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Autore: Ely79    24/01/2012    4 recensioni
La rivolta di Londra si è conclusa da poche ore e uno strano esercito si aggira per le strade: il Brooms Army. Tra le schiere, un uomo segue la figlia sedicenne e idealista, senza sapere che questa giornata avrà ripercussioni inaspettate sul suo lavoro di scrittore.
Terza classificata pari merito al contest "Origami di carta" indetto da Fe85.
Genere: Generale, Introspettivo, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Brooms Army
Questa storia ha partecipato al contest "Origami di carta" indetto da Fe85, dove si è classificata terza a pari merito con la storia di nora_90, e aggiudicandosi il Premio Pourparler per la migliore caratterizzazione del personaggio principale.
I giudizi sono riportati al termine della storia.

Autore:
ely79
Titolo: Brooms Army
Genere: Generale, Introspettivo, Storico
Beta Reader: No
Avvertimenti: One-shot
Introduzione: La rivolta di Londra si è conclusa da poche ore e uno strano esercito si aggira per le strade: il Brooms Army. Tra le schiere, un uomo segue la figlia sedicenne e idealista, senza sapere che questa giornata avrà ripercussioni inaspettate sul suo lavoro di scrittore.
Note dell’Autore: la voce “Storico” nel genere è dovuta al fatto che gli eventi dello scorso agosto a Londra hanno avuto una valenza storica, soprattutto perché ricalcavano eventi già accaduti in passato, ugualmente drammatici.
Eventuali Credits: -

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Sono passate ormai le cinque del pomeriggio quando, indolenzito oltre ogni dire, riesco ad approdare ad uno spazio di sosta. La rientranza della facciata di mattoni mi accoglie indulgente. Troppa gente le si è addossata contro nelle scorse ore, credo di essere il solo a farlo per necessità.
Phillis ha cominciato a tartassarmi ieri mattina appena alzata, dopo un rapido giro sui social network, riguardo al non poterci esimere dall’essere qui. Inutile protestare, addurre come scusa il caldo di queste giornate d’agosto o l’abitare all’altro capo della City. Peggio ancora trincerarsi dietro il più umano e comprensibile:
«Dio mio, Phils, quei pazzi saranno ancora a piede libero e tu vuoi che mi vada a cacciare là in mezzo con una scopa in mano?!»
Mi ha scoccato una di quelle sue occhiate da killer, sconvolta e furiosa al contempo, prima di strillare che starsene barricati in casa non serve a nulla, che si finisce per darla vinta ai facinorosi e ai delinquenti che hanno aggredito degli innocenti e privato molti nostri concittadini della sola - e magari misera, visti i tempi che corrono - fonte di reddito che possedevano. Era nostro dovere, anzi, obbligo morale raggiungere uno dei luoghi degli scontri e dare una mano a rimettere in sesto quello che vandali e disperati avevano gettato ovunque.
Avrei preferito restarmene a casa, nel mio studiolo che affaccia sulla High Street di Bromley, con una bella birra fresca poggiata sul tavolino accanto al divano, il ventilatore acceso, un cd di Miles Davis nello stereo, a correggere la bozza del secondo capitolo del mio libro, piuttosto che immischiarmi nel caos mediatico. Dopo questa sfacchinata, mi toccherà rimandare come minimo tutto a domani. Sempre che abbia la disposizione mentale adatta a rivedere il discorso tra Gasrad, il Nevinal della Marca di Guill e il Borgomastro Felsi. Ho impiegato una settimana per scriverlo: è complesso, costellato di slanci politici, implicazioni sociali, economiche, etiche… persino artistiche. Difficile da seguire se non si ha la mente lucida.
«Ecco cosa riesce a farti fare una ragazzina di sedici anni troppo sveglia, quando tocca a te tenerla» rimbrotto tra me e me, cercando mia figlia nella torma di volontari.
La scorgo impalata davanti ad una vetrina e, per la prima volta, Phillis non sta impazzendo per un vestito, un orpello splendidamente high-tech o qualunque cosa piaccia alle adolescenti di oggi. Tutte cose di cui fatico a comprendere la necessità. È sconvolta dallo sfacelo che scorge all’interno del negozio. Mucchi di oggetti indecifrabili, cartacce, vetri rotti, cavi elettrici che mandano scintille. Un paio di pareti sono annerite dalle fiamme, così come il soffitto. Nell’aria si sente ancora odore di plastica bruciata.
«Phils?»
Trasale spaventata. Ha gli occhi pieni di domande pesanti e un’ombra di cupa paura sul viso. A quell’età non ci si dovrebbe scontrare di petto con una realtà tanto indigesta.
«Papà… perché? Dicono che Londra è multietnica… un melting pot… da sempre… Perché tutto questo?»
Non capisce e, se devo dirla tutta, nemmeno io. In questo momento invidio profondamente i problemi di Gasrad, il protagonista del mio libro, che deve solo svelare il mistero del furto del Libro Senza Parole. Lui non si scontra con un esercito di belve che fino a poco prima erano i suoi concittadini. Non è nemmeno un combattente: è semplicemente un nano – nel senso mitologico del termine – erudito che si presta, per sete di conoscenza, ad intraprendere il viaggio e le indagini, nei panni di un improvvisato investigatore.
Gli abissi che nascondono l’inquietudine di oggi sono troppi e tutti ugualmente contorti. Non si tratta solo di discriminazioni razziali o di un’economia che zoppica in maniera preoccupante. Sono radici di un albero che affondano in un substrato di malcontento vecchio e marcio, di cui probabilmente nessuno ricorda più i veri motivi. O forse li ricorda e preferisce usarli per fomentare rivolte, piuttosto che impiegarli per trovare soluzioni.
«Non lo so, Phils. Ci sono cose che, per quanto uno possa studiare, non può capire fino in fondo» rispondo, sentendomi incredibilmente stupido. «Dai, vieni. Ci sono ancora un sacco di schifezze che aspettano te» aggiungo con un sorrisetto ironico, indicando la torma che si allarga ad ondate lungo la via.
Sotto le spettacolari e variopinte insegne dei negozi di Camden, una schiera di figure indaffarate avanza compatta. Un ostinato frusciare fa da sottofondo musicale al mormorio indignato ed alle esortazioni dei volontari. Ci hanno soprannominato “Brooms Army”, “l’esercito delle scope”. All’inizio l’avevo trovato ridicolo, mi faceva venire in mente un plotone di sguattere con abiti dell’Ottocento che ramazzavano con scope di saggina e cuffiette di pizzo in testa. Quando in metropolitana ho confidato a Phillis il timore di ritrovarmi in quei panni, lei ha fatto una smorfia rassegnata scuotendo il capo. Proprio come faceva sua madre quando le raccontavo dei miei progetti di diventare uno scrittore a tempo pieno. Peccato che non ci abbia creduto quanto me. È stato uno dei motivi del nostro divorzio, la poca fiducia di Elizabeth nelle mie chance, non solo nel mondo letterario.
«Tu!» strilla all’improvviso una voce all’altro capo del negozio.
È un uomo dall’aria stravolta, che avanza barcollando tra le macerie. Indica mia figlia con fare accusatorio.
«Tu! Che vuoi? Non ti è bastato? Non ti è bastato?!»
Phillis si stringe contro di me.
«Papà… papà, che vuole?» pigola spaventata.
Ho un brutto presentimento. Le immagini di ragazzini che saccheggiavano gli esercizi commerciali messi a soqquadro sono passate di continuo nei notiziari e campeggiavano ingigantite all’inverosimile sui quotidiani. Quell’uomo deve essere il proprietario e la sua reazione mi dice che ha assistito alla razzia.
Gli mostro la scopa, pronto a spiegargli che siamo solo di passaggio, che non siamo lì per dargli fastidio, ma prima che possa dire una parola, quello riprende la sua invettiva.
«Sì, sì, anche tu!» urla indicandomi. «Che volete prendervi ancora? Non mi avete lasciato niente! Nemmeno gli occhi per piangere!» strilla, afferrando un oggetto da terra e minacciandoci.
Non capisco cosa sia, ma decido di allontanarmi. Se da un lato mi sento offeso, dall’altro non lo biasimo affatto: un reporter ha documentato di come genitori travolti dalla ferocia notturna avessero incitato i figli al furto, standosene fuori dalle vetrine infrante o comodamente seduti nelle auto, in attesa della refurtiva.
Per un attimo ho la strana impressione di essere finito nel mio libro, nel sesto capitolo, dove Gasrad si aggira nei meandri del mercato all’ombra della Fortezza del Vento. In quel paragrafo, il mio personaggio si trova faccia a faccia con uno dei precedenti custodi del Libro, un povero diavolo dalla mente sconvolta, pronto ad attaccar briga con chiunque. Lo scontro viene evitato per un soffio dall’intervento provvidenziale di un ambulante che allontana Gasrad con la scusa di un’offerta imperdibile.
Non ho bisogno di richiamare Phillis: mi basta prenderla per mano perché mi segua verso il marciapiede opposto. So che sta continuando a voltarsi per controllare se quell’uomo ci segue, ma so anche che non ci accadrà niente, perché c’è troppa gente attorno a noi. C’è pure un discreto dispiegamento di forze di polizia, schierato in modo strategico per intervenire in caso di necessità. Spero proprio che non serva.
Aggiriamo una cabina telefonica divelta, oltrepassiamo vetrine distrutte, scavalchiamo rifiuti e resti dei furti sparsi sull’asfalto. Gli strilli del negoziante derubato si assottigliano, scomparendo nell’allegro brusio dell’esercito.
Ci avviciniamo ad una palazzina dall’aria meno bislacca di tante altre alle nostre spalle – le facciate di Camden sono un caleidoscopio di bizzarrie fatto apposta per impressionare i clienti -. Lei siede sul gradino davanti alla porta. Qui qualcuno ha già dato una prima spazzata, allontanando le cose più ingombranti. Dallo zaino prendo una bottiglietta d’acqua e la porgo a Phillis. È una ragazza forte, proprio come sua madre, ma ha bisogno di qualche minuto per calmarsi. Ora più di prima avrei voglia di essere a casa, a sentirla ridere mentre chatta con i suoi amici ai quattro angoli del globo. Penso che avrei dovuto impormi maggiormente, farla desistere dal suo proposito, non lasciarmi coinvolgere. Ma tanto io sono perseverante, tanto lo è lei. E tanto Elizabeth riesce ad essere idealista pur nel suo essere pragmatica, così è Phillis. A volte penso che percepisca l’avere noi per genitori come una sorta di immeritata condanna e che viva il nostro divorzio come uno sconto di pena. Doverci sopportare uno alla volta, secondo suo gusto, deve aiutarla molto.
«Buon pomeriggio, giovanotto» saluta cordialmente una voce, interrompendo le mie elucubrazioni da genitore single.
«Buon pomeriggio» replico distrattamente, stiracchiandomi.
Il termine “giovanotto” mi fa sorridere. Sembro molto più giovane dei miei quarantadue anni, non mi stupisce essere scambiato con un universitario o giù di lì. Phillis dice che sono una specie di Dorian Gray: più scrivo, più ringiovanisco. È il mio stile narrativo a maturare.
Mi volto, con le braccia ancora tese al cielo.
C’è un ometto anziano accanto a noi, sbucato da una porta intatta per miracolo. È basso, tracagnotto, con la faccia naturalmente paonazza ed un timido sorriso. I capelli radi sono di un vago rossiccio.
Guarda mia figlia chiacchierare con un altro membro dell’armata di stradini. Istintivamente faccio un mezzo passo indietro. Dopo il tizio di prima, preferisco evitare ulteriori beghe.
Invece l’uomo scosta il panno dalla cesta che tiene sotto braccio e allunga due tortine di pastafrolla coperte di zucchero a velo. I piccoli contenitori di carta pieghettata che li contengono scricchiolano invitanti.
«Tenga, ve li meritate. Con i nostri più profondi ringraziamenti».
Ha di certo notato la mia perplessità. Solo pochi metri prima stavo rischiando di essere picchiato e qui mi fanno dei regali? E per cosa? Per due colpi di ramazza, dati male per giunta?
Allungo la tortina a Phillis, che la squadra incerta per qualche istante. Poi solleva il viso e sorride imbarazzata.
«È solo un pensiero per ringraziarvi di quel che state facendo per noi. Da soli non ce la potevamo fare» soggiunge l’uomo.
«Oh, beh. Siamo tutti londinesi, no? È pur sempre casa nostra» rispondo scuotendo la scopa, non riuscendo a trovare nulla di meglio da dire.
E pensare che faccio lo scrittore da anni. Possibile che sulla carta le parole fluiscano senza problemi, chiare e continue, mentre esprimendomi a voce fatico ad esternare anche le più banali osservazioni?
Il panettiere si limita ad annuire soprappensiero, ricomponendo i dolci nella canestra.
«Stamattina c’era ancora da farsela addosso» sospira, aggiustando il panno a scacchi bianchi e rossi che protegge i manicaretti. «La Met* girava ancora con i manganelli e gli scudi alle quattro. Hanno detto che era per gli ultimi controlli» spiega, lisciando con cura alcune pieghe della stoffa.
Pare avere un desiderio maniacale di ordine, di pulizia, di rispettabilità, anche in uno spazio così piccolo come può essere una cesta. Non posso dargli torto: l’immagine del quartiere è ancora desolante, nonostante il nostro lavoro.
Lancia un’altra occhiata a Phillis, che sbocconcella piano la tortina.
«Mio figlio è in ospedale» prosegue, nascondendo malamente una lacrima. Nonostante la polvere sulla faccia ed i vestiti, e i capelli in disordine, la mia ragazza sta bene. «Noi abitiamo qui sopra, lui invece sta dalle parti della stazione di Saint Pancras. L’altra notte alla una è venuto qui di corsa, a piedi, perché le strade erano chiuse e piene di gente. Ha cercato di allontanare dei ragazzi che volevano buttare giù la vetrina».
La voce cede in un singhiozzo disperato, seguendo la mano che sfiora una ragnatela di crepe nel vetro.
«Lo hanno picchiato. Anche un poliziotto… anche quello lo ha picchiato… pensava che fosse uno di loro… poi mia moglie gli ha gridato… ha gridato che era nostro figlio… che ci stava aiutando… io mi sono messo in mezzo… ho chiesto aiuto… lo abbiamo fermato…»
Di nuovo mi sento trasportato tra le righe digitate solo un paio di giorni addietro. Gasrad che ascolta il racconto di una mendicante, una povera donna che vive ai margini della società perché accusata di aver infranto la legge. Una donna che aveva solo cercato di proteggere la figlia dalle attenzioni morbose di un nobile. Picchiata e insultata, era stata condannata ad abbandonare la ragazzina, subito affidata al suo aguzzino, implicato nella scomparsa del Libro Senza Parole.
Certo, le due storie sono diverse, lontanissime, nemmeno paragonabili, ma portano dentro lo stesso senso di impotenza di un genitore davanti a un figlio oggetto di soprusi.
«Perché tutto questo? Non c’entravamo niente!» sbotta infine, facendo traballare la cesta sul braccio.
Vorrei rispondergli che è stata solo una protesta finita male, che è stato un caso che non succederà di nuovo. Purtroppo sappiamo che non è così. La disperazione si è tramutata in rabbia cieca, in avidità sfrenata ed è dilagata ovunque come una malattia. Sono scene che abbiamo visto sedici anni fa e che avevamo sperato di aver chiuso a chiave negli archivi, scene che ci era stato promesso non si sarebbero ripetute. Invece rieccole qui, a dirci che sono davvero poche le cose che sono cambiate da allora.
«Paul, lascia in pace quel ragazzo. Non è il caso. Chissà quante ne ha sentite di storie come la nostra!» lo rimprovera una donna corpulenta e dal volto stanco quanto il suo. «Lo scusi, è ancora agitato».
«Si figuri. Chi non lo sarebbe?»
Li guardo andare incontro alla folla, allungando dolci a tutti coloro che incontrano. I sorrisi sembrano sortire lo stesso effetto delle scope, spazzano via la paura e il dolore.
«Ci vorrebbero molte più persone come quei signori e meno come quelli che hanno fatto questo casino. Non solo qui. Il mondo sarebbe più bello, no papà?»
«Penso di sì, ma è difficile Phils» ammetto.
«Cosa c’è di difficile nel volersi bene? Anche tu e mamma vi volete bene, anche se non state più insieme. Anche se tu dici che lei è una rompiscatole e lei dice che i tuoi atteggiamenti sono diseducativi» sogghigna.
«Ah, tua madre dice questo di me? Vorrà dire che andremo a cena da lei stasera. E senza lavarci, così sentirà quanto è stato grande il nostro sforzo per la comunità. Poi vedremo se sono diseducativo!» rispondo sullo stesso tono.
Lo sguardo di Phillis si illumina all’improvviso. Sono pochi i momenti che condividiamo tutti e tre assieme.
«Davvero?» esclama.
La scopa sbatacchia a terra, abbandonata a sé stessa.
«Le racconterò quanto ti sei impegnata in quest’operazione, quanto sei stata scrupolosa e attenta ad ogni angolino. Però poi preparati ad una sgridata da entrambi, visto che nelle tue due camere, le pulizie non le fai mai» sottolineo.
«È una protesta contro assurde imposizioni genitoriali, non c’entra con questo!» obbietta, furba.
All’improvviso mi blocco. È come se avessi avuto una visione, l’immagine di qualcosa che proveniva da un luogo diverso.
«Che c’è, papà?» chiede Phillis.
Una ragazza, vestita di scuro. Un’elfa? No, no… quale elfa. È una ragazza normale, un’umana. Veste con abiti semplici, pratici, che contrastano con i lineamenti eleganti ed il profilo aggraziato del viso. Siede contro un albero, le ginocchia al petto e lo sguardo lontano. Ha i capelli scuri. Parole e voci cominciano ad accavallarsi nella mia testa. Ipotesi, idee, domande, ronzano insopportabili in attesa di essere riordinate all’interno di una trama. La trama. La trama del mio libro. Questa figura, che in qualche modo mi ricorda mia figlia, è la figlia di un borghese che vive poco lontano dalla Fortezza del Vento.
«Papà?» insiste lei, seguendomi mentre mi allontano.
Trovo un angolo di marciapiede abbastanza pulito e mi siedo, la schiena contro il muro colorato di un negozio la cui serranda, seppur incassata e in parte scardinata, ha resistito stoicamente agli assalti. Ammirevole ferraglia.
Addento la tortina senza masticarla mentre frugo nello zaino. Sento la pasta cedere sotto i denti, affondando nel ripieno di mele e ribes nero.** Impiego un po’ per trovare il mio taccuino, sommerso da decine di paia di guanti di gomma, scatole di cerotti, nastro adesivo, bottigliette di acqua, disinfettante mani, mascherine usa e getta, fazzoletti di carta, magliette di ricambio.
Devo sbrigarmi, prima che quella folgorazione si dissolva.
Mando giù un boccone e mi ficco in bocca il resto del dolce.
La penna inizia a scorrere frenetica sulla carta.
La figlia del ricco borghese che vuole uscire dal suo mondo di crinoline, lo scetticismo di Gasrad riguardo l’avere un’assistente, uno sguardo diverso sul mondo che i due attraversano, una scoperta disarmante riguardo al Libro Senza Parole racchiusa dentro un anonimo dolcetto… Tutto prende vita in un bozzolo di frasi a metà, appunti imprecisi, ghirigori il cui senso è noto a me solo.
La trama che avevo pensato per il mio libro prende tutta un’altra direzione, assolutamente inattesa.
«Papà, ma devi proprio?» brontola Phillis, appoggiandosi alla ramazza.
Sa che posso mettermi a scrivere in ogni momento del giorno e della notte, in qualunque situazione. È stata un’altra delle cose che, a lungo andare, ha deteriorato i rapporti tra me ed Elizabeth. Dovrei preoccuparmi del fatto che possa accadere la stessa cosa con mia figlia, ma so come la pensa a riguardo: dato che sopporto le sue nottate attaccata a Skype, a sfinirsi di discorsi con amici più o meno virtuali - cosa che sua madre le nega -, lei accetta di buon grado questa mia stramberia che spesso ci ha fatti incontrare in cucina alle due del mattino per uno spuntino “di riflessione”.
«Quando l’impulso chiama…» ciancico, la testa china sulle pagine.
«Sembra che stai andando in bagno» ridacchia.
Ascolto senza rispondere. Ormai il cavallo della mia immaginazione è lanciato al galoppo e occorrerà un bel po’ prima che decida di rallentare. Altre scene, altri dettagli si affastellano tra la testa e le dita, mettendosi in coda per uscire dall’inchiostro della penna. C’è un esercito. Un insolito esercito celato da un cancello che non permette a nessuno di superarlo. Ci vorrà tutta la sapienza di Gasrad e l’intuizione di… di… di?
Levo per un secondo gli occhi su Phillis. Lei risponde inarcando un sopracciglio.
Torno a scrivere furiosamente. Phillis, Philles, Philen. Sì, Philen. Questo nome mi piace, suona bene. Dà l’idea di una ragazza nata in una buona famiglia, ma al tempo stesso mi riporta alla mente il carattere di mia figlia. Dopo tutto, è lei che me l’ha ispirata, le devo un piccolo omaggio.
Dicevo, occorrerà tutta la sapienza di Gasrad e l’innocente intuizione di Philen per oltrepassare il cancello.
«Va bene, ho capito» sbuffa la mia musa, cominciando a spazzare poco più in là. «Ci penso io ad evitare che ti scambino per un sacco dell’immondizia. Ma stasera spaghetti».
Chi tace acconsente, ovvio.
La sento girarmi attorno, dando colpi stanchi all’asfalto. Forse la gente mi rivolge occhiate divertite o di biasimo. Hanno ragione: in fondo non sono venuto qui per mettermi a fantasticare sulle disgrazie altrui, l’intento era ben diverso.
C’è qualcosa nell’evolversi del mondo che s’intrufola nel mio universo personale, nei miei pensieri, nelle idee. E quando vi ha stazionato per un po’, ecco che il flusso si inverte e dall’interno fugge via, diretto alle pagine di un quaderno o ai pixel di uno schermo. Questa volta i tempi sono più rapidi perché gli eventi sono stati fulminei e talmente inquietanti da smuovermi fin nel profondo. Probabilmente, se non avessi messo piede in queste strade, il bombardamento subito sarebbe sfociato in una sterile implosione. E se ciò che ho visto, letto, ascoltato, ha turbato me, che sono il creatore di questo mondo fatto di parole e punteggiatura, figuriamoci Garsad e Philen.
Chissà che reazione avranno, quando saranno di fronte all’Esercito delle Scope.


*Met: soprannome della Metropolitan Police Service di Londra.
** per questo dolce ho preso spunto da una tortina in commercio in Inghilterra, per un marchio che è un po’ l’equivalente del nostro Mulino Bianco.


Terza Classificata a Parimerito: "Brooms Army" di ely79
Grammatica e Sintassi: 8.5/10

Gli errori che ho trovato sono per lo più imputabili alla distrazione.
“sconvolta e furiosa nel contempo”→ sostituirei “nel” con “al”;
“[…] si finisce per darla vinta a facinorosi”→ “ai”;
“[…] indicando la torma che si allarga ad ondate lungo la via”→ manca il punto dopo “via”;
“se da un lato mi sento, dall’altra non lo biasimo affatto”→ manca un aggettivo dopo “sento” e al posto di “altra”, metterei “altro”;
“mi stupisce d’essere scambiato con un universitario o giù di lì”→ sistemerei questa frase così: “mi stupisce essere scambiato per un universitario o giù di lì”;
“lei risponde inarcando un sopraciglio”→ “sopracciglio”;
(NdA. Errori corretti)

Lessico e Stile: 9.5/10

Grazie al tuo stile fluido e al tuo lessico “ricco” e suggestivo, mi sono sentita partecipe delle avventure di Phils e suo padre. Hai sempre scelto con cura gli aggettivi e i termini per descrivere determinati stati d’animo o azioni. Ad esempio, mi ha colpito molto questa frase: “i piccoli contenitori di carta pieghettata che li contengono scricchiolano invitanti”; mi è proprio sembrato di sentire il fruscio della carta mentre leggevo. Complimenti.

Trama: 19/20

Da dove iniziare ad elencare i motivi per cui questa storia mi ha colpito? In primis, per la tua capacità espositiva e per l’attenzione che hai posto nel tracciare l’immagine di Londra durante un evento così devastante per la metropoli (Bellissimo il paragone con Dorian Gray che ben si sposa con l’ambientazione). Tra le righe si respira proprio quell’aria di desolazione e disperazione che incombe sulla città dopo il passaggio del Brooms Army.
Parliamo adesso del tuo scrittore: non mi è parso il solito scrittore che vive solo di ideali, nonostante la sua scelta in ambito lavorativo abbia condizionato il suo matrimonio. Mi piace anche il rapporto che ha instaurato con sua figlia: le lascia una certa libertà, ma la segue nella sua decisione di andare per le strade di Londra. Inoltre, trovo stimolante il fatto che le idee per il suo libro gli vengano involontariamente fornite dalla realtà che lo circonda.
C’è una frase molto bella che mi ha fatto (scusa il gioco di parole) sorridere: “i sorrisi sembrano sortire lo stesso effetto delle scope, spazzano via il dolore e la paura”.

Giudizio Personale: 4.5/5

Totale: 41.5/45
   
 
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