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Autore: Sophrosouneh    24/01/2012    4 recensioni
“Basta una parola, un verso, un sussurro e quello che scrivo dalla pagina magicamente prende vita.
Sono uno scrittore, e vi potrà sembrare scontato.
Ma io plano su mondi infiniti e dagli aspetti più svariati cavalcando le nere ali di un corvo. Amo questo mio folle mondo come un cieco spasima per vedere la luce del sole.
Nel mio universo non si cammina a testa in giù, e non si praticano magie multicolori danzando ai piedi di incantati arcobaleni.
Nel mio universo si vive, e lo si fa tutti assieme.
Siamo una grande famiglia d’inchiostro.” (cit.)
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Autore: Ss904, Sophrosouneh (su Efp)
Titolo: Siamo una grande famiglia d’inchiostro.
Genere: Introspettivo, Malinconico
Beta Reader: No
Avvertimenti: Raccolta di flashfic (più o meno lunghe)
Introduzione: “Basta una parola, un verso, un sussurro e quello che scrivo dalla pagina magicamente prende vita.
Sono uno scrittore, e vi potrà sembrare scontato.
Ma io plano su mondi infiniti e dagli aspetti più svariati cavalcando le nere ali di un corvo. Amo questo mio folle mondo come un cieco spasima per vedere la luce del sole.
Nel mio universo non si cammina a testa in giù, e non si praticano magie multicolori danzando ai piedi di incantati arcobaleni.
Nel mio universo si vive, e lo si fa tutti assieme.
Siamo una grande famiglia d’inchiostro.” (cit.)
Note:doveva essere una raccolta… ma se non la si legge tutta assieme non ci si capisce niente! Quindi capitolo unico.


Siamo una grande famiglia d’inchiostro.
-racconti di Civestron-



Basta una parola, un verso, un sussurro e quello che scrivo dalla pagina magicamente prende vita.
Sono uno scrittore, e vi potrà sembrare scontato.
Ma io plano su mondi infiniti e dagli aspetti più svariati cavalcando le nere ali di un corvo. Amo questo mio folle mondo come un cieco spasima per vedere la luce del suo sole.
Nel mio universo non si cammina a testa in giù, e non si praticano magie multicolori danzando ai piedi di incantati arcobaleni.
Nel mio universo si vive, e lo si fa tutti assieme.
Siamo una grande famiglia d’inchiostro.

Mare in burrasca.

Elisa aveva il mare in burrasca negli occhi. Dardeggiava sguardi stizzosi in giro per tutto il paese. Fiera e superba non ti avrebbe mai guardato, a meno che tu non le avessi donato una mela. Il frutto dal colore del fulgido oro la stregava a tal punto da farla sciogliere in un dolce sorriso.
“Grazie, Pascal” mi sussurrava schiva, arrossendo e correndosene via verso il vecchio fienile.
Elisa insegnava ai bambini filastrocche che parlavano di bianche meringhe e li castigava con la canna di salice, frustando le piccole mani dei discoli fanciulli.
Ma di notte i cavalloni che le agitavano lo sguardo si placavano, e lei pregava in riva al mare che il suo amore lontano tornasse dalla sua ultima pesca.
Era partito da mesi ormai, e l’oscuro profilo del peschereccio di famiglia, non aveva mai fatto capolino sulla linea scura dell’orizzonte.
Lei piangeva e pregava, non perdeva mai la speranza e la forza di lottare.
Lei non sapeva che lui giacesse nell’ultima tomba di Civestron Cimetry.
La burrasca ne aveva riportato indietro soltanto un cadavere muto.
  
Aspettai e udii risuonare la campana morente.
Una volta, e di nuovo ancora.
Sbiadisce pian piano il sottile ricordo di te.
  

Essenza di Lavanda.

“Signor Pascal, se continuerà così finirà per ammalarsi sul serio!” quella voce era autoritaria, ma, allo stesso tempo, materna.
Non mi voltai neppure, avendo riconosciuto il dolce profumo di biscotti e lavanda di Tata Concetta.
“Non sono più un bambino”
“Lo so, ma non lascerò che si prenda un malanno.” Ribatté cocciuta passandomi una vecchia coperta infeltrita.
“Va a casa” sussurrai piano, mentre lasciai scorrere lo sguardo sulle carte che affollavano la scrivania.
“Come desidera. Ma soltanto per oggi!” ci tenne ad aggiungere.
Si avviò zoppicante con la vecchiaia che incalzava costantemente alle spalle. Concetta era madre, sorella e nutrice di un po’ tutti al paese. Dispensava biscotti appena sfornati per tutti i bambini.
Era madre di tutti e di nessuno, l’unica creatura che avrebbe voluto accudire era nata con il segno della morte sul volto.
Si chiamava Lavanda, come quelle spighe violacee che infestavano il giardino di una casa troppo grande per una donna sola.

Fiabe, stornelli, girotondi festati.
Il mio cuore batte ancora il ritmo
dell’infanzia che ho perso.


Cuore Tamburino.

Batteva a ritmo di tamburo il cuore possente del fabbro dalla faccia sporca di caligine e sudore.
Herman tormentava il ferro arroventato con il martello che stringeva nella mano destra. I colpi rimbombavano creando una strana armonia capace di incantare gli uditori a metri di distanza.
Il cuore di Herman rintoccava con la sua arte di forza. Era un uomo possente che aveva combattuto tutta la vita per condurre un’esistenza normale.
Con una mano nerboruta si scosse le lamine di ferro dalla chioma corvina e tornò al suo lavoro prioritario: gli avevo confezionato un nuovo cancello per la tenuta, ed ero sicuro non avrebbe deluso le mie aspettative.
Costretto a compiere quel suo sporco lavoro seduto su un alto sgabello, ancora malediceva quel giorno di trent’anni prima in cui il padre lo aveva spinto sotto l’aratro, amputandogli di netto una gamba.
Era malato di Alzheimer e Herman non gliene aveva mai fatto una colpa.
Ma quando, pochi mesi dopo, la malattia lo aveva reciso, Herman non aveva pianto sulla sua tomba.

Non ci sono rimpianti.
Nessuna preghiera.
La mia vita è solamente
schiava del ricordo.


Le orecchie di Dio.

Sotto il cielo plumbeo tipico di Civestron, suonava a morto la campana della chiesa parrocchiale.
Non appena Peter, il giovane sagrestano minuto e dagli occhi sporgenti, ebbe terminato di suonare il pesante strumento, si appoggiò ad uno dei pilastri della torre campanaria. Aggiustò meglio la veste terrosa che indossava per il suo noviziato, e sorrise guardando l’abitato dall’alto. La torre dominava l’intero paese dal camposanto alla mia grande tenuta coltivata ad ulivi.
Peter era un giovane a modo: devoto al signore e alle sacre liturgie. Abbandonato alle cure del priore della diocesi in tenerissima età da sua madre –serva del demonio, la chiamava il reverendo- ormai conosceva, meglio delle più incallite suocere, ogni scandalo e bassezza dei compaesani.
“Peter, vieni subito giù, devi scavare la fossa per Mr.German ricordi?” gli urlò il parroco.
Mr. German, era una storia curiosa la sua.
Per la moglie era morto in seguito ad arresto cardiaco. Per il signore buon Gesù –che tutto contempla- e per il giovane sagrestano aveva passato la notte con una focosa squillo di nome Natasha.

Glorifica sempre Dio, buon Pastore.
Ti prego, Signore, fa di me il tuo umile gregge.
Glorifica sempre Dio, buon Signore.


Teste di Strega.

Demonessa dai fulvi capelli e dalle guance spruzzate di lentiggini era la donna che abitava nella casa al crocevia del cardo e del decumano. Si vociferava si chiamasse Florenzia, ma in pochi potevano asserire di averci parlato e di conoscere che tipo di persona fosse. La donna che abitava nella casa di fronte l’aveva descritta come una pazza schizzata il cui unico passatempo era parlare da sola e biascicare malocchi. C’era addirittura qualcuno pronto a giurare di averla vista aggirarsi di notte per il cimitero vicino alla cappella della mia rispettabile famiglia con in mano un teschio cavo, altre versioni sostenevano che quella fosse invece una testa mozzata di fresco. Insomma, la verità comune era che Florenzia fosse una specie di strega.
E in parte era vero, come in qualsiasi leggenda, c’era un fondo di verità, Florenzia odiava che la si andasse a disturbare, era scontrosa e asociale, ma era anche una nota studiosa di medicina, trasferitasi in questo sperduto paesino per ottenere un poco di calma e respiro dal caos cittadino. Lavorava sodo ed aveva un'unica insana passione.
In bella mostra sulla mensola del suo camino stavano appollaiate quattro teste umane in evidente stato di avanzata decomposizione.
Erano i suoi ghignati tesori.

Nessuna lacrima scende da occhi che non desiderano vedere.
Nessuna lacrima bagna più questo mio cuore.


La voce di Diana.

Delle volte passavo ore a guardarla rapito. Possedeva in corpo una tale grazia quella fanciulla che era impossibile non rimanerne abbagliati ed estasiati al contempo.
Portava aurei boccoli acconciati in una lunga treccia intessuta con margheritine di campo. Diana correva silvestre in lungo e in largo per i campi e i boschi. Non ho mai saputo quale fosse il suo nome, perciò decisi di chiamarla così, visto che tanto bene incarnava lo spirito di madre natura. Era un’anima libera, nata allo stato brado. Viveva di aria pura, rugiada scintillante e bacche raccolte dal sottobosco.
Un giorno, quando mi avvicinai a lei e provai a parlarle, lei corse a nascondersi dietro ad un albero. Pian piano ottenni un minimo della sua fiducia. Lasciai che si avvicinasse come mansueta cerbiatta. Fu lei a spezzare il silenzio del luogo, e la sua voce si rivelò più angelica di quanto mi sarei mai aspettato; mi disse: “Profumi di Orchidee”.
Ne rimasi sconvolto, avrei potuto facilmente assuefarmi a quella voce canterina, ma non ne ebbi mai il tempo. Così come era apparsa, la dolce driade disparve nel nulla.
E a me non rimase altro che il miraggio di una visione.

Sulle ali del vento
Si discioglie il mio cuore
In stille di brina.
La grande madre invoca il mio nome a gran voce.


Conoscevo un Amico.

Conoscevo Frederic da una vita. Avevamo avuto lo stesso istitutore da bambini e avevamo vissuto quasi in completa simbiosi fino alla modica età di quindici anni. Poi non ci parlammo mai più e credo di non essere falso testimone se dico che non riuscivamo a sopportare la reciproca presenza. Frederic era tutto ciò che io avessi mai desiderato diventare: benestante, bella moglie, bella casa, giacca, cravatta e una sfolgorante carriera da principe del foro.
E io ero tutto ciò che Frederic avesse mai voluto essere: un nobile squattrinato e nullafacente innamorato della dolce Calliope.
L’ultima volta che mi imbattei nel mio vecchio amico notai un’ aria di spossatezza nelle pesanti borse che gli contornavano gli occhi. La postura curva, le spalle cadenti. Quello non era Frederic. Se mai sarei potuto esserlo io!
Quando mi passò accanto e i suoi freddi occhi verdi mi si puntarono addosso percepii una strana sensazione lungo la schiena. Fu come se tutti quegli anni non fossero stati più lunghi di un giorno. Avrei voluto abbracciarlo, accogliendolo con un caldo sorriso.
Ma non lo feci.
Lo guardai camminare silenzioso lungo la sua strada. Da solo.
E adesso, che sono passati più di vent’anni da quel momento, non passa giorno che quegli occhi disperati non mi tornino in mente. Gli occhi vuoti di qualcuno che sa che, sterminando la propria famiglia, è appena rimasto completamente solo.

Nel cuore di ognuno c’è un mostro.
Solo la famiglia aiuta ad affrontarlo.
Quando questa manca,
il mostro ha già vinto.


Spezzoni di Vita.

Vi siete mai svegliati di notte di soprassalto inseguiti dai vostri peggiori incubi?
A me succedeva sempre. E tal volta, di giorno, continuavo a venir rincorso da fiere invisibili, e ad affogare in mari neri come il petrolio.
Dicevano che non era normale. E i medici non mentivano mai, così mi era stato insegnato da quando ero entrato in questa grande famiglia.
Pian piano, cigolante lungo il corridoio immacolato, transitò il vecchio carrello del ragazzo delle pulizie. Nell’aria si espanse il rock melodico dei uno degli ultimi successi di qualche spumeggiante band del momento. Arrivato davanti alla porta del mio appartamento, il cigolio si fermò e intravidi, attraverso lo spiraglio di luce che filtrava dalla porta socchiusa, la figura secca e allampanata dell’inserviente del secondo piano, Peter, che lavava il pavimento brandendo la scopa come una sorta di chitarra elettrica. Era un tipo eccentrico il ragazzo, vestiva gotico e portava attaccate al corpo più croci di un altare nel giorno di pentecoste.
Improvvisamente quel buffo balletto sgraziato terminò e si avvicinò il suono ovattato, e che mai potrei dimenticare, delle pantofole ortopediche della dottoressa Concetta. Passando accanto al giovane gli tirò un amorevole scappellotto, scatenando un mugolio di protesta.
Bussò piano alla mia porta, e, quando entrò, mi apparve la bassa figura di una donna sulla sessantina con i capelli castani cotonati e un buffo pullover incrostato di peli di gatto.
“Come sta quest’oggi, signor Pascal?” mi chiese afferrando meccanicamente la cartellina alla base del letto.
“Non mi posso lamentare.” Risposi io, dimentico quasi della notte insonne appena trascorsa.
“Incubi?” domandò, cominciando a riempire uno dei suoi soliti moduli.
“Il solito”
“Mhhh” mugolò scettica cominciando a scribacchiare con quella calligrafia oblunga che tanto le invidiavo.
“Che notizie mi porta dal villaggio, dottoressa?” le chiesi aprendomi in un dolce sorriso.
“La nuova arrivata si è messa di nuovo a correre nuda in mezzo al giardino e ci sono voluti quattro infermieri per riportarla dentro.”
“Poverina. –sospirai, sinceramente dispiaciuto- Elisa come sta?”
“Signor Pascal, le ho detto almeno un miliardo di volte che non ci sono soluzioni immediate per guarire qualcuno affetto da sindrome da stress post traumatico. Quindi eviti di chiedermelo ogni volta, perché otterrà sempre la stessa risposta!”
Io sospirai. Provavo una sincera ammirazione per Elisa, era una donna forte e combattiva che aveva lottato per una vita intera contro tutto e tutti. Alla morte del fidanzato le era crollato il mondo addosso.
“Mi dispiace.”
Concetta mi guardò intensamente per qualche secondo, e lessi, in quello sguardo affranto, il dolore di chi sa cosa significhi perdere qualcuno di caro. Sua figlia le era morta in grembo. Non fu facile superare il trauma.
“Ancora dietro a quel suo libro, vero? Quand’è che me lo farà leggere?” mi chiese, quasi per spezzare il silenzio che era venuto a crearsi.
“Pazienza Concetta. Porti pazienza.” Le risposi accennando ad un sorriso.
“Pensa di riuscire a finire il tutto prima del mio pensionamento?” chiese sarcastica.
“Oh, ma lei non è così vecchia!”
Lei si concesse una risata liberatoria.
“Sorvolando su questo argomento, quindi le sue allucinazioni stanno migliorando?”
Non potevo dirle che vedevo uno Stregatto -come quello di Alice nel paese delle meraviglie- farle capolino da dietro la schiena.
“Nella norma diciamo.”
“Nessun miglioramento?”
Non seppi più cosa rispondere.
Lei interpretò correttamente il mio silenzio e tornò a scribacchiare qualcosa su quella sua cartellina usurata.
“Bene signor Pascal, ci vediamo domani mattina, e, mi raccomando, si ricordi della sua medicina!” mi disse, uscendo di gran carriera dalla stanza, lasciandosi dietro un delizioso profumino di biscotti.
“Potrei avere dei biscotti?” mi ritrovai ad urlarle dietro.
“Vedrò cosa posso fare.” Mi giunse lontana una voce dal corridoio.
Sorrisi inconsciamente, alzandomi dal letto e affacciandomi alla finestra della mia camera che dava sul cortile interno. La prima cosa che vidi fu l’infermiera Florenzia che spingeva la sedia a rotelle del generale in congedo Herman Donfter, sopravvissuto all’Iraq e mutilato in un incidente in campagna. Non aveva mai superato il congedo dall’esercito.
Florenzia era ancora una novizia al Civestron’s Psycological Hospital, ma aveva dato prova di un temperamento niente male, oltre ad una necrofilia a livelli piuttosto preoccupanti.
E poi, finalmente, il mio sguardo si posò su colui che cercavo.
Presi la vestaglia dalla sedia accanto al letto e mi avviai in cortile.

“Pensi di potermi concedere una partita?”
“Hai voglia di perdere, Pascal?” mi disse, non accennando a staccare gli occhi dalla scacchiera che aveva davanti.
“Ma chi sono io per impedirti il suicidio?” continuò mentre un sottile sorriso irrisorio gli si dipingeva sul volto.
“Non pensi che sia troppo presto per cantare vittoria, Frederic?” gli chiesi mentre mi accomodavo comodamente sulla sedia di fronte alla sua.
“Perché giochiamo tutte le mattine e non ti è mai riuscito di battermi una sola volta!”


Uniti nella disgrazia viviamo in un mondo tutto nostro fatto di follia.
Siamo una grande famiglia d’inchiostro.



Piccola Spiegazione:Quindi sì, lo scrittore è un malato mentale, ricoverato in un ospedale psichiatrico che racconta la sua vita così come la vede attraverso la malattia. Soffre di allucinazioni, e ciò che vede lo riporta su carta. L’ultima parte però racconta la vita dell’ospedale e non è ciò che lui ha scritto.
Sesta classificata al contest “Origami di Carta” di Fe85. E vincitrice del premio Piuma per il miglior stile.



  
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