Autore:
nali; ( Nali )
Titolo: Biro blu
Genere:
Introspettivo, malinconico, generale.
Beta Reader:
Wynne_Sabia
Avvertimenti: One-shot
Introduzione:
Il treno ripartì sferragliando; trascinò con
sé centinaia di
passeggeri depressi e assonnati, i loro occhi gonfi di sonno e i loro
sorrisi abbozzati; sparì definitivamente, inghiottito dalla
galleria
ombrosa e umida assieme ai fruscii delle pagine di quotidiani
gratuiti e agli assurdi pettegolezzi mattutini...
BIRO
BLU.
Il treno ripartì sferragliando;
trascinò con sé centinaia di passeggeri depressi
e assonnati, i
loro occhi gonfi di sonno e i loro sorrisi abbozzati; sparì
definitivamente, inghiottito dalla galleria ombrosa e umida assieme
ai fruscii delle pagine di quotidiani gratuiti e agli assurdi
pettegolezzi mattutini.
Partì con quei puntuali due minuti di
ritardo, fin troppo pieno e fiacco, facendo tremare le vetrate
fragili e lesionate del baretto all'angolo. Quel buco cupo e
puzzolente che odorava di caffè e disinfettante. La radio
gracchiava
qualche canzonetta idiota e il ventilatore sul banco sputava, come al
solito, aria viziata e nauseante, mai abbastanza fresca.
Il
cucchiaino tintinnò sul bordo della tazza giallognola e
l'uomo
sorseggiò, con calma e poco gusto, quella brodaglia verde
che poco
assomigliava a un buon tè.
Prese a rigirarsi un quadernetto
consunto tra le mani, alla fine lo arrotolò su se stesso,
costringendolo in una sola. Nessun passo avanti, ancora una volta.
Troppe ispirazioni, continui ed estenuanti flash luminosi, ma
decisamente troppo vuoti e inconsistenti.
L'uomo dalla giacca a
quadri e i mocassini scriveva, o almeno ci provava. Era bravo, aveva
talento. Non che fosse riuscito a pubblicare alcunché.
Lily
adorava sentirsi raccontare le sue storie, si acciambellava al suo
fianco e ascoltava.
Ascoltava finché il fruscio delle parole non
fosse terminato. Ascoltava come se non potesse fare altro.
Ascoltava,
ascoltava Lily; aveva i suoi cinquantasei anni, ma ascoltava come una
bambina.
Lui, Gilbert F., così lo chiamavano al liceo, era uno
scrittore, uno di quelli alle prime armi, eppure in gamba.
Aveva
abbozzato tanti, troppi inizi, ma non aveva mai neppure pensato ad un
seguito. La fine, poi, era un qualcosa di così lontano ed
improbabile che aveva smesso di crederci.
Infilò una mano in
tasca e ne cacciò fuori gli spiccioli, già
contati. Li abbandonò
sul bancone prima di sparire chiudendosi la porte alla spalle.
“Manca
un centesimo, Gilbert! Manca un centesimo, brutto pezzo di merda. La
prossima volta ti denuncio, stronzo!”
L'urlo stridulo di Bob,
quel vecchio pazzo, si consumò nel giro di qualche metro.
Non
l'avrebbe fatto, pensò Gilbert, arricciando il naso per il
puzzo di
piscio all'angolo.
Erano anni che il barista novantenne gli urlava
dietro le sue minacce, erano anni che continuavano a rimanere
solamente tali: minacce.
Sbadigliando, l’uomo superò i cancelli
della stazione e costeggiò la villa brulicante di vecchietti
sdentati e badanti a nero dalle chiome rigorosamente scintillanti.
Al
fianco del marciapiede improvvisato, deserto e poco popolato, si
estendeva la lunga serpentina grigiastra: due corsie stracolme di
auto borbottanti, fumi tossici di scarico e nuvolette di tabacco
bruciato su per i finestrini.
Quella mattina il traffico procedeva
assonnato e lento tra le imprecazioni urlate e gli sbadigli sonori
dei conducenti mezzi addormentati.
Il vecchio Gilbert zigzagò tra
le auto ferme, il quadernetto consunto sotto il braccio ed un sorriso
ironico in faccia. Qualche macchina avrebbe detto presto addio al
disco della frizione. Ah, automobilisti incapaci!
Lasciandosi alle
spalle il rumoroso corteo di ferraglia, Gilbert voltò
l’angolo
accendendosi una sigaretta.
Superò la scuola elementare e si
diresse al parchetto di fronte alla chiesa.
Ignorò bellamente la
costruzione elegante e ben equilibrata, se non fosse stato per la
croce massiccia che troneggiava sull’ammasso triangolare di
tegole
e, fischiettando la canzonetta idiota del mattino, si diresse verso
la sua panchina.
Quella
scomoda scultura morente e mezza arrugginita che da anni lo
accoglieva.
Riservò ancora indifferenza alla “Casa di
Dio”:
la stanzetta umida, che odorava di incenso e cera bruciata.
Non
significava più niente per lui. Prima, tanti anni prima,
avrebbe
urlato appassionato e ridente il contrario.
Un tonfo rumoroso lo
ridestò d’improvviso, costringendolo ad alzarsi e
soccorrere un
ragazzino gemente disteso a terra.
Poco più in la, le rotelline
verde merda di uno di quegli aggeggi strampalati continuavano a
ruotare impertinenti.
“Stai bene, ragazzo?” sussurrò
preoccupato aiutandolo ad alzarsi.
Un altro gemito ed una risata
soffocata, poi due fanali di un azzurro incredibile che occupavano
mezza faccia.
“Sì, nonnetto” ridacchiò
l’infortunato,
allontanandosi.
Gilbert alzò un sopracciglio e sorrise con
lui.
“Nonnetto…” borbottò
fintamente irritato.
Il
ragazzo, zoppicando, afferrò la sua tavola colorata e come
se nulla
fosse gli rimontò sopra.
Gilbert inarcò le sopracciglia,
sbuffando. Chissà perché i giovani continuavano a
volersi
suicidare.
E il “ pazzo” prima di ripartire a razzo si
voltò
verso di lui, mettendo in bella mostra le ginocchia sbucciate ed il
sangue che scorreva giù a rivoli, fin dentro le scarpe;
imitò un
gesto militare di saluto e urlò un –Grazie,
nonnetto!- assieme ad
una risata clamorosa.
Gilbert ridacchiò di cuore, seguendo la
figura slanciata sparire dopo un semaforo e, con gli occhi ridenti,
si riaccomodò sulla panchina. Tirò fuori la penna
dal taschino
della camicia ed agguantò con foga il quaderno ingiallito.
Il
ragazzino virò a destra e assecondando il movimento
inarcò la
schiena e allargò leggermente le braccia; le rotelline
verdognole,
intanto, raschiavano lamentose ed irritate sull’asfalto, ma
non
cedettero.
La manovra, come previsto, si rivelò perfetta.
Il
ciuffo biondo che sporgeva dal cappellino scuro fu soffiato via da
una folata di vento caldo, rivelando il viso chiaro e sereno di quel
pazzo.
Libertà. Solo libertà riuscii a leggere nei pozzi
di un
azzurro incredibile.
Quel dannato ragazzino incosciente,
cavalcando l’aggeggio mortale, sembrava assaporare senza
problemi
la meravigliosa fragranza che sapeva di
possibilità…
Gilbert
sbuffò e, massaggiandosi il mento con il pollice e
l’indice, cercò
di scavare con forza tra la sua molliccia materia grigia, sperando
ardentemente di vedere. Vedere, sì. Osservare la storia di
quel
ragazzo dalle ginocchia martoriate e dallo sguardo
“pieno”
scorrere oltre le sue palpebre socchiuse.
Scalciò una pietra,
imprecando.
Niente, come al solito. Ormai ci era abituato, andava
a finire sempre così.
A differenza di molti, per lui l’inizio
era qualcosa di incredibilmente istintivo e naturale. Il difficile
veniva dopo. Non riusciva a vedere nulla, non riusciva ad assaporare
la vita e l’anima dei personaggi o delle situazioni che
sembravano
venire miracolosamente fuori dalla trama giallognola e consunta di
quelle pagine schifosamente vuote. Era come diventare ciechi
d’un
tratto. Così, senza che qualcuno ne avesse mai accennato
qualcosa.
Che strazio.
Si alzò e, sbadigliando per l’ennesima
volta, puntuale come un orologio da taschino, si fece strada in
quella che da anni amava definire la sua “polverosa pillola
adorata”.
Nessuno stupido narcotico sarebbe mai stato
paragonabile alla cara buon vecchia biblioteca comunale, nessun
miracoloso rimedio fortemente consigliato dal proprio strizzacervelli
personale avrebbe potuto competere con il senso di quasi completezza
ed apparente serenità interiore che la carta impolverata e
vetusta
riusciva a svendergli nel giro di poche, magiche righe.
Fu lì che
si rintanò come tutte le mattine.
Fu lì che tentò, come al
solito, di ritrovare un po’ di se stesso.
Qualche ragnatela e
centinaia -di migliaia- di esserini ad otto zampe a divertirsi sul
suo cappello.
Mosse pochi passi oltre l’ingresso e lo vide.
Lo superò, sorridendo, prima di rivolgersi a lui.
“E’ ancora
lì, Fred?”
“Certo, vecchio. Tra la “E” e la
“G”. Come
al solito.”
“Bene. Grazie, amico.”
“Niente, Gil.”
biascicò questi sbadigliando.
Fred, il folle Fred. Ragazzo fin
troppo alto, allampanato, dalle giunzioni nodose e fragili ed una
palese e preoccupante gobba sulla schiena.
Puzzava di tabacco e
gel. Odiava Pasternak e avrebbe con gioia sposato il caro e buon
vecchio Steinbeck. Laureato in lettere da una vita, troppi anni di
precariato alle spalle.
Aveva scoperto che l’insegnamento non
faceva per lui. Poche parole e troppi pensieri intimi e fumati, in
testa. Preferiva la carta. Lei e l’inchiostro.
Gilbert era
ormai convinto che ci facesse l’amore tutte le sere. Con lei,
la
carta.
Fred conosceva la biblioteca a memoria, ci lavorava a
memoria, l’amava a memoria.
Tutto il suo ippocampo era in
realtà cuore, battito, tachicardia.
Era scaffali fatti di polvere
e aracnidi in accoppiamento.
Fred. Che aspettava un suo libro, il
suo, assieme a quel parallelepipedo sotto vuoto tra la
“E” e la
“G”.
Un buon posto, sì. Per una splendida e rachitica F-
puntata.
Intrecciando le mani dietro la schiena e
trattenendosi dal fischiettare, il vecchio costeggiò diversi
scaffali, per poi infilarsi nel corridoio 4g, quello a destra. Prese
posto sulla sedia a dondolo, la stessa su cui Fred sonnecchiava di
tanto in tanto, quando dar retta alla gente petulante ed esigente
diventava fin troppo complicato, iniziando a fissare con insistenza
l’odiosa pagina vuota.
Dopo qualche minuto agguantò con foga la
sua biro e ci piazzò un punto.
Un punto, blu. Al centro.
Il
vuoto aveva imparato a detestarlo, assieme a tutto quel bianco rigato
che lo perseguitava da una “quasi” mezza vita.
Annoiato, vide
sfilare un paio di persone sconosciute e non.
L’ uomo grassoccio
dal naso lungo e dallo sguardo smorto, che scodinzolava alle calcagna
della cara signora Finch: donna d’alto rango, classe
’35, zitella
a tempo pieno, acidità senza pari. Aveva un gatto, dicevano.
Lui era
riuscito a coglierne solo un’immensa palla di pelo, e
ciò che
rimaneva di una poco probabile coda masticata.
Orazio. Si chiamava
Orazio, il gatto.
Ignorò un tizio dall’aria sospetta che
continuava a guardarsi in giro, stringendo tra le dita scheletriche
un tomo rilegato in pelle scura come si trattasse di una scandalosa
ed alquanto interessante rivista porno; e sorrise ad una giovane
donna dalla pelle chiarissima e le guance rosee. Aveva un delizioso
neo poco più a destra del labbro. Chissà, forse
studiava Filosofia.
Nah, matematica. Sì, matematica.
Fu poi il turno di un ragazzetto
silenzioso, che si fiondò nell’ottavo corridoio a
destra. Rischiò
d’inciampare in una pila di libri nei pressi del secondo
corridoio,
ma per fortuna frenò in tempo, rosso in faccia. Aveva un
sorriso
timido sulle labbra e qualcosa di scalpitante tra le costole. Oh,
sì.
Gilbert ci avrebbe scommesso il suo pacchetto di sigarette, vista la
ragazzina bionda che lo aveva preceduto.
Si trattenne dal
ridacchiare emozionato e nostalgico, sperando ardentemente che Fred
fosse impegnato con le sue di donne stampate e non disturbasse i due
piccioncini. Alice e Mario.
Suonavano bene. Sì, Alice e
Mario.
Ridacchiò ancora, mettendosi comodo, ma prima di rinnovare
i suoi saluti al puntino sul bianco rigato, sbadigliò ancora.
Si
alzò di botto e, senza salutare Fred, uscì di
lì, sperando in cuor
suo che i due ragazzini si sbrigassero.
Annoiato e sovrappensiero,
ripercorse le stradine a ritroso, permettendo alle portiere scattanti
della metro di inghiottirlo in un vortice di apatia e diffidenza, in
quella bolla che puzzava di calzini ammuffiti e giornali appena
stampati.
Si accomodò sul primo sedile vuoto che trovò
-arancione fosforescente- e si guardò intorno. Troppa folla,
tanta,
tanta gente accalcata in un vagone decisamente striminzito e
cigolante. O forse no?
Distolse lo sguardo. Preferiva il poco al
tanto, il dettaglio alla confusione; preferiva sentire il singolo che
sfiorare di poco la massa. E si perse, lì dove nessuno
avrebbe
potuto raggiungerlo.
Si perse tra le fronde cangianti degli alberi
dell’ipotetico ed incantevole mondo aldilà del
vetro, vagò tra le
campagne immense e dorate, sentì i ciottoli troppo poco
levigati di
una stradina sperduta sotto i piedi ed il canto armonioso di qualche
usignolo. Avrebbe potuto farci incontrare Alice e Mario, lì
fuori.
E cullato dal fastidioso ed incostante procedere del mezzo
sotterraneo, afferrò accalorato e fiducioso il suo quaderno,
compagno di una “quasi” mezza vita, prendendo a
scrivere con
foga.
Un vestito a fiori blu ed un cappellino di paglia
trasportato dal vento. Mani che si sfiorano, visi accaldati. Un
gatto.
Un gatto, sì.
Un gatto nero ed una macchiolina grigia
proprio sotto l’orecchio destro; dita fini e lunghe, nocche
distanziate tra quei ciuffi di pelo scurissimi…
Una
frenata improvvisa, lo scatto automatico delle porte, una signora
vestita di tutto punto frettolosa di scendere. Una spallata.
Il
gatto fuggì via.
Alice e Mario anche.
Gilbert spalancò le
iridi aldilà del vetro, ma non servì a nulla.
Mattoncini scuri e
un doppio binario deserto.
Della campagna gravida neanche l’ombra,
nessuna spiga pronta a dare i suoi frutti.
Solo
la schifosissima e beffarda realtà.
Imprecò mentalmente e serrò
gli occhi, ingoiando tutto il suo disappunto e quella maledetta
frustrazione che lo coglieva improvvisa e violenta. Odiava smettere
di vedere.
La voce meccanica, sputata dagli auto-parlanti,
gracidò il nome della sua fermata.
Scese senza una parola mentre
il tabacco bruciato ricominciò a soffiargli nei polmoni.
Il vuoto
nel petto divenne un enorme, profondo baratro.
Anche quel
giorno l’abitudine decise per lui, scollegò i
neuroni decrepiti e
zoppicanti che, affaticati, seguitavano a galleggiargli nel cervello
e guidò i suoi arti verso l’unico posto in cui
avrebbe dovuto
essere.
L’abitudine decise per lui, come faceva ormai tutte le
mattine alle 12:03. Da anni.
E lui l’assecondò come se non
aspettasse altro, come se non potesse far diversamente.
Gilbert
sentì i piedi sprofondare nella fanghiglia scura, ma
proseguì.
Sfilò tra le file di altarini in marmo per poi bloccarsi
dinanzi ad
una nicchia nivea. Si piegò sulle ginocchia,
sfiorò quella foto
scolorita e, ignorando i fiori, afferrò la manciata di fogli
arrotolati, nascosti dietro il vaso.
Srotolò la massa informe e
giallognola lasciandosi sfuggire una smorfia e a malincuore
accartocciò quella pagine di inchiostro colato e sbiadito
ficcandosele in tasca. Prima di sparire lanciò una svelta
occhiata
alle incisioni intrecciate sul marmo bianco e si voltò,
ripercorrendo la via del ritorno.
Esausto, si lasciò cadere su
una delle panchine di legno in piazza, con uno sbuffo .
Stese le
gambe come se quel deciso movimento potesse mettere a tacere
l’atroce
dolore ad intermittenza, il tarlo improvviso e puntuale, che
seguitava a sgranocchiargli le ossa e inconsciamente si chiese quando
fosse iniziata.
Non seppe dirlo.
La risata gioiosa di un
bambino scoppiò qualche metro più avanti. Gilbert
sorrise. Così,
senza una motivazione precisa. Sorrise perché qualche
marmocchio
dalla dentatura probabilmente mancante stava salutando a modo suo il
mondo.
Avrebbe potuto essere il piccolo fratellino di Alice quel
bambino lì. No? Decisamente! Troppo banale e scontato.
Un
piccolo malandrino, forse; una peste estremamente vivace; il
marmocchio furbo che libera l’alano della nonna per vedere il
postino fuggire a gambe levate con l’ennesima raccomandata da
far
firmare ed un dolorosissimo morso sul didietro…
Un sorriso
si aprì sul viso del vecchio, ma non successe altro. Gilbert
non
appuntò niente, non si preoccupò di riempire il
quaderno, tanto
sarebbe andata come al solito e di quella leggera intuizione
sarebbero rimaste poche righe ed un misero, scadente inizio.
Il
suo sguardo si schiuse lento sul reale: il sole giocava con il
fogliame accartocciato del pioppo secolare coloratosi di arancio,
scoppiettando in piccole lucciole tra i triangolini di vuoto; Gilbert
allungò una mano verso gli occhioni caldi e speranzosi del
cagnolino
che gli si era avvicinato scodinzolando.
Lui lo raggiungeva
sempre, lì.
Quella era la loro panchina, il loro piccolo pezzo di
mondo.
“Non ho nulla per te, palla di pelo”
Un
mugolio.
“Niente di niente”
Un altro, ancora.
Gilbert
sbuffò.
“Dici sul serio?”
Il musino umido del cucciolo
adulto sfiorò il palmo teso del vecchio; un muto segnale.
“E va
bene, Hai vinto, tesoro. Parto dallo schiaffo. Tanto so che adori
quella parte.”
Ridacchiò l’uomo, continuando a coccolarlo;
nel mentre srotolava i fogli stropicciati e cominciava a leggere,
sotto voce.
Fino all’ultima riga. Dallo schiaffo.
L’ora di
pranzo trascorse così: ciuffi ramati tra dita grinzose e
tremanti,
uno scrosciare lento e delicato di ricordi, nessun rimpianto, vari
sorrisi.
Lo sguardo di Gilbert scorreva lontano, luminoso e
ridente, perso chissà dove, chissà come; il cane,
intanto, non gli
toglieva gli occhi di dosso godendosi le sue carezze e la solita
litania pomeridiana.
Quella che iniziava dallo schiaffo.
Quella
che si consumava via via, con dolcezza, e si spezzava poi in un
sospiro che non sapeva di amaro, né di dolore. Di speranza e
nostalgia, forse.
Gilbert raccontava così: sussurrando. Come se
stesse dando la buonanotte a qualcuno, come se farlo ad alta voce
avrebbe spaventato la luna, e smetteva di farlo sussurrando, quando
ormai il sole aveva deciso di rintanarsi chissà dove, al
fresco di
qualche valle, forse, lì dove la gente avrebbe finalmente
smesso di
“spiarlo” e tormentarlo.
Gilbert, finita la storia, se ne
stava in silenzio per pochi attimi ed il cagnolino zampettava
giù
dalla panchina; il vecchio si alzava e lui era già di
spalle, la
coda ancora in movimento.
“Ci si vede, Lily. Non andartene. Non
senza di me.”
La cagnolina, guaendo qualcosa, scomparì oltre le
siepi sul fondo, lasciandolo lì, più leggero e
sereno del solito;
peccato per il peso acido e ingombrante sullo stomaco.
Aveva 56
anni, Lily, ma ascoltava come una bambina.
Gil sospirando andò
via da lì, rientrò a casa con un martello
pneumatico nel
cervello.
Perché c’era un pensiero costante, infantile,
assurdo
che continuava a boxare con i suoi scadenti e malridotti neuroni,
rimaneva lì urlante e dispotico come se una bella emicrania
non
avrebbe che giovato al suo precario stato di salute.
Eppure stava
lì, in agguato; continuava a galleggiargli in testa per ore,
come
ogni sera, finché il buio, l’inchiostro e i
sonniferi, che non
avrebbe mai preso, avrebbero fatto il loro effetto.
Ma in fondo
sapeva che avrebbe dato tutto, tutto per lui: lo schiaffo.
Dopo
aver dato fuoco ai ceppi secchi del camino, cercò di
metterlo al
tappeto, quell’assurdo mal di testa.
Si trascinò alla scrivania
e ridacchiò pensando che avrebbe dovuto smetterla.
Rise ancora,
sapendo che erano anni che continuava ad imporselo senza riuscirci,
né provarci.
Accese la lampada e afferrò la solita penna a
inchiostro blu.
Dimenticò le ginocchia sbucciate e quell’aggeggio
colorato, Alice e Mario, il gatto dalla coda masticata e la cagnetta
Lily.
Sorrise e lasciò che la sua fedele mano raggrinzita
scorresse dolce su quel rettangolo bianco, lasciò che il
cuore
riprendesse a battere potente e innamorato. Lasciò che
l'ispirazione
galleggiasse lieve, senza costrizioni.
Che vagasse, corresse,
andasse oltre.
Che lo facesse per lui.
Aveva trecce
scure, lentiggini sul naso e splendidi occhi verdi.
Mi sorrise per
la prima volta dopo sedici anni, quando dopo avermi schiaffeggiato la
baciai.
Il segno delle sue dita infiammò la mia guancia destra
per ore, le mie labbra incendiarono le sue per giorni, anni
interi.
L’amavo e per qualche assurda ragione, la disperazione
credo possa essere una motivazione decisamente probabile, lei aveva
finito per amare me.
L’amavo e fu così per tanto, tanto
tempo…
E Gilbert scrisse, ancora.
Scrisse una
storia bellissima, quella che regalava a sua moglie ogni settimana;
la stessa che infilava lì, tra un vaso di fiori appassiti e
smorti
ed il gelido marmo che l’accoglieva.
Perché sì, l’uomo con
la giacca a quadri e i mocassini scriveva.
Scriveva e raccontava
la sua Marie.
La donna permalosa e testarda che lo aveva stregato
con uno schiaffo e bruciato con un bacio.
La donna che lui
continuava a rendere immortale.
Gilbert F. scriveva.
Scriveva,
sì.
Sapendo che il vuoto tra la “E” e la
“G” non lo
avrebbe riempito mai, ma continuava a farlo.
Perché quello era
l’unico modo.
L’unico per assaporare e rivivere lo spettro di
una vita consumata e lontana, della vita che qualcuno aveva osato
rubargli, senza preavviso.
Scriveva, sperando che un giorno quel
finale tanto ricercato si facesse vivo.
Perché non vedeva l’ora
di posarlo quel quadernetto e raggiungerla.
Perché, forse, la sua
voglia di scrivere era terminata ventidue anni, trentasei giorni e
due ore prima, proprio quando era iniziata per disperazione,
necessità, amore.
Era andata a farsi fottere, da qualche parte,
lì dove il cumulo di ossa che aveva scaldato troppe volte e
un cuore
ormai debole, il suo, continuavano a gelare tra le falangi sterili di
terra scura e rinsecchite tavole in noce.
Ventidue anni, trentasei
giorni, due ore e cinquantasette secondi prima sua moglie aveva
deciso di lasciarlo.
Così a metà.
Occhi lucidi, respiro mozzo
e stupide pagine bianche rigate tra le dita.
E una biro.
Blu.
Quella che continuava ad arrancare e sputare inchiostro
lucido.
Lo faceva da tempo, ormai. Forse troppo.
Da ventidue
anni, trentasei giorni, qualche ora e una manciata di secondi.
La
linea spezzata si arrese, rinnegò la propria imperfezione
divenendo
retta e infinita; il suono insistente, continuo, stridulo, che pochi
attimi prima risuonava in un tranquillo “bip-bip”,
lacerò i
timpani rimbombando tra le pareti ingiallite e spoglie di quella
stanza d’ospedale.
Lei andò via, sorridendo. Il suo cuore aveva
deciso di arrendersi e portarsi appresso il mio. Non mi opposi.
Le
palpebre traballarono stanche fino a chiudersi del tutto, la mano
scivolò sul fianco, la lampada rimase accesa.
Gilbert si
addormentò così. La biro ancora in pugno, i
ricordi fermi, pulsanti
nella sua testa.
Si addormentò salutando l’ennesimo giorno,
come al solito; un paio di occhi verdi fissi nei suoi.
****
Il
treno ripartì sferragliando; trascinò con
sé centinaia di
passeggeri depressi e assonnati, i loro occhi gonfi di sonno e i loro
sorrisi abbozzati; sparì definitivamente, inghiottito dalla
galleria
ombrosa e umida assieme ai fruscii delle pagine di quotidiani
gratuiti e agli assurdi pettegolezzi mattutini.
Partì con quei
puntuali due minuti di ritardo; fin troppo pieno e fiacco, facendo
tremare le vetrate fragili e lesionate del baretto all'angolo; quel
buco cupo e puzzolente che odorava di caffè e disinfettante.
La
radio aveva smesso di ciarlare ed il ventilatore era spento da
tempo.
Il vecchio Bob aveva deciso di denunciare lo stronzo che,
ogni mattina, da anni, seguitava a lasciargli un centesimo in meno
sul banco. Lo denunciò tra risate isteriche e lacrime
infami, mentre
la saracinesca arrugginita del “Bobar” fu calata
per la prima
volta, di sabato, poco prima che la bara in noce sfilasse in silenzio
tra mazzi di fiori e corone galleggianti, per riposare accanto alla
sua gemella. Nemmeno l’ombra dei fogli accartocciati al
vaso.
Nell’esatto istante in cui il primo pugno di terra umida
abbracciò il nuovo arrivato, l’uomo allampanato
con la gobba diede
buca alle sue donne d’inchiostro e, tirando su col naso,
riempì lo
spazio sottovuoto tra la “E” e la
“G”.
“Niente, Gil”
sussurrò triste e sparì, dopo aver dato
l’ennesima lunga occhiata
al “pieno sottovuoto” del corridoio 4g.
Pagine d’inchiostro
colato tra libri rilegati in pelle; scrittura tremante e
“Marie”
a ripetizione; sospiri di un vecchio pazzo, cagnette cinquantaseienni
e rotelle verde merda tra avvincenti e geniali trame impolverate.
Pagine d’inchiostro in un mondo di carta. Ed un punto. Blu.
Perché
Gilbert F., così lo chiamavano al liceo, scriveva.
Scriveva la
sua Marie.
Scriveva le sue trecce scure e il vuoto sottovuoto che
gli aveva lasciato, tra le costole.
Scriveva e lo aveva fatto fino
alla fine.
Poi qualcuno lo aveva finalmente riportato a casa, e
dei ferri del mestiere, che lo avevano tenuto in vita per ventidue
anni e trentasette giorni circa, non erano rimasti che un
mangiucchiato cilindro plastificato, un ammasso di carta non rilegato
a cura di un certo F. e irritante, inutile inchiostro secco.
Blu.
Gilbert era a casa, ora; la sua vita stampata anche.
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Decima classificata al "Origami di carta"- contest indetto da Fe85 (che ringrazio ancora^^)
Un mega ringraziamento alla mia splendida beta: Wynne_Sabia. (mi spiace, Anna, ma la stupidità della Nali, ha mandato in fumo tutti i tuoi sforzi ç_ç. Te ne sarai già accorta. Sono ufficialmente un’idiota ù.ù )
Ecco qui il giudizio:
Decima
Classificata: "Biro Blu" di (Nali)
Grammatica
e Sintassi: 7/10
Di seguito riporto gli errori in cui mi
sono imbattuta:
-“56 anni”→ tendenzialmente i numeri vanno
scritti in lettere;
-“Partì con quei puntuali due minuti di
ritardo; fin troppo pieno e fiacco, facendo tremare le vetrate
fragili e lesionate del baretto all'angolo;” → non
è corretto
mettere due punti e virgola così vicini senza un punto a
dividerli,
è un pò come mettere due volte due punti nella
stessa frase;
-“Lasciandosi alle spalle il corteo rumoroso di ferraglia
alle sue spalle” → corteo rumoroso di ferraglia mi
stona così
come è messo, il complemento di materia dovrebbe essere
attaccato
all'oggetto a cui è collegato, mentre
“rumoroso” sta meglio sia
prima che dopo i due termini. Questo non è un errore vero e
proprio,
è una questione di gusto personale;
-“E’ ancora lì. Fred?”
→ il punto è al posto della virgola;
-“E, cullato dal
fastidioso ed incostante procedere del mezzo
sotterraneo,”→ la
virgola dopo la "E" è inutile quando si trova a capoverso,
non serve la pausa se si ha appena cominciato a leggere;
-“Esausto,
si lasciò cadere su una delle panchine di legno in piazza,
con uno
sbuffò” → “sbuffo”
senza accento;
-“Un piccolo
malandrino, forse; una peste estremamente vivace; il marmocchio furbo
che libera l’alano della nonna per vedere il postino fuggire
a
gambe levate con l’ennesima raccomandata da far firmare ed un
dolorosissimo morso sul di dietro…” →
“didietro” si scrive
attaccato;
-“Niente, di niente” → non ci vuole la
virgola;
-“Gilbert raccontava così: sussurrando;”
→ i
due punti e il punto e virgola sono entrambi pause lunghe,
così
vicini non vanno bene e uno dei due si può sostituire con la
semplice virgola;
-“un paio di occhi verdi fissi nei sui”
→ “suoi”;
-“Perché Gilbert F. così lo chiamavano
al
liceo, scriveva.
Scriveva, la sua Marie.” → la virgola che
dovrebbe essere dopo Gilbert F. è erroneamente messa dopo
scriveva,
dove invece non serve.
-“non erano rimasti che un
mangiucchiato cilindro pastificato" →
“plastificato”.
Stile e Lessico: 7.5/10
Lo stile in sé non è
male (anzi, le descrizioni di tutto ciò che contorna il
protagonista
rendono davvero reale il mondo in cui egli si muove), ma
l’erroneo
utilizzo della punteggiatura nuoce gravemente alla lettura,
rendendola frammentaria. Soprattutto all’inizio della storia
ho
notato questa tendenza ad usare eccessivamente il punto e virgola:
è
giusto “dare respiro” al proprio racconto, ma con
le dovute
pause. Per quanto riguarda il lessico, nulla da segnalare.
Trama:
16/20
Ammetto che questa storia, per quanto ci abbia provato,
non sono riuscita a farmela piacere del tutto: l'inizio è un
pò
sconclusionato a causa delle frasi sconnesse e troppo divise dalla
punteggiatura anche troppo frequente in certi punti, ma ammetto anche
che nel finale si è ripresa tantissimo, infatti da quando il
protagonista inizia a scrivere della moglie mi è piaciuta di
più, è
come se ci fosse un improvviso cambio di stile, più chiaro e
trascinante. Ad una prima lettura, mi ricorda le atmosfere che
solitamente sanno creare quei vecchi film francesi neorealisti ed
emotivamente è molto forte, peccato che la parte
grammaticale abbia
reso "pesante" la lettura della storia. Bellissima la
trovata di far parlare Gilbert con il proprio cane, e ho apprezzato
molto la tua scelta di rivelare l’identità
dell’interlocutore
solo nella parte conclusiva.
Giudizio Personale: 3/5
Totale: 33.5/45 punti
GRAZIE a tutti coloro che hanno speso un po’ del loro tempo per “Biro Blu” e per la nali.
Grazie <3