Hello,
people!
Sono tornata, con la terza storia su questa coppia in pochissimo tempo.
Sono in
un periodo particolarmente creativo e fin quando
l’ispirazione c’è, cerco di
farla fruttare!
Oggi, il
tema che ho voluto utilizzare è l’amicizia, e
quale amicizia c’è più simpatica
e particolare che quella fra i nostri due beniamini?
Sperando di non aver fatto troppo male, al solito.
Buona lettura,
S.
Sherlock
era inquieto.
Non
che John non ci fosse abituato. Ormai aveva fatto il
callo per le sue alzatacce durante la notte, per il violino suonato a
tutte le
ore, per quella sua irritabilità quando si ritrovava senza
nessun caso per le
mani. Quel giorno però, la situazione sembrava veramente,
seriamente più grave.
John lo osservò, senza parlare, sapendo che una sua domanda,
anche un semplice
‘che succede?’ avrebbe potuto suscitare una
risposta sarcastica e irriverente.
Non era davvero il caso. Rimase così sullo stipite della
porta a guardare il
suo coinquilino vagare su e giù per la stanza lanciandogli
ogni tanto uno
sguardo veloce, ma ugualmente penetrante.
Ecco. A quelle occhiate che lo scrutavano, John non si era ancora
abituato.
Sentiva una sorta di nudità, di disagio, ogni volta. Si
strinse nel suo
cappotto, sentendosi improvvisamente scoperto.
Mentre
lui si soffermava a riflettere su quel particolare aspetto di Sherlock,
quest’ultimo si sistemò, inspiegabilmente, a testa
in giù contro il pavimento.
I riccioli scuri gli scesero sugli occhi, donandogli un aspetto
singolare e la
vestaglia da camera scesa completamente intorno alle braccia e al busto
lo
faceva sembrare un buffo personaggio dei cartoni animati.
Incrociò
le braccia, chiudendo gli occhi e restando immobile. John scosse la
testa,
immaginandolo in quello che lui chiamava ‘il suo palazzo
mentale’. Ovviamente
impenetrabile per chiunque altro non fosse se stesso.
Rimase in
quella posizione per un buon quarto d’ora, e solo quando John
lo vide diventare
completamente rosso in viso come una specie di semaforo impazzito
decise che
era il caso di intervenire.
“Sherlock,
forse sarebbe il caso di non tormentare oltre la tua povera
testa” si convinse
a interromperlo, affondando nella poltrona di fronte al caminetto.
Sherlock
aprì nuovamente gli occhi e sbuffò, con
espressione contrita, facendo leva con
le mani sul pavimento e tornando dritto –anche se
barcollante- con un abile
balzo.
“John,
cercherò
di comprendere la tua inspiegabile e irritante voglia di importi sulle
mie
decisioni, ma ti pregherei di lasciar decidere a me quando interrompere
i miei
esperimenti” disse, con voce più contrariata del
solito.
“Oh,
scusa se mi preoccupo per la tua salute, Sherlock” rispose
John sarcastico,
decidendo che forse sistemare la spesa in frigo era decisamente
più utile che
cercare di capire il comportamento del compagno. “la prossima
volta lascerò che
ti scoppi un’arteria”.
“Sarebbe
un ottimo test per la mia resistenza” esordì
Sherlock, facendo come se John lo
avesse offeso. Senza guardarlo, tornò a sdraiarsi sul
divano, a pancia in giù,
giocherellando con l’asta del violino. Prese a scuoterla in
aria, come se
stesse picchiando un qualcuno d’immaginario. Lo spostamento
d’aria e il suo
rumore secco e fastidioso quasi spinsero John a sfilargliela dalle mani
per
lanciargliela dietro.
Subito
dopo si alzò, camminando verso il medico, fissandolo per
qualche secondo per
poi tornare a sedersi sul divano. Sbattè i piedi sul
pavimento, tenendo il
ritmo per qualche secondo, per poi alzarsi nuovamente e sedersi al
tavolo della
cucina, sospirando e scuotendo la testa, per poi fermarsi poggiando i
gomiti
sul tavolo e abbandonando la testa sulle mani.
John era
spazientito. Conciato in quel modo non l’aveva davvero mai
visto. Lo osservò,
studiò la sua espressione pensierosa, quasi…preoccupata?
John si insospettì. La preoccupazione era
un’emozione sconosciuta a Sherlock
Holmes. Così come ogni altra, d’altronde.
Però, non c’era altro termine per
definire il comportamento del coinquilino, in quel momento.
Varie
idee e ipotesi, alcune delle quali decisamente fantasiose cominciarono
a materializzarsi
nella mente di John.
Che fosse successo qualcosa? Che avesse ricevuto un qualche messaggio,
un sms
minatorio, un qualche strambo enigma, indovinello, rompicapo? Un email
di un
qualche criminale sconosciuto?
John osservò il suo portatile, ormai suo
solamente in teoria dato che era sempre, o almeno per la maggior parte
del
tempo, fra le mani di Sherlock, che giaceva spento e inutilizzato in un
angolo
della stanza. Il medico scartò l’ipotesi.
E se fosse stato… Moriarty? Se si fosse rifatto vivo, dopo
tutta la faccenda da
poco trascorsa, e lo avesse in qualche modo reso inquieto?
Il medico era preoccupato. Continuò ad osservare il compagno
che adesso aveva cominciato
a girovagare intorno al tavolo, con le mani allacciate dietro la
schiena.
Alzava gli occhi su di lui di tanto in tanto, fermandosi a guardarlo
con
curiosità, con una sorta di tormentata…attesa.
Si, attesa era il giusto termine
per descriverla. Sembrava che qualcosa lo tormentasse, che racchiudesse
dentro
di lui qualcosa che lo stava consumando, non gravemente, ma che era
palese,
aveva bisogno di essere liberata.
John
mandò al diavolo ogni remora.
“Sherlock, che diavolo ti succede?” gli disse,
sbattendo un pugno sul tavolo,
cercando di imporsi con autorità. Non voleva essere
ignorato, non di nuovo.
Sherlock sembrò colpito. Si fermò immediatamente,
rimanendo immobile, le mani
ancora strette l’una nell’altra, lo sguardo
impassibile ma lievemente corrucciato.
“Cosa
ti
fa credere, John, che ci sia qualcosa che non va?”
domandò il detective
guardando il medico con espressione stupita.
John sbuffò, alzando gli occhi al cielo.
“Oggi sei… oggi sei più strambo del
solito, Sherlock. Ti comporti come… come un
pazzo paranoico!”
Sherlock giunse le mani e le portò alla bocca, nella sua
solita pensosa
espressione.
“Definizione
pittoresca, John”
“Sai…sai
che intendo. Capisco che ti annoi, che hai bisogno di un caso e che la
tua
mente ha bisogno di lavorare e tutto…ma ti rendi
insopportabile” tagliò corto
John, crollando su una sedia. Voleva vederci chiaro.
L’altro non rispose, non subito. Gli lanciò un
altro paio di rapide occhiate
prima di sedersi anch’egli, di fronte a lui.
“Non
mi
sto annoiando, John” disse, semplicemente.
John sbarrò gli occhi. Se non era per quello, non riusciva
davvero a vedere una
luce alla fine di quel tunnel. Quale diamine era la spiegazione?
“E allora?” bisbigliò, mentre il
cervello cercava di elaborare un’ipotesi
coerente “che succede?”
“Succede,
mio petulante amico, che ho bisogno… ho bisogno di scaricare
tensione” disse, come se
fosse la cosa
più ovvia del mondo “ne ho bisogno”
John inarcò un sopracciglio non del tutto convinto.
“Ne hai bisogno per cosa?”
“Per… per esporre un… un
pensiero”
“Hai
bisogno di tutto questo per… esporre un pensiero?”
John si trattenne dal
ridere.
“Ad alta voce” aggiunse Sherlock.
“Ad alta voce” ripeté John, ancora
trattenendosi dallo scoppiargli a ridere in
faccia. “Perché non lo dici e basta?”
Sherlock
lo guardò, voltandosi di scatto come se avesse pronunciato
davanti a lui chissà
quale eresia. Poi scosse la testa.
“Hai una mentalità talmente superficiale
a volte”
John
rise, sarcastico.
“Oh certo. Mentre un uomo adulto che rimane
mezz’ora a testa in giù sul pavimento,
che gira intorno ad un tavolo e che saltella avanti e indietro per casa
ha
certamente una mentalità più complessa. Da
analizzare a fondo. Ti serve uno
psichiatra” rispose il medico, rinunciando quasi a capirlo.
“Percepisco del sarcasmo”
“Percepisci bene, Sherlock”
Rimasero
in silenzio, per minuti che a John sembrarono ore intere. Sherlock
fissava la
parete dietro di lui, come se fosse qualcosa di fortemente interessante.
“Allora, per l’amor del cielo,
cos’è che devi dire?”
Sherlock
guardò verso di lui.
“Qualcosa”
“E a chi?”
Sherlock
si fissò le mani, e John lo vide per la prima volta
quasi…imbarazzato?
Nonostante fosse del suo solito colorito niveo, pallido,
quell’espressione
particolare gli faceva venire in mente solo quell’aggettivo.
“A te”
John non
rispose. Rimase fermo a guardarlo, in silenzio, elaborando ogni
possibile
ipotesi su quello che così difficilmente Sherlock cercava di
confessargli.
Subito gli tornò in mente il viaggio mentale di poco prima.
Era certamente in
un guaio enorme, per comportarsi in quel modo. Ci andava di mezzo
qualcosa di
grosso, forse la sua stessa vita, la loro vita. John si
tormentò nervosamente
le mani, senza avere il coraggio di chiedere di più.
Sospirò.
“Sono pronto a tutto, Sherlock, credimi. Parla” lo
esortò, con un sorriso
appena accennato, come a fingere che andasse tutto bene.
Sherlock mosse indietro la sedia dondolandovisi e guardando ovunque
tranne che
gli occhi del dottore.
“Non
pensavo di poter arrivare a questo punto, John”
cominciò, con voce quasi
tremante, diversa dal tono sicuro e supponente che aveva di solito. La
tensione
di John crebbe ancora di più.
“Continua” lo incoraggiò.
“Pensavo di potermi fermare, pensavo di poterlo bloccare e di
non farmi
sopraffare. Ma alla fine ci è riuscito e io… io
non sono riuscito a trovare una
distrazione, una…via di scampo”
Ecco.
John lo sapeva. Qualcuno lo aveva incastrato, Moriarty quasi di sicuro.
Era
l’unico ad avere le capacità necessarie per poter
sottomettere uno come
Sherlock Holmes. Si chiese in che modo lo stesse mettendo alla strette,
si
domandò, tormentato, in che modo fosse riuscito ad
incastrarlo fino a farlo
parlare in quel modo.
“Sherlock, qualunque cosa sia… io posso aiutarti.
Possiamo uscirne…” provò a
dire il biondo, con aria incoraggiante, comprensiva. Sherlock scosse la
testa.
E dire
che fino a un quarto d’ora prima sembrava un’altra
persona…
“No,
ormai è tardi John. Ormai è fatta. Ormai
è reale, tangibile, concreto.
Non posso più uscirne. Sono in
trappola, John. In trappola”
John si
alzò,
non riuscendo più a rimanere in piedi. Vedere Sherlock
ridotto a quel modo lo
spaventava. Era sempre stato una roccia, l’uomo razionale e
solido su cui poter
sempre contare per la giusta soluzione. E adesso…
Si sedette vicino a lui e lo afferrò per le spalle,
scuotendolo per farlo
tornare in se, per fargli recuperare almeno un pezzo dello Sherlock che
aveva
conosciuto.
“C’è sempre una soluzione, Sherlock. E
tu me l’hai insegnato!” esclamò
“Possiamo
risolvere tutto, insieme. Ti aiuterò, ma devi dirmi di
più, devi dirmi ogni
cosa”
Il compare lo guardò, occhi negli occhi, quasi stupito da
quella reazione.
“Ci sono caduto. Pensavo di essere immune a certe cose.
Invece ci sono caduto.”
“Dimmi che cosa Sherlock! Dimmi qual è questa
trappola!”
il detective sospirò. Guardò in basso prima di
boccheggiare in cerca della propria
voce, in cerca della forza per pronunciare quella sola, unica parola.
“L’amicizia”
John
rimase li fermo, con le mani ancora sulle sue spalle. La sua
espressione era
ancora corrucciata, tesa, spaventata. Dentro di lui però
mille e mille pensieri
lottavano per uscire. La bocca era impastata, asciutta. Aveva davvero
detto…?
“oggi
mi
sono svegliato e invece di…per l’amor del
cielo” si interruppe scompigliandosi
i capelli “invece di preparare la mia tazza di the mi sono
messo a pensare… a
pensare a quanto sono stato fortunato ad averti incontrato. E che
è vero che
sei l’unico amico che ho, ma ho
pensato….oddio” si bloccò chiudendo gli
occhi.
“che sei l’unico amico migliore che io potessi mai
desiderare. E che… mi chiedo
cosa io abbia fatto per meritare uno come te. Ecco, l’ho
detto” guardò in aria
come se non concepisse che la sua voce, la voce del geniale Sherlock
Holmes
potesse pronunciare una frase del genere.
John
voleva ridere. Ridere fin quasi a sentirsi male. Era irritato e allo
stesso
tempo divertito, sollevato e allo stesso tempo infuriato con il suo
coinquilino
per avergli fatto prendere uno spavento totalmente infondato. La rabbia
però
passò quasi subito e John storse il naso. Trovava qualcosa
di assolutamente…dolce in
quella situazione.
Avrebbe
dovuto essere più duro, ma era seriamente impossibile per
John in quel momento.
Sorrise.
“Per l’amor del cielo John. Le emozioni sono per i
deboli. Le emozioni
distraggono, deviano la mente verso…frivolezze
inutili”
John
continuò a ridere. Non poteva crederci, non…non
avrebbe mai creduto di poter
sostenere quella conversazione con lui. Era tutto talmente…
strano.
“Tu
sei …
Cielo, non so come definirti, Sherlock” riuscì
solo a dire, scuotendo la testa,
divertito.
“Stupido?
Debole? Codardo?” suggerì l’altro mentre
strofinava le mani tra loro,
nervosamente.
John lo
guardò, teneramente.
“…tu
sei
sempre una sorpresa, Sherlock” disse, invece “e
questa volta sei una sorpresa
che… che mi scalda il cuore”
Sherlock
finalmente lo guardò, senza quel fastidioso distogliere
continuamente lo
sguardo. Di una cosa Watson era fiero, quasi orgoglioso: era stato il
primo, e
gli piaceva pensare che sarebbe rimasto l’unico,
a provocare una tale reazione in Sherlock Holmes.
“Parli
seriamente?” domandò quest’ultimo,
sospettoso ma visibilmente sollevato. Quasi
si fosse tolto un peso.
“Serio”
disse Watson, annuendo. Sherlock sembrò compiaciuto anche se
non lo diede
troppo a vedere. “e dato che siamo in vena di
confessioni… a parte le tue
stranezze, a cui ormai sono abituato… anche io ti
considero… il mio migliore
amico” esclamò, tutto d’un fiato,
leggermente rosso in viso.
Un sorriso comparve sul volto del compagno, e scomparve veloce
com’era
arrivato. John lo comprese. Forse era pretendere troppo per un giorno
solo.
“Bene”
“Bene”
Sherlock
affondò sul divano, pensieroso. John gli sedette accanto.
“Comunque, tutte queste smancerie sono per gente
comune” disse incrociando le braccia.
“Certo”
ridacchiò John.
“Non fa per me. Mai più, giuro.”
ribatté Sherlock.
John
accavallò
le gambe, coprendosi la bocca per evitare che Sherlock vedesse il modo
in cui
sorrideva. Tutta quella discussione aveva dell’incredibile. E
John non aveva mai
visto il suo coinquilino sotto una luce tanto… adorabile. E
gli piaceva, lo
trovava estremamente stimolante.
“Adoro la gente comune” lo
punzecchiò
John, fissandolo con la coda dell’occhio.
Sherlock
non rispose, ma si limitò ad osservarlo. Poi
sembrò combattere con i suoi
stessi pensieri. Distogliendo gli occhi sospirò.
“Oh,
forse potrei cercare di essere più… comune,
ogni tanto” disse “non mi farà male di
certo”
John
sorrise. Era davvero fortunato. Più di quanto avesse mai
anche solo immaginato.