosse sempre stata una buona forchetta.
Ma per il resto conduceva un’esistenza piatta e monotona e si atteneva alle regole impostele dal suo ospite, allo scopo di dimostrargli che quando voleva sapeva essere accomodante e degna di fiducia. Purtroppo, però, lui non le dedicava quella giusta dose di attenzione che avrebbe potuto favorire il suo piano e trascorreva il tempo adempiendo alle solite faccende, comportandosi come se lei non esistesse e tenendosi costantemente lontano dalla sua stanza da letto. Si sarebbe detto che la stesse evitando, se solo non lo avesse fatto con tale naturalezza e tranquillità.
Di questo Vivian era sbalordita. Sapeva fin dall’inizio di non contare nulla per lui e di avergli estorto controvoglia quell’ospitalità, ma aveva pensato, in un primo momento, che egli cercasse comunque di approfittare della presenza di una fanciulla mediamente attraente, dato che a quanto pare per lui era un evento raro. Un uomo era pur sempre un uomo, e le loro camere erano separate da appena qualche passo…non che lo sperasse, ma si era aspettata di vederlo reagire in qualche modo a quella situazione. Invece non pareva dare troppo peso alla cosa e non mostrava alcun segno di turbamento. Da una parte ne era rassicurata, sarebbe stato spiacevole fronteggiare delle molestie, ma dall’altra la sua autostima s’era un po’ abbassata. Era davvero così poco desiderabile da non indurre un uomo che si era tenuto lontano dalle donne per anni a reagire alla sua presenza perpetua? A meno che non si fosse convinto di volersi scindere definitivamente dal resto dell’umanità e, quindi, anche dalle brame carnali. Da certi suoi discorsi e da brandelli di frasi colti nel mezzo di quelle poche conversazioni che avevano sostenuto, era tesa a propendere molto per quest’eventualità.
Un’eventualità patetica. Non si poteva abbandonare la propria identità per tramutarsi in una figura mitica, per quanto forte potesse essere la convinzione di non essere più un umano, la natura non cambiava. Egli era un povero illuso, se credeva davvero di riuscire a strapparsi di dosso emozioni e desideri umani per convertirsi totalmente al suo oscuro lato di fantasma. Non sarebbe sfuggito al suo passato rifiutandolo in blocco. E nella sua corazza di spettro vendicatore, nel suo glaciale contegno doveva esserci una crepa, una falla in cui lei si sarebbe potuta infilare…un segno di debolezza umana…
La cosa migliore da fare era attendere il momento giusto e colpire quando la vittima era più vulnerabile.
Perciò, frugando l’unico posto in cui le era permesso muoversi liberamente, aveva trovato in un cassetto interno del tavolino accanto al letto una serie di immacolati fogli di carta da lettere, una boccetta di inchiostro e un pennino luccicante. Il giorno in cui era stato messo in atto il “Re degli Elfi” aveva iniziato a comporre una canzone di sua invenzione e aveva trascritto delle note su un diario custodito in casa di Madame Lefevre. L’atmosfera in cui viveva adesso era ottima per quel genere di occupazione, la sua fantasia correva più fervida che mai e in assenza di altri svaghi, decise di continuare quello che era partito come un semplice, ozioso gioco.
La melodia partiva con toni allegri e spensierati, descrivendo l’ingenuità e il candore di un’anima che del mondo non aveva visto alcunché e che non aveva idea di cosa fossero l’amore, la paura, l’odio e le ingiustizie, ma poi, di punto in bianco, assumeva una sfumatura d’angoscia, quasi di disperazione, allorché un evento inaspettato sconvolgeva le certezze della suddetta anima, precipitandola in un baratro di dubbi e di timori. Essa cercava freneticamente un’ancora che le permettesse di risalire, di affrontare l’oscurità che aveva intorno, ma era sola in un mare di guai e non riusciva a squarciare il velo di ombre che nascondeva la verità e a portarla alla luce.
Tracciare note su quei pentagrammi le risultava più facile di quanto si sarebbe aspettata. Non era lei a muovere la penna sul foglio, era la penna stessa ad essersi impossessata della sua mano e a spostarla con frenesia su e giù, dando vita ad un’armonia di suoni e di accordi che, Dio la aiutasse, non erano affatto male! Tanto era presa dall’estasi musicale che sembrava averla posseduta da non rendersi conto del tempo che passava, e continuò a scrivere note su note fino ad avere le dita doloranti, intingendo la punta del pennino nell’inchiostro a intervalli regolari e chinandosi immediatamente per riprendere il lavoro. Ben presto fu necessario accendere almeno cinque candele (non a causa di un accrescimento del buio, dal momento che nei sotterranei vigeva una notte perpetua, ma perché i suoi occhi erano più stanchi di prima) ma la giovane non cessò di comporre, avvolta in una camicia da notte bianca a maniche lunghe e con i capelli sciolti sulle spalle in preparazione al sonno, accesi di riflessi rossastri sotto i riverberi delle fiammelle. I suoi intensi occhi scuri, abbassati sul quinto foglio, avevano le cornee arrossate dalla stanchezza e le sue lunghe ciglia corvine le ombreggiavano le gote, mentre la mano che stringeva il pennino, chiazzata di inchiostro, tracciava note con volontà propria. Alla fine si fermò, rossa in volto, e sollevò i fogli con ambedue le mani per osservarli con stupore, quasi non credesse di esserne l’artefice.
“Mi prenda un colpo se non è vero” sussurrò a se stessa: “Ma sembra un buon lavoro”.
Era un po’ presto per dare giudizi, c’era da ammetterlo. La canzone era solo a metà e un’opera andava valutata nella sua totalità, però…però la parte che aveva composto quel giorno, il secondo nella Dimora sul Lago, era più che il delirio solitario di una ragazza prigioniera nelle viscere della terra. Poteva essere chiamata vera musica.
In tutta la sua breve vita, sebbene avesse appreso a suonare discretamente il pianoforte, aveva sempre saputo d’essere priva di quel talento musicale in cui sua madre si era tanto distinta. Era lei la stella, lei la diva che aveva fatto impazzire l’Opéra Garnier, lei quella meritevole di onori e di applausi. Vivian non era altro che la sua sbiadita copia, il frutto della sua scandalosa relazione con l’uomo che le aveva preso la verginità e l’onore, la poveretta alla quale una signora gentile aveva fatto la carità di introdurla in quel celebre teatro ma che mai avrebbe eguagliato l’insormontabile talento materno. Non sarebbe mai riuscita a superare la linea di demarcazione tra semplice musicista e vero artista e nessuno avrebbe ricordato il suo nome, seppellito sotto quello ingombrante e prestigioso di sua madre.
Ma quell’abbozzo di canzone…quelle note scaturite d’istinto, senza logica, in un afflusso continuo e ininterrotto…non erano il goffo addestramento di una pianista di mediocre bravura. Erano qualcosa di più. E lei…
Le possenti note di un organo si infilarono nella sua stanza silenziosa e la distolsero dai suoi pensieri, spingendola a nascondere con strana paura i fogli densi di note nel cassetto del comodino, come se avesse avuto il timore di perderli o di farseli portare via. Erano suoi, la sola cosa che le apparteneva completamente, e ne avrebbe custodito l’esistenza con cura, senza lasciarli vedere a nessuno. Chiuse il pennino in fretta e furia e si strofinò inutilmente le mani nel tentativo di eliminare gli aloni scuri che le avevano imbrattate, arrossendo come se l’avessero sorpresa a fare qualcosa di illecito. La musica che scivolava nell’aria fino a lei era indubbiamente quella sublime e straziante del Fantasma dell’Opera, ma se la volta precedente aveva eseguito un pezzo di sua invenzione, adesso suonava e cantava l’aria dell’Otello, celebrando con intensità quasi dolorosa il furore, la gelosia, la follia omicida del moro di Venezia. L’intera dimora pareva vibrare insieme al lamento incontrollabile di quell’anima impetuosa e passionale pronta ad avventarsi sulla timida Desdemona e la ragazza non poté che rimanere catturata da quell’esibizione solitaria.
Il fantasma metteva un tale sentimento nelle note e nella voce da indurla a credere che avesse sfiorato gli stessi stati d’animo del personaggio che andava a interpretare, e l’astio dell’innamorato geloso e disperato con cui si scagliava contro la moglie indifesa era tanto sentito che temette che potesse riversare la sua furia su di lei, e che sarebbe caduta sotto quella gragnola di colpi invisibili inferti solo con la musica. Si alzò lentamente dalla sedia sulla quale era rimasta seduta tanto a lungo, accompagnata dal sommesso fruscio della camicia da notte, gli occhi fissi sulla tenda di broccato che la separava dal salone in cui nasceva quella musica ultraterrena, e senza deciderlo razionalmente, senza che la mente le ordinasse di farlo la scostò da una parte, legata alle note strazianti da un filo impalpabile che la tirava inesorabilmente alla loro fonte. Aveva bisogno di vedere Otello, di implorare il suo perdono per addolcire la sua magnifica voce alterata oltre i limiti del possibile, perché non poteva che essere il moro colui che in quel momento cantava in quel luogo dimenticato da Dio.
Individuò, palpitante e rapita, l’angolo nel quale era collocato l’enorme organo e la figura del Fantasma dell’Opera, girata di spalle e stagliata in controluce, cosicché appariva soltanto come un’ombra scura. Avvolto nell’ampio mantello nero che s’era ripreso e con quei lucidi capelli castano scuri che, fermandosi all’altezza della nuca, non lasciavano intravedere neanche una striscia di pelle, assomigliava davvero al moro di Venezia e le sue membra erano scosse da visibili tremiti mentre le dita pestavano furiosamente i tasti e la voce saliva e scendeva in un’imitazione perfetta di ira allo stato puro, mescolando amore e odio, delusione e incontrollato furore. Egli era talmente assorto dalla musica che andava a plasmare da non notare il silenzioso ingresso della sua ospite, la quale, con un timore muto e reverenziale, si fermò a pochi passi dalla propria camera da letto, per non disturbarlo e per godere appieno di quella magnifica esecuzione.
Sua madre le aveva spesso raccontato del successo ottenuto quando aveva interpretato Desdemona durante una replica dell’Otello, e della candida intensità con cui aveva reso onore al celebre personaggio della povera fanciulla innocente e devota, che persino a fronte dell’ingiusta rabbia accusatoria del consorte chinava la testa e non muoveva obiezioni, cadendo come un fiore reciso sotto la pressione insopportabile di quel famoso cuscino. Amava soffermarsi sulla reazione entusiastica del pubblico, sulle rose che erano piovute da ogni parte e sulle eccellenti critiche, e provava un gusto competitivo nel rimarcare il fatto ch’aveva ampiamente superato il tenore che vestiva i panni di Otello, più vecchio e allenato di lei, ma privo del suo talento naturale.
Che cosa avrebbe mai potuto dire, la grande Amélie Carré, di quell’interpretazione? Il suo talento naturale, il suo candore non avrebbero potuto nulla contro il furore meraviglioso del Fantasma dell’Opera, contro quella voce angelica capace di ridurre al silenzio persino i canti dei serafini, e Vivian non aveva dubbi sul fatto che chiunque, persino lei, sarebbe fuggito o svenuto dinnanzi ad una personificazione così realistica del furioso Otello. Una musica così, se assaporata in eccesso, era capace di logorare l’anima e cambiare per sempre i pensieri, di far deperire le guance e smagrire le membra, e lei, avendone goduto solamente due volte, già si sentiva mancare e venir meno le forze.
“Dio mio” pensò, fremendo sotto la camicia da notte insieme alla voce del moro: “Costui non è certo un semplice essere umano!”
Quando la romanza raggiunse il punto culminante, quello in cui Otello, superato ogni stadio di ragione, s’avventava sulla moglie atterrita e piangente e le copriva il povero viso con il bianco guanciale, qualcosa in Vivian si spezzò ed ebbe la certezza che non sarebbe riuscita a sopportare una bellezza così terribile: “Fermatevi…vi prego!” disse senza pensare, e il suo tono non era quello d’un’ascoltatrice rivolta ad un musicista, bensì di una persona decisa a tutti i costi ad impedire un omicidio: “Vi prego!”
Egli reagì con riflessi sorprendenti. Le sue dita si bloccarono di colpo, facendo cessare le note ardenti e angosciose, il canto si spense come se non fosse mai esistito e si drizzò in piedi con un movimento felino, girandosi nella sua direzione con quegli incredibili occhi azzurro scuro accesi da un lampo d’ira: “Vi avevo detto di non disturbarmi mai mentre lavoro!”
Appariva adirato, ma la giovane non mostrò alcuna paura. Appena la musica aveva smesso di addensarsi nell’aria che lei respirava, si era rilassata, con un sospiro lieve e rassicurato e tuttavia una stretta al cuore, sollevata e triste insieme che quel furore si fosse interrotto e che l’infelice Desdemona fosse salva. S’appoggiò alla parete di pietra, le braccia incrociate sul petto in un curioso atteggiamento d’autodifesa, il capo reclinato in avanti, e ritrovò il fiato con fatica, annaspando: “Scusatemi, io…” non riuscì a finire. Non avrebbe mai potuto spiegargli che s’era lasciata trascinare al punto ch’era stata sicura che egli avrebbe ucciso davvero l’innocente Desdemona.
Erik la studiò con freddezza, chiedendosi il motivo della sua postura atterrita e sconvolta. La ragazza aveva cercato rifugio nella parete alle sue spalle, i fluenti riccioli bruni sciolti fino a metà schiena e il viso leggermente girato di lato nella maniera di una che teme l’arrivo d’una percossa, e aveva le gote rosse e gli occhi lucidi di lacrime che cercava di non lasciarsi sfuggire, il corpo rivestito dalla spessa camicia da notte candida che le aveva procurato due giorni addietro. Oh, sapeva bene che la sua musica bruciava e che era in grado di rimescolare un’anima e consumare un volto fresco, ma il trasporto che le lesse nello sguardo era qualcosa di più profondo di ciò a cui era abituato. La sua ospite l’aveva scambiato davvero per Otello, influenzata dal potere ammaliante delle sue note, ed aveva paura di lui, esattamente come l’aveva avuta la sventurata Desdemona.
…il che, in fondo, era solamente un bene. La sua presenza lì era un fastidio, un inutile ostacolo alla buona riuscita dei suoi piani, e più l’avesse temuto e aborrito, più avrebbe avvertito il desiderio di andarsene, liberando entrambi da un vano fardello. Forse, se fosse riuscito a terrorizzarla sul serio, l’avrebbe persino indotta a tornare in superficie prima del tempo. Conosceva molti modi per farlo; togliendosi la maschera, ad esempio, o costringendola ad ascoltare le sue musiche più terribili e furiose, in cui aveva riversato tutta la disperazione, l’infelicità, il desiderio insoddisfatto e la rabbia della sua lunga vita di mostro. Allora quella vaga paura che le aveva scatenato adesso si sarebbe mutata in qualcosa di assai più concreto e le avrebbe soffiato via dall’animo il suo scomodo ardore, svuotandola con la sua musica e riempiendola solo di orrore, angoscia sofferenza.
Però qualcosa lo frenava. La semplice riluttanza a plasmare una seconda volta l’animo di una fanciulla a suo piacimento, ma con l’intento contrario, dopo ciò che era successo con Christine? Oppure una curiosa stanchezza, un non volersi opporre al destino che aveva voluto sobbarcarlo di quella creatura per dieci giorni?
No, impossibile. Lui non poteva essere stanco, né tantomeno arrendersi al destino che avrebbe voluto lasciarlo in quel buco a marcire per l’eternità. Era il Fantasma dell’Opera, il Figlio del Diavolo, e avrebbe mondato Parigi dalla feccia che la popolava, trionfando sulla crudeltà della gente e ridendo della loro totale disfatta. E l’esperienza di Christine era ormai cosa superata, non veniva certo preso dall’esitazione solo perché allora aveva fallito. Il motivo della sua riluttanza a terrorizzare Vivian era assai più semplice: ella era soltanto un insetto molesto, una sciocca cosuccia incapace di arrecargli il minimo danno, e non meritava neppure un briciolo della sua attenzione e del suo tempo. Impiegando le sue energie nel tentativo di mandarla via, le avrebbe dimostrato considerazione, azione inammissibile da parte sua. Ecco come stavano realmente le cose.
“È tardi, mademoiselle” disse con tono più calmo, tastandosi inconsapevolmente la maschera per assicurarsi che fosse sempre al suo posto: “Sarete senz’altro stanca. Tornate nella vostra camera”.
Lei non diede segno d’averlo udito. Si staccò dal muro sul quale aveva appoggiato la schiena, le labbra tremanti e lo sguardo ancora avvinto dal fascino della celebre ira di Otello, e dovette tentare varie volte prima d’essere in grado di articolare qualche parola: “La vostra musica…la vostra musica è…” scosse la testa, incapace di trovare un aggettivo adatto a descrivere ciò che aveva appena sentito, i respiri affannosi che le sollevavano l’esile torace: “…terribile. Cioè, è…è…terribilmente meravigliosa”.
Erik sollevò un sopracciglio, divertito suo malgrado. Terribilmente meravigliosa? Nessuno, finora, aveva mai definito in quella maniera il parto della sua geniale mente. Né Christine, che si era servita di lui per migliorare le sue capacità canore e che aveva permesso all’orrore per il suo volto sfigurato di cancellare gli incanti che traeva da ogni strumento, né Madame Giry, la quale, in proposito, s’accontentava di osservare con una sorta di mesta desolazione “è un genio”. La ragazza che adesso lo contemplava combattuta tra diffidenza e ammirazione gli stava facendo senz’altro un complimento, ma non si prese la briga di ringraziarla. Era più che naturale che la sua musica fosse riuscita a stregarla.
“Perché non l’avete mostrata a qualcuno?” insistette Vivian, riprendendosi gradualmente e chiedendosi perché quell’individuo, anziché regalare al mondo la sua celestiale bravura, si fosse rinchiuso in quella caverna sotterranea e s’accontentasse del suo ruolo di spettro assassino: “Potreste essere un compositore e un musicista di fama internazionale, monsieur! Verrebbero ad assistere alle vostre esibizioni da ogni parte del mondo!”
Lui sorrise amaramente, lasciando scorrere le dita guantate sui tasti dell’organo: “Non credo proprio, mademoiselle. A volte neanche il talento più evidente può mutare l’opinione che il mondo ha di te”.
Lei tacque, assimilando il significato di quelle parole. Esaminandolo con attenzione, si disse che c’era qualcosa che egli nascondeva dietro al suo atteggiamento freddo e spietato, un sottofondo che tradiva un dolore e una disillusione talmente potenti che ben pochi avrebbero potuto comprenderli appieno. E non era affatto giustificato, ma forse la sua storia era più complicata di ciò che aveva creduto in un primo momento.
“È per via…” esitò: “…è per via della vostra maschera?”
Erik sussultò, come se una serpe l’avesse morso a tradimento sulla caviglia. La ragazza era intuitiva, pericolosamente intuitiva, e conversare con lei era un rischio che non si sarebbe dovuto permettere. Se le avesse lasciato indovinare parte dei segreti che custodiva gelosamente e brandelli del passato che l’aveva tanto ferito, sarebbe stato costretto a ucciderla, e non era un’azione di cui desiderava macchiarsi. Ella era sì fastidiosa e imprudente, ma non al punto da meritare la morte. L’unico atteggiamento che andava preso in quelle circostanze era un modello di arroganza e di freddezza, affinché la sua ospite si scoraggiasse e non cercasse più di interagire con lui.
“Non provateci, mademoiselle” le rispose con quel tono di beffarda superiorità che ormai Vivian aveva cominciato a riconoscere: “Non potreste mai capire. Come, d’altra parte, non capite nemmeno la musica. Cosa ne può sapere del valore di un pezzo una provinciale ragazza di campagna a malapena capace di leggere e scrivere, che non saprebbe distinguere un mi minore da un fa diesis?”
Con una violenta inspirazione, la giovane indietreggiò come se l’avesse schiaffeggiata e voltò il capo di lato, nascondendosi dietro la cascata di indisciplinati ricci corvini. Quella frase volta a ferirla, s’accorse con rabbia, le aveva fatto più male di quanto si sarebbe aspettata, e aveva avuto su di lei l’effetto di una pugnalata dritta al cuore. Non che fosse per lei una novità essere irrisa a causa delle sue origini; solo poco tempo prima, la Marchesina Colette le aveva fatto pesare il modo in cui era venuta al mondo, frutto di una relazione fuori dal matrimonio, e suo fratello Antoine s’era arrogato il diritto di provare a violentarla proprio perché era in una botte di ferro a causa della sua levatura sociale. Ma che persino quell’assassino, quel mostro, quel reietto che viveva nelle profondità della terra osasse disprezzarla per qualcosa di cui non aveva alcuna colpa era il colmo, e poteva essere dotato e sublime quanto voleva, ma per il resto non era altro che una bestia.
Erik attese una risposta che tardò più del dovuto ad arrivare. Vivian rimase immobile a lungo, stretta in quella modesta camicia da notte, con il capo girato di lato e il viso nascosto dai capelli, e le spalle le fremettero come per un singhiozzo muto. Gradualmente, egli avvertì una strana sensazione di disagio nel petto. Non rimorso, ovviamente non poteva provare rimorso, ma una specie di fastidio simile alla puntura di un ago. Le si era rivolto con villania e indelicatezza, verissimo, ma per quello che credeva d’aver capito di lei, aveva pensato che si sarebbe lasciata rimbalzare addosso la sua frecciata senza attribuirle importanza. Non lo considerava, in fondo, un pericoloso assassino? Cosa contava per lei l’opinione di una sì tremenda figura? Quel silenzio ferito, quelle spalle sussultanti, erano una sgradita novità.
“Ehi” disse, più piano, ma senza ingentilire la voce: “Non vi metterete mica a piangere, mademoiselle?”
“No” il ringhio di lei, un concentrato di veleno e di orgoglio, giunse inaspettato. La ragazza drizzò il capo di scatto, scrollandosi la chioma sulla schiena e puntandogli contro i grandi occhi scintillanti di furia e di fierezza, e strinse le labbra in una smorfia di disprezzo: “Non credo che sprecherò una sola lacrima per voi, monsieur Fantòme. Sono avvezza alle critiche rivolte alle mie origini non troppo…rispettabili. Solo, non mi aspettavo che un genio come voi dovesse ricorrere al solito vecchio repertorio, peraltro senza alcun apparente motivo. Avete ragione, cosa può saperne di musica una poveraccia come me, costretta ad usufruire dell’ospitalità di un mostro per sfuggire alle mire di un nobilotto affamato della sua virtù? Niente, naturalmente, infatti avrebbe fatto meglio a non farvi alcun complimento e a restare al suo posto, questa stracciona patetica”.  
Colpito dall’acredine che traspariva dall’espressione e dal tono di lei, Erik non riuscì a ribattere alcunché, limitandosi a battere scioccamente le palpebre. Vivian era l’unico membro della razza umana ad avere il coraggio di ribellarsi al suo comportamento e di dirgli in faccia ciò che pensava, e non essendo abituato ad incontrare un’opposizione così incrollabile, si trovava impreparato a sostenere una discussione.
Lei continuò: “Sarò anche una miserabile poverella, monsieur, ma a differenza di voi, che siete colto e senz’altro più erudito di me, non lo nego, ho degli amici e delle persone che mi vogliono bene, e una casa calda e accogliente con finestre da cui entra la luce del sole. Anni fa avevo un padre, un uomo che tutti chiamavano ubriacone e fallito, ma ai miei occhi era l’individuo più onorevole e affettuoso che esista al mondo e mi ha insegnato cos’è l’amore, una parola che per voi non ha avuto, non ha e non avrà mai alcun significato” il concitato discorso della giovane acquistava foga andando avanti, diveniva uno sfogo ardente diretto in generale contro tutti coloro che l’avevano derisa per le sue origini, e in quel momento la sua figuretta emanava dignità, un qualcosa che raramente una vittima era riuscita a mostrare di fronte al proprio persecutore: “Perciò potete anche definirmi ignorante e provinciale, ma non avrete mai, mai un rapporto che si avvicina solo lontanamente a quello che condividevo con mio padre!”
Tacque, ansimando. Erik le restituì lo sguardo in silenzio, senza dir nulla.
Poi sembrò ritrovare un certo controllo. Staccò gli occhi dai suoi, le guance accese di improvviso rossore, le mani che le stringevano addosso la camicia da notte in un gesto di pudore e di vergogna, e gli volse le spalle con un movimento rapido, sollevando la tenda che conduceva alla sua stanza: “Buonanotte, monsieur”.
L’uomo osservò con vacuo stupore la stoffa rosso porpora che ricadeva a nascondere la sagoma curva della fanciulla, sottraendola al suo sguardo. Non accennò la mossa di spostarsi dal punto in cui sostava immobile, con le braccia lungo i fianchi e le labbra leggermente aperte a dire qualcosa che non sarebbe mai scaturito all’esterno, e si trovò, per mezza frazione di secondo, nella fastidiosa incapacità di decidere cosa fare.
Scrollò il capo, passandosi una mano sul viso per scacciare la sgradita sensazione. Aveva faccende di grande importanza che lo reclamavano, non poteva perdere tempo dietro alle proteste offese della sua fastidiosa ospite. Cosa gliene importava, dopotutto? Non si sarebbe certo scusato con lei, dopo tutti i torti che aveva dovuto subire nel corso della sua esistenza. E se la ragazza, con la sua rabbia, intendeva rendersi il soggiorno lì ancor più difficile, peggio per lei. I suoi sentimenti e la sua sensibilità non erano affar suo.
Sempre ammesso che li avesse nella stessa quantità in cui li vantava lui, cosa alquanto improbabile, dal momento che nessuno era in grado di provare emozioni forti come le sue.
Prima sarebbero trascorsi i dieci giorni, meglio sarebbe stato per tutti.

 
  
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