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Autore: nals    24/01/2012    3 recensioni
Il treno ripartì sferragliando; trascinò con sé centinaia di passeggeri depressi e assonnati, i loro occhi gonfi di sonno e i loro sorrisi abbozzati; sparì definitivamente, inghiottito dalla galleria ombrosa e umida assieme ai fruscii delle pagine di quotidiani gratuiti e agli assurdi pettegolezzi mattutini...
[Decima classificata al contest: "Origami di carta" indetto da Fe85.]
Genere: Generale, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Autore: nali; ( Nali )
Titolo: Biro blu
Genere: Introspettivo, malinconico, generale.
Beta Reader: Wynne_Sabia
Avvertimenti: One-shot
Introduzione: Il treno ripartì sferragliando; trascinò con sé centinaia di passeggeri depressi e assonnati, i loro occhi gonfi di sonno e i loro sorrisi abbozzati; sparì definitivamente, inghiottito dalla galleria ombrosa e umida assieme ai fruscii delle pagine di quotidiani gratuiti e agli assurdi pettegolezzi mattutini...



BIRO BLU.





Il treno ripartì sferragliando; trascinò con sé centinaia di passeggeri depressi e assonnati, i loro occhi gonfi di sonno e i loro sorrisi abbozzati; sparì definitivamente, inghiottito dalla galleria ombrosa e umida assieme ai fruscii delle pagine di quotidiani gratuiti e agli assurdi pettegolezzi mattutini.
Partì con quei puntuali due minuti di ritardo, fin troppo pieno e fiacco, facendo tremare le vetrate fragili e lesionate del baretto all'angolo. Quel buco cupo e puzzolente che odorava di caffè e disinfettante. La radio gracchiava qualche canzonetta idiota e il ventilatore sul banco sputava, come al solito, aria viziata e nauseante, mai abbastanza fresca.
Il cucchiaino tintinnò sul bordo della tazza giallognola e l'uomo sorseggiò, con calma e poco gusto, quella brodaglia verde che poco assomigliava a un buon tè.
Prese a rigirarsi un quadernetto consunto tra le mani, alla fine lo arrotolò su se stesso, costringendolo in una sola. Nessun passo avanti, ancora una volta.
Troppe ispirazioni, continui ed estenuanti flash luminosi, ma decisamente troppo vuoti e inconsistenti.
L'uomo dalla giacca a quadri e i mocassini scriveva, o almeno ci provava. Era bravo, aveva talento. Non che fosse riuscito a pubblicare alcunché.
Lily adorava sentirsi raccontare le sue storie, si acciambellava al suo fianco e ascoltava.
Ascoltava finché il fruscio delle parole non fosse terminato. Ascoltava come se non potesse fare altro.
Ascoltava, ascoltava Lily; aveva i suoi cinquantasei anni, ma ascoltava come una bambina.
Lui, Gilbert F., così lo chiamavano al liceo, era uno scrittore, uno di quelli alle prime armi, eppure in gamba.
Aveva abbozzato tanti, troppi inizi, ma non aveva mai neppure pensato ad un seguito. La fine, poi, era un qualcosa di così lontano ed improbabile che aveva smesso di crederci.
Infilò una mano in tasca e ne cacciò fuori gli spiccioli, già contati. Li abbandonò sul bancone prima di sparire chiudendosi la porte alla spalle.
“Manca un centesimo, Gilbert! Manca un centesimo, brutto pezzo di merda. La prossima volta ti denuncio, stronzo!”
L'urlo stridulo di Bob, quel vecchio pazzo, si consumò nel giro di qualche metro.
Non l'avrebbe fatto, pensò Gilbert, arricciando il naso per il puzzo di piscio all'angolo.
Erano anni che il barista novantenne gli urlava dietro le sue minacce, erano anni che continuavano a rimanere solamente tali: minacce.
Sbadigliando, l’uomo superò i cancelli della stazione e costeggiò la villa brulicante di vecchietti sdentati e badanti a nero dalle chiome rigorosamente scintillanti.
Al fianco del marciapiede improvvisato, deserto e poco popolato, si estendeva la lunga serpentina grigiastra: due corsie stracolme di auto borbottanti, fumi tossici di scarico e nuvolette di tabacco bruciato su per i finestrini.
Quella mattina il traffico procedeva assonnato e lento tra le imprecazioni urlate e gli sbadigli sonori dei conducenti mezzi addormentati.
Il vecchio Gilbert zigzagò tra le auto ferme, il quadernetto consunto sotto il braccio ed un sorriso ironico in faccia. Qualche macchina avrebbe detto presto addio al disco della frizione. Ah, automobilisti incapaci!
Lasciandosi alle spalle il rumoroso corteo di ferraglia, Gilbert voltò l’angolo accendendosi una sigaretta.
Superò la scuola elementare e si diresse al parchetto di fronte alla chiesa.
Ignorò bellamente la costruzione elegante e ben equilibrata, se non fosse stato per la croce massiccia che troneggiava sull’ammasso triangolare di tegole e, fischiettando la canzonetta idiota del mattino, si diresse verso la sua panchina.

Quella scomoda scultura morente e mezza arrugginita che da anni lo accoglieva.
Riservò ancora indifferenza alla “Casa di Dio”: la stanzetta umida, che odorava di incenso e cera bruciata.
Non significava più niente per lui. Prima, tanti anni prima, avrebbe urlato appassionato e ridente il contrario.
Un tonfo rumoroso lo ridestò d’improvviso, costringendolo ad alzarsi e soccorrere un ragazzino gemente disteso a terra.
Poco più in la, le rotelline verde merda di uno di quegli aggeggi strampalati continuavano a ruotare impertinenti.
“Stai bene, ragazzo?” sussurrò preoccupato aiutandolo ad alzarsi.
Un altro gemito ed una risata soffocata, poi due fanali di un azzurro incredibile che occupavano mezza faccia.
“Sì, nonnetto” ridacchiò l’infortunato, allontanandosi.
Gilbert alzò un sopracciglio e sorrise con lui.
“Nonnetto…” borbottò fintamente irritato.
Il ragazzo, zoppicando, afferrò la sua tavola colorata e come se nulla fosse gli rimontò sopra.
Gilbert inarcò le sopracciglia, sbuffando. Chissà perché i giovani continuavano a volersi suicidare.
E il “ pazzo” prima di ripartire a razzo si voltò verso di lui, mettendo in bella mostra le ginocchia sbucciate ed il sangue che scorreva giù a rivoli, fin dentro le scarpe; imitò un gesto militare di saluto e urlò un –Grazie, nonnetto!- assieme ad una risata clamorosa.
Gilbert ridacchiò di cuore, seguendo la figura slanciata sparire dopo un semaforo e, con gli occhi ridenti, si riaccomodò sulla panchina. Tirò fuori la penna dal taschino della camicia ed agguantò con foga il quaderno ingiallito.

Il ragazzino virò a destra e assecondando il movimento inarcò la schiena e allargò leggermente le braccia; le rotelline verdognole, intanto, raschiavano lamentose ed irritate sull’asfalto, ma non cedettero.
La manovra, come previsto, si rivelò perfetta.
Il ciuffo biondo che sporgeva dal cappellino scuro fu soffiato via da una folata di vento caldo, rivelando il viso chiaro e sereno di quel pazzo.
Libertà. Solo libertà riuscii a leggere nei pozzi di un azzurro incredibile.
Quel dannato ragazzino incosciente, cavalcando l’aggeggio mortale, sembrava assaporare senza problemi la meravigliosa fragranza che sapeva di possibilità…

Gilbert sbuffò e, massaggiandosi il mento con il pollice e l’indice, cercò di scavare con forza tra la sua molliccia materia grigia, sperando ardentemente di vedere. Vedere, sì. Osservare la storia di quel ragazzo dalle ginocchia martoriate e dallo sguardo “pieno” scorrere oltre le sue palpebre socchiuse.
Scalciò una pietra, imprecando.
Niente, come al solito. Ormai ci era abituato, andava a finire sempre così.
A differenza di molti, per lui l’inizio era qualcosa di incredibilmente istintivo e naturale. Il difficile veniva dopo. Non riusciva a vedere nulla, non riusciva ad assaporare la vita e l’anima dei personaggi o delle situazioni che sembravano venire miracolosamente fuori dalla trama giallognola e consunta di quelle pagine schifosamente vuote. Era come diventare ciechi d’un tratto. Così, senza che qualcuno ne avesse mai accennato qualcosa.
Che strazio.
Si alzò e, sbadigliando per l’ennesima volta, puntuale come un orologio da taschino, si fece strada in quella che da anni amava definire la sua “polverosa pillola adorata”.
Nessuno stupido narcotico sarebbe mai stato paragonabile alla cara buon vecchia biblioteca comunale, nessun miracoloso rimedio fortemente consigliato dal proprio strizzacervelli personale avrebbe potuto competere con il senso di quasi completezza ed apparente serenità interiore che la carta impolverata e vetusta riusciva a svendergli nel giro di poche, magiche righe.
Fu lì che si rintanò come tutte le mattine.
Fu lì che tentò, come al solito, di ritrovare un po’ di se stesso.
Qualche ragnatela e centinaia -di migliaia- di esserini ad otto zampe a divertirsi sul suo cappello.

Mosse pochi passi oltre l’ingresso e lo vide. Lo superò, sorridendo, prima di rivolgersi a lui.
“E’ ancora lì, Fred?”
“Certo, vecchio. Tra la “E” e la “G”. Come al solito.”
“Bene. Grazie, amico.”
“Niente, Gil.” biascicò questi sbadigliando.
Fred, il folle Fred. Ragazzo fin troppo alto, allampanato, dalle giunzioni nodose e fragili ed una palese e preoccupante gobba sulla schiena.
Puzzava di tabacco e gel. Odiava Pasternak e avrebbe con gioia sposato il caro e buon vecchio Steinbeck. Laureato in lettere da una vita, troppi anni di precariato alle spalle.
Aveva scoperto che l’insegnamento non faceva per lui. Poche parole e troppi pensieri intimi e fumati, in testa. Preferiva la carta. Lei e l’inchiostro.
Gilbert era ormai convinto che ci facesse l’amore tutte le sere. Con lei, la carta.
Fred conosceva la biblioteca a memoria, ci lavorava a memoria, l’amava a memoria.
Tutto il suo ippocampo era in realtà cuore, battito, tachicardia.
Era scaffali fatti di polvere e aracnidi in accoppiamento.
Fred. Che aspettava un suo libro, il suo, assieme a quel parallelepipedo sotto vuoto tra la “E” e la “G”.
Un buon posto, sì. Per una splendida e rachitica F- puntata.

Intrecciando le mani dietro la schiena e trattenendosi dal fischiettare, il vecchio costeggiò diversi scaffali, per poi infilarsi nel corridoio 4g, quello a destra. Prese posto sulla sedia a dondolo, la stessa su cui Fred sonnecchiava di tanto in tanto, quando dar retta alla gente petulante ed esigente diventava fin troppo complicato, iniziando a fissare con insistenza l’odiosa pagina vuota.
Dopo qualche minuto agguantò con foga la sua biro e ci piazzò un punto.
Un punto, blu. Al centro.
Il vuoto aveva imparato a detestarlo, assieme a tutto quel bianco rigato che lo perseguitava da una “quasi” mezza vita.
Annoiato, vide sfilare un paio di persone sconosciute e non.
L’ uomo grassoccio dal naso lungo e dallo sguardo smorto, che scodinzolava alle calcagna della cara signora Finch: donna d’alto rango, classe ’35, zitella a tempo pieno, acidità senza pari. Aveva un gatto, dicevano. Lui era riuscito a coglierne solo un’immensa palla di pelo, e ciò che rimaneva di una poco probabile coda masticata.
Orazio. Si chiamava Orazio, il gatto.
Ignorò un tizio dall’aria sospetta che continuava a guardarsi in giro, stringendo tra le dita scheletriche un tomo rilegato in pelle scura come si trattasse di una scandalosa ed alquanto interessante rivista porno; e sorrise ad una giovane donna dalla pelle chiarissima e le guance rosee. Aveva un delizioso neo poco più a destra del labbro. Chissà, forse studiava Filosofia. Nah, matematica. Sì, matematica.
Fu poi il turno di un ragazzetto silenzioso, che si fiondò nell’ottavo corridoio a destra. Rischiò d’inciampare in una pila di libri nei pressi del secondo corridoio, ma per fortuna frenò in tempo, rosso in faccia. Aveva un sorriso timido sulle labbra e qualcosa di scalpitante tra le costole. Oh, sì. Gilbert ci avrebbe scommesso il suo pacchetto di sigarette, vista la ragazzina bionda che lo aveva preceduto.
Si trattenne dal ridacchiare emozionato e nostalgico, sperando ardentemente che Fred fosse impegnato con le sue di donne stampate e non disturbasse i due piccioncini. Alice e Mario.
Suonavano bene. Sì, Alice e Mario.
Ridacchiò ancora, mettendosi comodo, ma prima di rinnovare i suoi saluti al puntino sul bianco rigato, sbadigliò ancora.
Si alzò di botto e, senza salutare Fred, uscì di lì, sperando in cuor suo che i due ragazzini si sbrigassero.
Annoiato e sovrappensiero, ripercorse le stradine a ritroso, permettendo alle portiere scattanti della metro di inghiottirlo in un vortice di apatia e diffidenza, in quella bolla che puzzava di calzini ammuffiti e giornali appena stampati.
Si accomodò sul primo sedile vuoto che trovò -arancione fosforescente- e si guardò intorno. Troppa folla, tanta, tanta gente accalcata in un vagone decisamente striminzito e cigolante. O forse no?
Distolse lo sguardo. Preferiva il poco al tanto, il dettaglio alla confusione; preferiva sentire il singolo che sfiorare di poco la massa. E si perse, lì dove nessuno avrebbe potuto raggiungerlo.
Si perse tra le fronde cangianti degli alberi dell’ipotetico ed incantevole mondo aldilà del vetro, vagò tra le campagne immense e dorate, sentì i ciottoli troppo poco levigati di una stradina sperduta sotto i piedi ed il canto armonioso di qualche usignolo. Avrebbe potuto farci incontrare Alice e Mario, lì fuori.
E cullato dal fastidioso ed incostante procedere del mezzo sotterraneo, afferrò accalorato e fiducioso il suo quaderno, compagno di una “quasi” mezza vita, prendendo a scrivere con foga.

Un vestito a fiori blu ed un cappellino di paglia trasportato dal vento. Mani che si sfiorano, visi accaldati. Un gatto.
Un gatto, sì.
Un gatto nero ed una macchiolina grigia proprio sotto l’orecchio destro; dita fini e lunghe, nocche distanziate tra quei ciuffi di pelo scurissimi…

Una frenata improvvisa, lo scatto automatico delle porte, una signora vestita di tutto punto frettolosa di scendere. Una spallata.
Il gatto fuggì via.
Alice e Mario anche.
Gilbert spalancò le iridi aldilà del vetro, ma non servì a nulla.
Mattoncini scuri e un doppio binario deserto.
Della campagna gravida neanche l’ombra, nessuna spiga pronta a dare i suoi frutti.

Solo la schifosissima e beffarda realtà.
Imprecò mentalmente e serrò gli occhi, ingoiando tutto il suo disappunto e quella maledetta frustrazione che lo coglieva improvvisa e violenta. Odiava smettere di vedere.
La voce meccanica, sputata dagli auto-parlanti, gracidò il nome della sua fermata.
Scese senza una parola mentre il tabacco bruciato ricominciò a soffiargli nei polmoni.
Il vuoto nel petto divenne un enorme, profondo baratro.

Anche quel giorno l’abitudine decise per lui, scollegò i neuroni decrepiti e zoppicanti che, affaticati, seguitavano a galleggiargli nel cervello e guidò i suoi arti verso l’unico posto in cui avrebbe dovuto essere.
L’abitudine decise per lui, come faceva ormai tutte le mattine alle 12:03. Da anni.
E lui l’assecondò come se non aspettasse altro, come se non potesse far diversamente.

Gilbert sentì i piedi sprofondare nella fanghiglia scura, ma proseguì. Sfilò tra le file di altarini in marmo per poi bloccarsi dinanzi ad una nicchia nivea. Si piegò sulle ginocchia, sfiorò quella foto scolorita e, ignorando i fiori, afferrò la manciata di fogli arrotolati, nascosti dietro il vaso.
Srotolò la massa informe e giallognola lasciandosi sfuggire una smorfia e a malincuore accartocciò quella pagine di inchiostro colato e sbiadito ficcandosele in tasca. Prima di sparire lanciò una svelta occhiata alle incisioni intrecciate sul marmo bianco e si voltò, ripercorrendo la via del ritorno.
Esausto, si lasciò cadere su una delle panchine di legno in piazza, con uno sbuffo .
Stese le gambe come se quel deciso movimento potesse mettere a tacere l’atroce dolore ad intermittenza, il tarlo improvviso e puntuale, che seguitava a sgranocchiargli le ossa e inconsciamente si chiese quando fosse iniziata.
Non seppe dirlo.
La risata gioiosa di un bambino scoppiò qualche metro più avanti. Gilbert sorrise. Così, senza una motivazione precisa. Sorrise perché qualche marmocchio dalla dentatura probabilmente mancante stava salutando a modo suo il mondo.
Avrebbe potuto essere il piccolo fratellino di Alice quel bambino lì. No? Decisamente! Troppo banale e scontato.
Un piccolo malandrino, forse; una peste estremamente vivace; il marmocchio furbo che libera l’alano della nonna per vedere il postino fuggire a gambe levate con l’ennesima raccomandata da far firmare ed un dolorosissimo morso sul didietro…
Un sorriso si aprì sul viso del vecchio, ma non successe altro. Gilbert non appuntò niente, non si preoccupò di riempire il quaderno, tanto sarebbe andata come al solito e di quella leggera intuizione sarebbero rimaste poche righe ed un misero, scadente inizio.
Il suo sguardo si schiuse lento sul reale: il sole giocava con il fogliame accartocciato del pioppo secolare coloratosi di arancio, scoppiettando in piccole lucciole tra i triangolini di vuoto; Gilbert allungò una mano verso gli occhioni caldi e speranzosi del cagnolino che gli si era avvicinato scodinzolando.
Lui lo raggiungeva sempre, lì.
Quella era la loro panchina, il loro piccolo pezzo di mondo.
“Non ho nulla per te, palla di pelo”
Un mugolio.
“Niente di niente”
Un altro, ancora.
Gilbert sbuffò.
“Dici sul serio?”
Il musino umido del cucciolo adulto sfiorò il palmo teso del vecchio; un muto segnale.
“E va bene, Hai vinto, tesoro. Parto dallo schiaffo. Tanto so che adori quella parte.”
Ridacchiò l’uomo, continuando a coccolarlo; nel mentre srotolava i fogli stropicciati e cominciava a leggere, sotto voce.
Fino all’ultima riga. Dallo schiaffo.
L’ora di pranzo trascorse così: ciuffi ramati tra dita grinzose e tremanti, uno scrosciare lento e delicato di ricordi, nessun rimpianto, vari sorrisi.
Lo sguardo di Gilbert scorreva lontano, luminoso e ridente, perso chissà dove, chissà come; il cane, intanto, non gli toglieva gli occhi di dosso godendosi le sue carezze e la solita litania pomeridiana.
Quella che iniziava dallo schiaffo.
Quella che si consumava via via, con dolcezza, e si spezzava poi in un sospiro che non sapeva di amaro, né di dolore. Di speranza e nostalgia, forse.
Gilbert raccontava così: sussurrando. Come se stesse dando la buonanotte a qualcuno, come se farlo ad alta voce avrebbe spaventato la luna, e smetteva di farlo sussurrando, quando ormai il sole aveva deciso di rintanarsi chissà dove, al fresco di qualche valle, forse, lì dove la gente avrebbe finalmente smesso di “spiarlo” e tormentarlo.
Gilbert, finita la storia, se ne stava in silenzio per pochi attimi ed il cagnolino zampettava giù dalla panchina; il vecchio si alzava e lui era già di spalle, la coda ancora in movimento.
“Ci si vede, Lily. Non andartene. Non senza di me.”
La cagnolina, guaendo qualcosa, scomparì oltre le siepi sul fondo, lasciandolo lì, più leggero e sereno del solito; peccato per il peso acido e ingombrante sullo stomaco.
Aveva 56 anni, Lily, ma ascoltava come una bambina.
Gil sospirando andò via da lì, rientrò a casa con un martello pneumatico nel cervello.
Perché c’era un pensiero costante, infantile, assurdo che continuava a boxare con i suoi scadenti e malridotti neuroni, rimaneva lì urlante e dispotico come se una bella emicrania non avrebbe che giovato al suo precario stato di salute.
Eppure stava lì, in agguato; continuava a galleggiargli in testa per ore, come ogni sera, finché il buio, l’inchiostro e i sonniferi, che non avrebbe mai preso, avrebbero fatto il loro effetto.
Ma in fondo sapeva che avrebbe dato tutto, tutto per lui: lo schiaffo.


Dopo aver dato fuoco ai ceppi secchi del camino, cercò di metterlo al tappeto, quell’assurdo mal di testa.
Si trascinò alla scrivania e ridacchiò pensando che avrebbe dovuto smetterla.
Rise ancora, sapendo che erano anni che continuava ad imporselo senza riuscirci, né provarci.
Accese la lampada e afferrò la solita penna a inchiostro blu.
Dimenticò le ginocchia sbucciate e quell’aggeggio colorato, Alice e Mario, il gatto dalla coda masticata e la cagnetta Lily.
Sorrise e lasciò che la sua fedele mano raggrinzita scorresse dolce su quel rettangolo bianco, lasciò che il cuore riprendesse a battere potente e innamorato. Lasciò che l'ispirazione galleggiasse lieve, senza costrizioni.
Che vagasse, corresse, andasse oltre.
Che lo facesse per lui.


Aveva trecce scure, lentiggini sul naso e splendidi occhi verdi.
Mi sorrise per la prima volta dopo sedici anni, quando dopo avermi schiaffeggiato la baciai.
Il segno delle sue dita infiammò la mia guancia destra per ore, le mie labbra incendiarono le sue per giorni, anni interi.
L’amavo e per qualche assurda ragione, la disperazione credo possa essere una motivazione decisamente probabile, lei aveva finito per amare me.
L’amavo e fu così per tanto, tanto tempo…



E Gilbert scrisse, ancora.
Scrisse una storia bellissima, quella che regalava a sua moglie ogni settimana; la stessa che infilava lì, tra un vaso di fiori appassiti e smorti ed il gelido marmo che l’accoglieva.
Perché sì, l’uomo con la giacca a quadri e i mocassini scriveva.
Scriveva e raccontava la sua Marie.
La donna permalosa e testarda che lo aveva stregato con uno schiaffo e bruciato con un bacio.
La donna che lui continuava a rendere immortale.
Gilbert F. scriveva.
Scriveva, sì.
Sapendo che il vuoto tra la “E” e la “G” non lo avrebbe riempito mai, ma continuava a farlo.
Perché quello era l’unico modo.
L’unico per assaporare e rivivere lo spettro di una vita consumata e lontana, della vita che qualcuno aveva osato rubargli, senza preavviso.
Scriveva, sperando che un giorno quel finale tanto ricercato si facesse vivo.
Perché non vedeva l’ora di posarlo quel quadernetto e raggiungerla.
Perché, forse, la sua voglia di scrivere era terminata ventidue anni, trentasei giorni e due ore prima, proprio quando era iniziata per disperazione, necessità, amore.
Era andata a farsi fottere, da qualche parte, lì dove il cumulo di ossa che aveva scaldato troppe volte e un cuore ormai debole, il suo, continuavano a gelare tra le falangi sterili di terra scura e rinsecchite tavole in noce.
Ventidue anni, trentasei giorni, due ore e cinquantasette secondi prima sua moglie aveva deciso di lasciarlo.
Così a metà.
Occhi lucidi, respiro mozzo e stupide pagine bianche rigate tra le dita.
E una biro. Blu.
Quella che continuava ad arrancare e sputare inchiostro lucido.
Lo faceva da tempo, ormai. Forse troppo.
Da ventidue anni, trentasei giorni, qualche ora e una manciata di secondi.


La linea spezzata si arrese, rinnegò la propria imperfezione divenendo retta e infinita; il suono insistente, continuo, stridulo, che pochi attimi prima risuonava in un tranquillo “bip-bip”, lacerò i timpani rimbombando tra le pareti ingiallite e spoglie di quella stanza d’ospedale.
Lei andò via, sorridendo. Il suo cuore aveva deciso di arrendersi e portarsi appresso il mio. Non mi opposi.



Le palpebre traballarono stanche fino a chiudersi del tutto, la mano scivolò sul fianco, la lampada rimase accesa.
Gilbert si addormentò così. La biro ancora in pugno, i ricordi fermi, pulsanti nella sua testa.
Si addormentò salutando l’ennesimo giorno, come al solito; un paio di occhi verdi fissi nei suoi.


****


Il treno ripartì sferragliando; trascinò con sé centinaia di passeggeri depressi e assonnati, i loro occhi gonfi di sonno e i loro sorrisi abbozzati; sparì definitivamente, inghiottito dalla galleria ombrosa e umida assieme ai fruscii delle pagine di quotidiani gratuiti e agli assurdi pettegolezzi mattutini.
Partì con quei puntuali due minuti di ritardo; fin troppo pieno e fiacco, facendo tremare le vetrate fragili e lesionate del baretto all'angolo; quel buco cupo e puzzolente che odorava di caffè e disinfettante. La radio aveva smesso di ciarlare ed il ventilatore era spento da tempo.
Il vecchio Bob aveva deciso di denunciare lo stronzo che, ogni mattina, da anni, seguitava a lasciargli un centesimo in meno sul banco. Lo denunciò tra risate isteriche e lacrime infami, mentre la saracinesca arrugginita del “Bobar” fu calata per la prima volta, di sabato, poco prima che la bara in noce sfilasse in silenzio tra mazzi di fiori e corone galleggianti, per riposare accanto alla sua gemella. Nemmeno l’ombra dei fogli accartocciati al vaso.
Nell’esatto istante in cui il primo pugno di terra umida abbracciò il nuovo arrivato, l’uomo allampanato con la gobba diede buca alle sue donne d’inchiostro e, tirando su col naso, riempì lo spazio sottovuoto tra la “E” e la “G”.
“Niente, Gil” sussurrò triste e sparì, dopo aver dato l’ennesima lunga occhiata al “pieno sottovuoto” del corridoio 4g.
Pagine d’inchiostro colato tra libri rilegati in pelle; scrittura tremante e “Marie” a ripetizione; sospiri di un vecchio pazzo, cagnette cinquantaseienni e rotelle verde merda tra avvincenti e geniali trame impolverate. Pagine d’inchiostro in un mondo di carta. Ed un punto. Blu.
Perché Gilbert F., così lo chiamavano al liceo, scriveva.
Scriveva la sua Marie.
Scriveva le sue trecce scure e il vuoto sottovuoto che gli aveva lasciato, tra le costole.
Scriveva e lo aveva fatto fino alla fine.
Poi qualcuno lo aveva finalmente riportato a casa, e dei ferri del mestiere, che lo avevano tenuto in vita per ventidue anni e trentasette giorni circa, non erano rimasti che un mangiucchiato cilindro plastificato, un ammasso di carta non rilegato a cura di un certo F. e irritante, inutile inchiostro secco. Blu.


Gilbert era a casa, ora; la sua vita stampata anche.









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Decima classificata al "Origami di carta"- contest indetto da Fe85 (che ringrazio ancora^^)

Un mega ringraziamento alla mia splendida beta: Wynne_Sabia. (mi spiace, Anna, ma la stupidità della Nali, ha mandato in fumo tutti i tuoi sforzi ç_ç. Te ne sarai già accorta. Sono ufficialmente un’idiota ù.ù )

Ecco qui il giudizio:






Decima Classificata: "Biro Blu" di (Nali)

Grammatica e Sintassi: 7/10

Di seguito riporto gli errori in cui mi sono imbattuta:
-“56 anni”→ tendenzialmente i numeri vanno scritti in lettere;
-“Partì con quei puntuali due minuti di ritardo; fin troppo pieno e fiacco, facendo tremare le vetrate fragili e lesionate del baretto all'angolo;” → non è corretto mettere due punti e virgola così vicini senza un punto a dividerli, è un pò come mettere due volte due punti nella stessa frase;

-“Lasciandosi alle spalle il corteo rumoroso di ferraglia alle sue spalle” → corteo rumoroso di ferraglia mi stona così come è messo, il complemento di materia dovrebbe essere attaccato all'oggetto a cui è collegato, mentre “rumoroso” sta meglio sia prima che dopo i due termini. Questo non è un errore vero e proprio, è una questione di gusto personale;
-“E’ ancora lì. Fred?” → il punto è al posto della virgola;

-“E, cullato dal fastidioso ed incostante procedere del mezzo sotterraneo,”→ la virgola dopo la "E" è inutile quando si trova a capoverso, non serve la pausa se si ha appena cominciato a leggere;

-“Esausto, si lasciò cadere su una delle panchine di legno in piazza, con uno sbuffò” → “sbuffo” senza accento;

-“Un piccolo malandrino, forse; una peste estremamente vivace; il marmocchio furbo che libera l’alano della nonna per vedere il postino fuggire a gambe levate con l’ennesima raccomandata da far firmare ed un dolorosissimo morso sul di dietro…” → “didietro” si scrive attaccato;

-“Niente, di niente” → non ci vuole la virgola;

-“Gilbert raccontava così: sussurrando;” → i due punti e il punto e virgola sono entrambi pause lunghe, così vicini non vanno bene e uno dei due si può sostituire con la semplice virgola;

-“un paio di occhi verdi fissi nei sui” → “suoi”;

-“Perché Gilbert F. così lo chiamavano al liceo, scriveva.
Scriveva, la sua Marie.” → la virgola che dovrebbe essere dopo Gilbert F. è erroneamente messa dopo scriveva, dove invece non serve.

-“non erano rimasti che un mangiucchiato cilindro pastificato" → “plastificato”.

Stile e Lessico: 7.5/10

Lo stile in sé non è male (anzi, le descrizioni di tutto ciò che contorna il protagonista rendono davvero reale il mondo in cui egli si muove), ma l’erroneo utilizzo della punteggiatura nuoce gravemente alla lettura, rendendola frammentaria. Soprattutto all’inizio della storia ho notato questa tendenza ad usare eccessivamente il punto e virgola: è giusto “dare respiro” al proprio racconto, ma con le dovute pause. Per quanto riguarda il lessico, nulla da segnalare.

Trama: 16/20

Ammetto che questa storia, per quanto ci abbia provato, non sono riuscita a farmela piacere del tutto: l'inizio è un pò sconclusionato a causa delle frasi sconnesse e troppo divise dalla punteggiatura anche troppo frequente in certi punti, ma ammetto anche che nel finale si è ripresa tantissimo, infatti da quando il protagonista inizia a scrivere della moglie mi è piaciuta di più, è come se ci fosse un improvviso cambio di stile, più chiaro e trascinante. Ad una prima lettura, mi ricorda le atmosfere che solitamente sanno creare quei vecchi film francesi neorealisti ed emotivamente è molto forte, peccato che la parte grammaticale abbia reso "pesante" la lettura della storia. Bellissima la trovata di far parlare Gilbert con il proprio cane, e ho apprezzato molto la tua scelta di rivelare l’identità dell’interlocutore solo nella parte conclusiva.

Giudizio Personale: 3/5

Totale: 33.5/45 punti






GRAZIE a tutti coloro che hanno speso un po’ del loro tempo per “Biro Blu” e per la nali.

Grazie <3



   
 
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