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Autore: crazyfred    25/01/2012    14 recensioni
Il destino può cambiare in un momento. Due anime scontrarsi e fondersi in un solo istante, senza preavviso, legate per non staccarsi mai. Non era lei quella che immaginava e quello non era il luogo che aveva in mente. Ma lui la guarderà negli occhi ... e saprà di non essere solo.
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Cross-over, Lime | Avvertimenti: nessuno
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When you crash in the clouds - capitolo 24



Capitolo 24

I am here for you






soundtrack


Erano passati i tre giorni fatidici. Sarebbe tornata a New York in un’ora, o poco meno, o non sarebbe tornata più. Dopo quello che era successo, dopo la mia sparata di quella notte, vedevo difficile riavvicinarmi a lei come se nulla fosse, con un caloroso abbraccio e un “bentornata!” contornato da festoni e palloncini. C’era troppo in ballo che non poteva più essere nascosto e troppo che le avevo rinfacciato e le avevo urlato e non poteva essere rispedito nei miei polmoni.
Il 70% di ciò che avevo detto non lo pensavo, per l’altro 30 era meglio se una volta tanto mi fossi fatto i cazzi miei e avessi dato tempo al tempo.
Ero a casa da due giorni ormai, avevo ripreso la mia routine nonostante le ferie per evitare sindromi maniaco-depressive; non dovevo pensare a le h24, la mia vita doveva tornare alla normalità, soprattutto in prospettiva del suo non ritorno. Non potevo deprimermi di nuovo, Aidan non me lo avrebbe perdonato stavolta, non per una ragazza almeno.
Così mi misi sotto con lo studio e tornai tra gli scaffali della libreria con somma gioia del capo che non era più obbligato a pagarmi le ferie. Tuttavia nessuno, al di fuori di Aidan e dei miei colleghi di lavoro e di università, sapeva del mio ritorno. Non potevo certo dire a mia madre di aver lasciato Allison da sola in un bed & breakfast, né che tantomeno spiegarle che lo avevo fatto perché, in una sorta di dichiarazione, lei mi aveva dato il ben servito ed io me l’ero presa. Certo, non appena fosse andata alla stazione degli autobus a prenderla, sarei stato sgamato alla pulita e già sentivo i suoi acuti isterici perforarmi i timpani, ma fino ad allora potevo far finta di aver dimenticato il carica batterie a casa tenendo il cellulare spento. Inoltre, potevo essere abbastanza sicuro del fatto che lei ed Allison si dovevano essere sentite davvero di sfuggita perché, se lo avesse saputo da lei, a quest’ora avrebbe fatto sfondare la porta e le finestre di casa mia dai vigili del fuoco pur di parlarmi. Non c’erano dubbi sul fatto che avesse ottime conoscenze tra le forze dell’ordine.
Sebbene potessi dire di averla fatta franca da mia madre, almeno per il momento, nulla avevo potuto contro quella suocera travestita da studente universitario di Aidan. Generalmente le sue rimenate non mi facevano né caldo né freddo, entravano da un orecchio ed uscivano dall’altro, ma stavolta mi avevano fatto veramente male. La sfilza di “avresti potuto … ma perché non hai fatto così … io al posto tuo” che erano volati si sprecavano, così come avevo perso il conto di quante volte, mentalmente, avevo interpellato i componenti femminili della famiglia di Aidan in maniera poco garbata. Lui non poteva parlare di amore e veniva a fare a me la paternale … tipico. Ma non ero più il tipo remissivo a cui le offese non facevano un graffio. Così avevo finito col prendere anche Aidan a parole grosse, senza pesare il significato di ogni fosse, senza considerare quanto tempo avrei impiegato per riparare a ciascuna di esse. Come si dice, mi ero decisamente tirato la zappa sopra i piedi e dalla padella ero passato alla brace.
Ci eravamo ridotti allo stato di due conoscenti che condividono un appartamento ed il posto di lavoro, invece che essere due amici che alle spalle avevano anni e anni di bisbocce e ricordi anche dolorosi da partecipare.
Ancora pieno di rancore e collera, covati per tanto tempo, scoppiati nel giro di nemmeno 10 minuti  e rimuginati lungo tutto il volo, non trovavo ragione che fosse dal lato di Allison. Dopo tutto quello che avevo fatto per lei, dopo essermi esposto per lei come non avevo fatto per nessuno prima di allora … bel modo di essere ripagati. Potevano scusarla in ogni modo possibile, ma per come la vedevo io, era arrivato il momento di accantonare le attenuanti e lasciare che si assumesse ogni responsabilità. Forse lo aveva fatto inconsciamente, ma mi aveva ingannato, o quantomeno aveva istillato in me false speranze. È il minimo sentirsi di merda come mi sono sentito io. Avrei solo voluto, per una volta, che capisse lei come mi sentissi io, e non fossi io, per una volta, l’accomodante, il comprensivo.
E così, da incazzato sono passato al depresso. Fantastico! Portatemi il muro del pianto vi prego, ho bisogno di versare qualche lacrima e ripetere le mie dolenti litanie. Perché l’unica colpa che sentivo di dover espiare è di amare una donna che non sente di amarmi o che mente persino a sé stessa a tal proposito. Non riuscivo più a distinguere se quella fosse la colpa o la condanna: splendido!
E il tutto per colpa di una ragazzina che non ero sicuro che avrei rivisto, egoista insensibile e frigida.

Basta! Urlai a me stesso, di fronte allo specchio del bagno, pulendo con la mano lo specchio appannato, dopo la doccia bollente. Stavo ricamando l’immagine di Allison con gli epiteti più raffinati, la dipingevo come una persona ingrata ed insensibile, uscendo dalla vicende come la vittima dall’anima candida, umiliato e offeso da una donna senza scrupoli.
Ma come in tutte le cose nella vita la verità sta nel mezzo, e se era vero che stavolta non potevo prendermi tutte colpe, era anche vero che non dovevo lasciarle tutte a lei.
Però per quanto potessi mortificarla, anche soltanto nella mia memoria, non riuscivo a sminuire il sentimento che provavo per lei. Ricordavo ancora quella notte buia nel Bronx, quando le dissi che mi stavo innamorando di lei. Alcune cose erano cambiate da allora, ma il buio apparentemente era stato al mio fianco in diverse occasioni, mi aveva aiutato ad nascondermi quando avevo bisogno invece della massima esposizione. Anche le mie parole erano cambiate: non le avevo pronunciate ad alta voce, ma solo uno stupido non le avrebbe colte tra le righe. Ed Allison non era una stupida. Io l’amavo e lei lo sapeva.
Tra poche ore avrei saputo la verità e avevo paura persino di andarmene a dormire senza la sua telefonata o di qualcun altro per lei. Se mi fossi svegliato senza che nessuna chiamata mi avesse spaventato nel cuore della notte o alle prime luci dell’alba, sarebbe stato proprio il caso di dire addio ad Allison.

E se invece tornando non avesse voluto più vedermi?  Comprensibile, inattaccabile, ma era mio dovere avvicinarla e cercare di spiegarmi. Almeno così mi diceva il cuore. Ma la ragione non comprende le ragioni del cuore, è per questo che nella nostra vita combiniamo tanti disastri: amiamo definirci animali razionali, ma la verità è che se seguissimo un po’ più spesso il nostro cuore, la via filerebbe un pochettino più dritta.
Ma la notte era passata indenne da risvegli improvvisi, a parte la sagoma di Aidan che rientrando non faceva nulla per evitare di svegliarmi. Così mi ritrovai alle dieci spaccate davanti alla porta di casa di mia madre, aspettando che qualcuno venisse ad aprirmi. Ero sceso dal letto all’alba, quando ancora fuori era buio, saranno state le sei meno un quarto, massimo mezz’ora più tardi, non badai troppo a controllare sull’orologio, ma tanto ero sazio delle pur poche ore di sonno che mi ero concesso quella notte. E mia madre salutò la mia giornata con una chiamata fredda e telegrafica. Non avrei voluto rispondere, ma c’era poco da fare i polli in una situazione simile. “Vieni qui, subito” disse e non aggiunse altro, riagganciando la conversazione senza lasciarmi nemmeno il tempo di dirle buongiorno. Non una parola al fatto che non fossi con Allison, non un accenno alla mia fuga da adolescente ribelle. Non si perse nemmeno troppo nei convenevoli quando venne ad aprirmi, ancora nel suo pigiama bianco e avvolta in uno scialle dello stesso colore. Aveva i capelli raccolti in una coda fatta senza troppa cura, il che significava che anche lei aveva avuto altri pensieri per la testa, come me. Cazziatone in arrivo, lo sentivo nell’aria.
“Non dovresti essere al lavoro oggi?” “Pomeriggio” rispose, al massimo della sintesi.
“Caroline?” chiesi, per stemperare la situazione. Sembrava di essere al Polo Sud e già mi vedevo i pinguini di Madagascar sbucare per casa come se niente fosse. Mi sembrava fuori luogo chiedere di Allison, dal momento che era sicuro al 100% che dovesse parlarmi di lei.
“Sono le dieci e un quarto Tyler … dove vuoi che sia?!” rispose, piuttosto acida. Ora, una madre che non coccola suo figlio come se fosse il Teddy Bear di una vetrina di negozi di giocattoli è universalmente riconosciuto come un brutto segno, ma non capivo se fosse dovuto al ciclo mensile, oppure ai cambiamenti di umore dovuti al fatto che, forse, il ciclo lei non lo aveva più. Comunque la girassi, restava una situazione di merda.
“Senti Tyler” si sedette alla penisola della cucina, di fronte a me, passandomi una tazza di caffè “immagino che tu sappia di cosa voglio parlarti, non c’è bisogno che lo dica perché lo immagini … vero?”
“Certo mamma” risposi, da perfetto bambinone consapevole di averla fatta grossa. Mi sembrava di essere rimpicciolito su quella sedia, mi sentivo stretto nella divisa della scuola privata, con il cravattino, il blazer e i calzoncini corti, le ginocchia sbucciate e i capelli a spazzola biondissimi. Ed in compenso vedevo mia madre grande e minacciosa, come se temessi che potesse confiscarmi la collezione di figurine o impedirmi di andare a vedere la partita degli Yankees. “Allison” dissi, ma credo che mi sentii da solo e fu più che altro per il labiale se lei poté annuire.
“Senti mamma” mi affrettai a prendere la parola, non perché volessi che capisse le mie ragioni, ma perché volevo che sapesse che la pensavo come lei, avevo colpa e me ne assumevo ogni responsabilità “non c’è giustificazione per come mi sono comportato con Allison, sono stato un irresponsabile a lasciarla da sola! Ora vorrei solo poter rimediare …”
Non avevo ben chiaro il tipo di ascendente che mia madre aveva su Allison, anche se ero sicuro che si volessero molto bene e che Allison provava per lei un profondo rispetto; speravo però che fosse sufficiente a darmi la possibilità di spiegarmi e farmi perdonare. Perché pur di non perderla avrei accettato anche l’amicizia fraterna. Guardare e non toccare sono due cose che fanno crepare, su questo sono d’accordo tutti, ma vederla sparire sarebbe stato mille volte peggio.
“Lascia stare quello che è successo tra di voi, sono cose private in cui io non voglio entrare …” mi frenò lei, mettendo letteralmente le mani avanti. Era bello sapere che nonostante fossimo amici di letto quasi alla luce del giorno, ci era ancora concessa della privacy, anche se forse la riservatezza di mia madre era dovuta più al pudore che da altro. “E del fatto che te ne sei letteralmente sparito senza dire una parola ne parleremo più tardi … ma ora c’è una cosa che mi sta più a cuore …” disse lei e notai nelle corde della sua voce un cambiamento radicale: sembrava più preoccupata che arrabbiata e questo era un presagio peggiore, rispetto alle mie previsioni.
“Oddio!” esclamai, figurandomi davanti immagini sciagurate di incidenti stradali, con carcasse di autobus in fiamme e lenzuoli bianchi stesi qua e là sul manto stradale. “Dov’è Allison mamma? Dov’è?” domandai inorridito, alzandomi dalla sedia senza che il comando fosse mai partito dal cervello ai miei muscoli. Sentivo la mia voce agghiacciata dagli scenari che mi si erano profilati e solo a pensare a quella tremenda ipotesi il mio corpo rabbrividiva.
“Tyler!” mi riprese mia madre, mettendomi a sedere di nuovo, esattamente come quando ero bambino “Tyler calmati! Va tutto bene, è tornata ieri sera e sta benone. Solo …”
“Solo?” incalzai. Odiavo quel suo modo di fare, quando interrompeva le frasi stile soap opera. Se mi devi dare una brutta notizia, non c’è niente di peggio che averla a piccole dosi, provando più dolore che ad apprenderla in una sola botta.
Vidi mia madre chiudere gli occhi e passarsi le mani sul volto, a nascondere lo sguardo. Era visibile la sua tensione, il dubbio che aveva, il terrore probabilmente di usare le parole meno adatte. Una volta ripreso evidentemente il controllo, strinse meglio a sé lo scialle e parlò: “Allison è andata alla polizia, Tyler. È uscita presto di casa stamattina” mi raccontò “aveva detto di voler andare a correre per sgranchire le gambe dopo il lungo viaggio in autobus. E dopo un’oretta ci arriva la sua chiamata dalla polizia, dicendo che aveva bisogno di un avvocato
Il resto della conversazione non fu esattamente chiaro, ricordo la voce di mia madre come un’eco lontana, un suono ovattato che la mia testa, in confusione, non aveva fatto in tempo a decodificare.”
Mi madre aveva parlato di denuncia, ma non avevo ben capito sé era andata a denunciare i suoi aguzzini o a costituirsi. Che poi non capivo cosa avesse da confessare: lei era stata solo una vittima arrendevole. Contrariamente a quanto si crede generalmente, nel suo caso piegarsi era meglio che spezzarsi, questione di sopravvivenza.
E così la mia piccola Allison era finita davanti a quei mastini delle guardie: così piccola ed indifesa che al minimo tentennamento avrebbero potuto mangiarsela in un solo boccone.
Corsi a perdifiato per la strada, perché la stazione di polizia più vicina non era particolarmente lontana e avevo bisogno che l’aria gelida di New York mi raffreddasse il cervello, in ebollizione per tutte le informazioni che mia madre mi aveva dato: gli uffici a cui dovevo rivolgermi, tutti i nomi che aveva fatto e che mi avrebbero aiutato a vederla. Sapevo che non era sola, Les si era fatto subito avanti per sostenerla. Perché avere per patrigno un avvocato, a volte, può essere davvero un vantaggio.
Finché non salii le scale della centrale di polizia non potevo ancora credere che lo avesse fatto. Man mano che passavo di ufficio in ufficio, ogni volta che mi lasciavano ad aspettare fuori da una porta o che davanti a me un poliziotto grassotto mi stava a guardare con sufficienza, aspettando qualcuno che dall’altro capo del telefono rispondesse, ero sempre più sconvolto dall’idea che lo avesse fatto per davvero. Avevo ancora davanti a me, nitide, le immagini di quella mattina tragicomica, dopo la notte più bella della mia vita, quando avevamo fatto l’amore per la prima volta, mia madre si era presentata al mio appartamento e lei, presa dal panico, si rintanò in camera mia facendo l’isterica e urlando che mai e poi mai lei sarebbe finita in gabbia. Ed ora si stava offrendo volontaria. Meraviglioso!
“Tyler!” sentii chiamarmi alle spalle, mentre davanti ad una macchinetta del caffè prendevo quello che era il quarto caffè della giornata. Forse una camomilla sarebbe stata più appropriata, ma avevo bisogno di essere il più vigile e reattivo possibile. Les mi venne incontro in jeans e maglione di lana, invece che con il suo solito gessato carbone d’ordinanza. Aveva in mano un fascicolo, che supposi essere tutta la documentazione riguardante Allison. Mi strinse la mano e ci lasciammo andare ad un abbraccio che in tanti anni di parentela acquisita non ci eravamo mai concessi. Eravamo entrambi nervosi e capii che in qualche modo quella ragazza era entrata anche nel suo cuore. Come poteva essere diversamente.
“Ma che cosa …” volli domandare, ma evidentemente sentiva l’urgenza di dirmi qualcosa che fosse più importante.
“Ti ringrazio di essere venuto. Allison non voleva che ti avvisassimo ma io e tua madre abbiamo pensato che non fosse giusto …”
Non sapevo cosa dire, ero del tutto stordito. Riuscii a pronunciare un grazie stentato. Avevo bisogno di una sedia o sarei caduto a terra come una pera cotta. Notai una panca accanto al distributore di bevande e mi lasciai stramazzare lì sopra, abbandonato da tutte le forze.
“Dov’è?” domandai. “È con gli ispettori, le stavano facendo delle domande fino a poco fa, ci siamo presi una pausa, ma lei non può muoversi … sai come sono i poliziotti qui … sembra ancora di stare nel Far West”
Me lo ricordavo bene: nei primissimi mesi dopo la morte di Michael, infatti, Les era stato costretto a tirarmi fuori di prigione per tre volte, e i capi d’accusa erano uno più ridicolo dell’altro. L’unica volta che mi ero veramente cacciato nei guai, ma non ricordavo molto considerati i fiumi d’alcool che erano scivolati via quella notte, quando, qualche anno prima, non ancora ventunenne, ero stato beccato ubriaco per le strade di NY ed eravamo andati a fare i cretini con dei vecchi compagni di liceo proprio davanti ad una volante della polizia. Scemo e più scemo. Quella volta fu l’avvocato di mio padre a tirarmi fuori di prigione e lui me lo rinfacciò così tanto che avrei preferito marcire in prigione piuttosto che farmi pagare la cauzione da un uomo di mio padre.
“E ora” chiesi, esitante e preoccupato “che succede ora?”
“Vorrei poterti dire che non succederà nulla … il problema è che non lo so neanche io” rispose inerme ma franco “sicuramente verranno avviate delle indagini, ma non le risparmieranno il processo. Lo sai, qui è il …”
“… il Far West” completai io la sua frase “lo so”. Non avevo idea del motivo che l’avesse spinta a quel gesto, visto che proprio lei era quella che vedeva la casa circondariale come uno spettro da evitare con tutta sé stessa. Volevo esserle vicina, volevo che sapesse che le ero accanto, davvero, volevo che sapesse che non l’avevo abbandonata, nonostante la mia fuga da stupida ragazzina adolescente che fugge anziché affrontare le sue responsabilità. “Posso … posso vederla?”
“Non credo Tyler che te la lasceranno incontrare …” rispose Les, titubante.
“Andiamo!” lo incalzai “sei o non sei il migliore avvocato di tutta la costa Orientale?”
“No, non lo sono” negò lui, ridendo, mentre lo scuotevo per le spalle. Ok, probabilmente la mia era stata la sviolinata meno riuscita della storia, ma comunque Les restava un buon avvocato, a New York era rispettato e questo doveva pur valere qualcosa. Quando gli ribadii quello che pensavo di lui, lo vidi alzarsi, forse per orgoglio, forse per autocompiacimento, sistemarsi il colletto della camicia e dirigersi in un ufficio in fondo al corridoio.
Dieci minuti dopo, dopo una serie di urla e parole un po’ pesanti da parte di un insospettabile Les, mi trovavo in una stanza di quelle che fanno tanto poliziesco, con gli specchi unidirezionali e le cimici a registrare ogni singolo respiro. Non era la condizione idea per rivederla, ma per lei potevo sopportare anche che un omaccione afroamericano mi rovistasse dappertutto per controllare che non avessi nulla di potenzialmente pericoloso con me.
Quando me la condussero avrei voluto stringerla forte e baciarla, ma ne convenni che non era il posto né la circostanza migliore per lasciarsi andare a pubbliche dimostrazioni d’affetto. Eppure, al contempo, non avrebbe potuto esserci opportunità migliore: se solo non mi fossi comportato da emerito cretino l’ultima volta che c’eravamo visti. Ero stato un cretino, e da cretino patentato mi stavo comportando: sì perché non riuscivo a non essere fiero del mio comportamento; hai fatto bene, doveva sapere continuava a ripetermi la mia coscienza. E se quella testa ciarlona non l’avesse finita l’avrei schiacciata, come si fa con i grilli che parlano troppo.
Così lei mi salutò con un cenno del capo e un piccolo gesto con la mano, nascosta quasi completamente nella manica della maglia. Aveva paura: faceva sempre così quando era spaventata. Eppure non si stava tirando indietro, affrontava il suo peggior nemico e lo stava facendo con dignità.
Venne sedersi accanto a me, poggiando le mani, quasi giunte, sul tavolo. D’istinto le presi tra le mie: erano gelate; le portai verso la mia bocca e le baciai, sperando che non le ritraesse, né che prendesse a male il mio gesto. Fortuna mia, non accadde né l’una, né l’altra cosa.
“Perché?” le domandai, finalmente.
“Immaginavo che Diane e Les non ti avrebbero tenuto all’oscuro per molto. Anzi … direi proprio che non hanno saputo tenere la bocca chiusa nemmeno per un secondo” non capivo per quale motivo evitasse di rispondere alla mia domanda, non riuscivo a trovarne uno che fosse sensato. Pensai alla vergogna, alla paura, ma entrambe erano fasi che avevamo superato da un pezzo? Se mi avesse detto che non era una faccenda che mi riguardava più mi avrebbe fatto incazzare ancora di più di quanto non mi era accaduto solo pochi giorni prima, perché mi ero fatto spaccare la faccia per lei, e non mi andava a genio l’idea di farmi illividire per niente.
“Spiegami perché” pressai, pregando che non si risentisse della mia insistenza.
“Detenzione di documenti falsi è l’accusa al momento” rispose “prostituzione, spaccio di droga e furto dovranno essere accertate. Ma sono tutte imputazioni di cui mi sono personalmente accusata davanti al mio avvocato. Appena finiranno con l’interrogatorio mi trasferiranno al piano di sopra …”
Sapevo bene cosa c’era un paio sopra a dove ci trovavamo noi: avevo già dormito un paio di notti in gattabuia ed ero sempre stato attento a non farmi scarcerare prima della colazione: è gratis ed è dannatamente buona. Ma lei no, non volevo che ci entrasse nemmeno per un secondo.
“Les dice che non ci passerei più di un paio d’ore, tempo di sbrigare tutte le prassi burocratiche … uscirei con la cauzione. E poi, certo, ci sarà il processo”
“E cos’altro dice Les?!” sputai, sarcastico “lo dice che non hai idea del pasticcio in cui ti sei cacciata? Che la giustizia americana è un Far West dove è meglio non immischiarsi perché solo chi è forte vince?”
“Io sono forte Tyler … posso farcela. Non ho paura di entrare in una cella … ho vissuto anni in gabbia!” rispose lei, con altrettanto fermezza. Tuttavia non era una questione di carattere, piuttosto una questione di potere. Era fortunata a non avere un avvocato di ufficio, sottopagato e spremuto fino all’osso dallo Stato, ma il suo processo non sarebbe stato sulle prime pagine dei giornali come Lindsay Lohan e nessuno le avrebbe ridotto la pena solo per aver letto il suo cognome. Non volli insistere oltre: Les le aveva tenuto nascosta quella parte e non stava a me darle queste cattive notizie; inoltre, da ragazza intelligente qual era, dubitavo fortemente che non sapesse già quello che, per proteggerci entrambi, aveva sicuramente finto di non capire.
“Va bene” dissi, cercando di reprimere la rabbia che mi saliva a vederla così calma “però mi devi dire perché diamine l’hai fatto. Perché sei venuta dalla polizia?”
La vidi abbassare il capo e nascondermi i suoi bellissimi occhi, cosa che mi innervosiva sempre perché voleva dire che non aveva fiducia in me o per qualche ragione si vergognava e mi temeva. Ma come, avrebbe dovuto saperlo, non dovevano esserci barriere: erano cadute nello stesso istante in cui mi aveva fatto entrare nella sua vita.
“Io” tentennò “l’ho fatto perché avevo bisogno di dire addio a Mallory una volta per tutte. Non bastava far sparire dei documenti falsi o darsi una ripulita per iniziare una nuova vita”
“Una nuova vita?” chiesi spiegazioni, ma avevo paura che la sua risposta potesse farmi male. Ma dovevo saperlo subito, se aveva intenzione di dirmi addio
“Tu avevi ragione … io ho semplicemente fatto finta di non vedere quello che per tutti era alla luce del sole” esordì, sorridendo sommessamente, quella vaga aura malinconica che sempre la circondava.
“A cosa ti riferisci?” domandai. “A noi” rispose lei, questa volta lasciando che i suoi grandi occhi verdi arrivassero dritti ai miei, per rimbalzare verso il mio cuore e farlo in mille pezze.
Avevo sentito bene?! Aveva detto proprio NOI, quella parola magica che da tempo sognavo di sentire. Quindi credeva come me che quel noi esisteva, ma si era ostinata a non voler vedere.
“Io lo sai, non ne capisco molto di sentimenti” riprese, stringendo lei questa volta lei miei mani “però io … io ho c’ho pensato a lungo in questi giorni e so già che sarà un casino … ma voglio provarci”
Sapevo che non avrebbe mai usato le parole che avrei potuto usare io, capivo la difficoltà e l’impaccio nell’esprimere sentimenti che fondamentalmente non conosceva. Però sentivo anche tutto lo sforzo che ci stava mettendo e sentivo forte il battito del suo cuore, il calore e l’emozione che quella dichiarazione un po’ sbadata le stavano procurando. Era tutto passato, dimenticato; non c’era rancore o sdegno: c’era solo tutto l’amore che ero pronto a darle e che lei, finalmente, si sentiva pronta a ricevere.
“Non è mai facile Allie … ma quando si è in due tutto è più facile” sapevo che non dovevo usare paroloni che l’avrebbero spaventata, era meglio sottintendere. Doveva essere tutto facile, dovevamo rimanere Allison e Tyler di sempre, quelli che andavano in giro per New York a divertirsi o rimanevano in casa a coccolarsi: perché eravamo già una coppia, l’eravamo sempre stati agli occhi degli altri. Solo che, ora, l’avremmo saputo anche noi.
Sciolsi la presa delle nostre mani e le accarezzai una guancia, sorridente. Mi sentivo un idiota, ma non me ne fregava nulla. Ero felice e, anche se non ero esattamente sotto la Tour Eiffel, avrei voluto gridarlo al mondo. Ma la cosa più straordinaria di tutti era quella meraviglia che avevo davanti agli occhi, quella porcellana che con la mia carezza stavo sfiorando: era felice quanto me, e non aveva paura di mostrarlo; forse per la prima volta da quando la conoscevo, si occupava davvero di sé stessa. Stava mettendo da parte gli scrupoli e si stava concedendo il mio affetto senza scrupoli, senza più porsi le domande o preoccuparsi di trovare un modo per sdebitarsi.
“Devo chiederti scusa per come mi sono comportato con te ad Indianapolis” le confessai “eravamo entrambi nervosi e come al mio solito ho finito per peggiorare la situazione. Avevo troppa paura di perderti …”
“ed invece è stata proprio la tua sfuriata ha farmi aprire gli occhi … forse lo sapevo già … ma è stato quando sono rimasta sola che ho capito che la mia vita è qui, con te”
Ero un uomo, ma avrei voluto piangere; avrei voluto prenderla, baciarla, abbracciarla, magari anche portarla davanti ad un prete e sposarla in quel momento. Mi voleva … mi voleva davvero. Non era possibile eppure era vita vera e non un sogno malefico venuto a torturarmi per lasciarmi con l’amaro in bocca una volta sveglio. E se è un sogno vi prego … lasciate che io muoia ora così questo sarà il mio ultimo ricordo.
Mi avvicinai a lei quel poco che bastava per sfiorare le sue labbra. Non volevo la passione, ma solo sfiorare le sue labbra, sentire il suo sapore ed il suo profumo invadere i miei sensi in maniera gentile ed innocente, come lei sapeva fare; ma mi fermò, premendo l’indice contro la mia bocca. “Non qui … non ora” parlò sottovoce, tuttavia emozionata ed imbarazzata, accennando a qualcuno che era oltre la mia spalla.
Un paio di poliziotti in borghese, le facce impenetrabili e serie, facevano le belle statuine all’ingresso della stanza e sperai che fossero lì da poco.
“È ora di andare ragazzo” mi disse uno di loro, avvicinandomi e prendendomi per il braccio.
Le lasciai una lieve carezza sulla guancia e per entrambi era stato come bruciarsi.
“Sono qui fuori ad aspettarti” le sussurrai. Lei annuì, sicura che fosse la verità.
Nel corridoio incontrai Les, che aspettava di riprendere l’interrogatorio con un plico sempre più grande di carte e libri da studiare e a cui ricorrere.
“Come l’hai trovata?” mi chiese, notando evidentemente che, rispetto a quando era entrato, ero decisamente più rilassato. “Bene” risposi “è serena e ha fiducia in te. Non deluderla”
“Faccio del mio meglio lo sai” replicò lui “ma devo pensare anche a tutta un’altra serie di cose ora. Se, come penso io, partiranno le indagini, anche noi verremo coinvolti … niente di cui preoccuparsi, ma vorranno almeno sentire quello che abbiamo da dire”
“Certo certo” annuii. E ne avrei avute di cose da dire io; se fosse servito a farmi vedere in faccia quel pappone che aveva ridotto Allison ad una schiava, se fosse servito a sbatterlo in galera e a buttare via la chiave, avrei parlato davvero molto volentieri.
“Un’altra cosa Tyler …” riprese Les “dovresti avvisare i genitori di Allison. La polizia li avrà già avvertiti visto che era stata fatta una denuncia di scomparsa, ma ho bisogno che li tranquillizzi. Allison non vuole vederli …”
Annuii e lo lasciai rientrare negli uffici dove si stava tendendo l’interrogatorio. Ero ancora troppo euforico per pensare a trovare un panino da mettere sotto i denti per il pranzo e non avevo oltretutto la minima intenzione di abbandonare l’edificio. Una promessa è una promessa e va mantenuta.
Prima di tutto avrei dovuto chiamare i Riley e non sapevo cosa aspettarmi: Les aveva detto che Allison non voleva vederli e questo, oltre ad rattristare, mi metteva il dubbio che lei non li avesse incontrati, nonostante avessi organizzato un incontro fortuito con suo padre il giorno del suo compleanno; oppure lui non si era fatto avanti, ma questa era un’ipotesi che mi sentivo di poter scartare.
Ma il mio corpo sembrava essersi calmato e riavviato alla grande dopo l’incontro con Allison e nel giro di dieci minuti i crampi allo stomaco mi stavano corrodendo e implorando di buttare giù qualcosa. Mi sembrava di ricordare, a memoria visiva, di un bar a pian terreno, ed infatti fu lì che andai; eravamo io ed un centinaio di altre persone ad intasarlo: per prendere un hamburger e una Coca Cola impiegai 20 minuti sani, tanto che mi sembrava di essere nella mia libreria nei giorni di punta: avrei provato il trucchetto degli occhi dolci, se solo al bancone non ci fossero solo uomini. Mangiato al volo me ne andai a fumare una sigaretta fuori dall’edificio, in mezzo al passeggio continuo dei marciapiedi di New York: avevo voglia di caffè, ma per oggi ne avevo presi già troppi. Tra un tiro e l’altro tirai il naso in su, tra i grattacieli il sole era al suo zenit e si scorgeva; era una strana giornata d’inverno: non era fredda e umida, come al solito, ma calda e secca, quasi primaverile. Ma non per questo provai a togliermi il giaccone.
Presi il telefono e trovai di getto il numero di casa Riley sulla mia rubrica, dove Allison aveva voluto che lo salvassi: previdente come al solito.
Non passarono che due squilli da quando avevo avviato la chiamata.
“Pronto?” rispose all’altro capo Doug. La sua voce era esattamente quella di colui che è in attesa di notizie gravi e sviluppi e non era certo mia intenzione tenerlo sulle spine.
“Doug?! Salve Doug sono Tyler …” “Oh Tyler, benedetto ragazzo!” sentii esclamare, ma stavolta a parlare era Lois, la mamma di Allison, leggermente in lontananza. “Signora Riley?!” chiesi, titubante, a causa di una conversazione non particolarmente limpida. “Tyler non preoccuparti … sei in vivavoce” esclamò Doug, leggermente rilassato a sentire una voce amica “dimmi tutto”
Non sapevo fino a che punto spingermi, avevo paura di sbagliare come e peggio di prima. Rischiare di perdere Allison una volta avrebbe potuto essere umano, ma perderla due … era decisamente diabolico.
“Non preoccupatevi” cercai di minimizzare, diplomatico “la situazione è in mano al marito di mia madre, Leslie
Hirsch. È un ottimo avvocato, dovete davvero stare tranquilli …”
“Tyler ma di cosa è accusata?” chiese Lois, in apprensione. “Signora … davvero glielo devo dire?!” chiesi, sperando di non risultare troppo cinico “e comunque è stata lei a presentarsi dalla polizia. Ha denunciato le sue vecchie … compagnie … ma per farlo ha dovuto dare loro i suoi vecchi documenti e spiegare la sua posizione. La faremo uscire pagando la cauzione, ma Les è fiducioso che il giudice capirà la posizione di Allison e lei ne uscirà pulita”
Forse mi ero spinto troppo oltre, raccontando loro una versione del futuro a cui non credevo, ma sapevo quanto Les avesse sofferto e non meritava altro dolore. E per quando si fosse comportata da stronza, neanche Lois lo meritava.
“Bene” commentò Doug, ma era così ermetica la sua voce che non capii se si trattava di soddisfazione vera o fosse una mera constatazione: optai per la seconda. “Noi verremo a New York in ogni caso” dichiarò “… tempo di trovare un volo. Domani sera al più tardi saremo lì”
“No Doug!” lo fermai “non è il caso davvero! La situazione è sotto controllo e già questa sera Allison sarà a casa” … con me, aggiunsi, ma lo solo le mie labbra se ne accorsero.
“Tyler è nostra figlia!” ribatté Lois “non puoi impedirci di vederla”
“Io no” ne convenni “ma lei sì. È maggiorenne ormai … Doug, avrei bisogno di parlarti privatamente per favore”
Non era per cattiveria, ma c’erano cose che Lois non sapeva e non stava a me parlargliene. Ne sarebbe venuta a parte solo quando e se sua figlia avesse voluto. Io avevo sbagliato una volta, non mi sarei fregato con le mie stesse mani di nuovo.

“Dimmi Tyler” disse Doug e mi accorsi immediatamente che eravamo rimasti solo io e lui nella conversazione, sentendolo decisamente più vicino. “Cos’è successo? Allison dice che non vuole vedervi. Io non le ho chiesto nulla, ma Les dice …”
“È colpa mia” mi interruppe “non ce l’ho fatta a nascondere la verità a mia moglie. Le ho detto che era in città ed andata da lei …”
E così non era riuscito a mantenere il silenzio; purtroppo, era una cosa che avrei dovuto aspettarmi. A vederli insieme, Doug e Lois, era palpabile quando fosse solida la loro unione, ma soprattutto la loro fedeltà e fiducia l’un l’altro, nonostante le prove che avevano dovuto affrontare. Potevo solo immaginare la reazione di Allison a trovarsi sua madre di fronte, l’ultima persona che lei avrebbe voluto trovarsi davanti.
“Ora non mi stupisce che non ci voglia vedere … si è sentita tradita” constatò lui, demoralizzato “l’ho accompagnata alla fermata degli autobus per ripartire, ma ci siamo scambiati poche parole. Parlale Tyler, ho paura che non voglia più vedermi …”
Doveva essere una paura ricorrente quella, c’ero passato anch’io e sapevo cosa si provasse. “Proverò” mi impegnai “ma non garantisco”
Ci salutammo cordialmente e cercai di tranquillizzarli di nuovo entrambi. Lasciai loro anche il recapito telefonico di Les, volendo accollarsi l’onere della cauzione. Anche se non erano in buoni rapporti, anche se ricucire quel legame sembrava difficile, sembravano intenzionati a far funzionare le cose. C’era da fidarsi di loro, o almeno di Doug: conoscevo quel genere d’impegno e determinazione, perché era lo stesso che mi aveva portato ad averla vinta proprio con Allison.
Passai il resto della giornata nella sala d’aspetto della centrale, tra gli sguardi sospetti degli agenti e squallide riviste comprate nel giornalaio in fondo alla strada in tutta fretta, per evitare di non essere presente quando Allison fosse stata rilasciata. Di tanto in tanto andavo a rompere le scatole negli uffici a chiedere informazioni, ma venivo molto poco educatamente rimandato a sedere e ad aspettare, perché quel genere di cose non ha un tempo stabilito e non possono parlarne con il primo che capita. Il tempo passava, più di quanto io stesso avevo stimato e fui costretto a chiedere ad Aidan di fare gli straordinari in libreria per sostituirmi; ce l’avevo ancora con lui e lui con me, ma non era riuscito a dirmi di no: “Spero per te che ne valga la pena” aggiunse, quando gli spiegai perché stavo passando la giornata in una centrale di polizia.
Quando vidi Les uscire dall’ascensore erano ormai le sette di sera, e non mi ero nemmeno accorto che erano state accese le luci nell’edificio. Nell’androne eravamo rimasti in pochi, qualche barbone rifugiatosi lì per la notte e gente in fila per denunce o documenti.
Gli andai incontro mentre si preparava ad uscire, infilandosi giaccone e sciarpa. Sembrava soddisfatto ed io tirai un deciso sospiro di sollievo, anche se non potevo esserne ancora certo.
“Allora?!” domandai e dal tono che mi uscì dovetti risultare più in apprensione di quanto non fossi realmente, a giudicare dall’espressione scettica di Les.
“Come?!” chiese lui a sua volta, sarcastico e divertito, ricordando le mie lusinghe di quella mattina “non mi avevi definito il miglior avvocato della East Coast?! E questa è tutta la fiducia che riponevi in me … complimenti!”. Ridemmo entrambi e lui mi mise un braccio attorno alle spalle, dandomi un grosso scossone, notando sicuramente quanto quell’intera situazione mi aveva coinvolto e provato. “È andato tutto come previsto” continuò “Allison sta prendendo le sue cose e scenderà a breve. Io me ne torno a casa, è stata una lunga giornata …”

“Grazie … grazie mille Les” esclamai, abbracciandolo davvero di cuore. Ma lui si stacco, lasciandomi delle pacche sulle spalle confortanti e annuendo leggermente con la testa: era sempre stato un gran chiacchierone e uno che non ha peli sulla lingua, a riprova del fatto che la sua professione calzasse a pennello con la sua personalità, e vederlo lì in silenzio, quasi commosso dalla mia espansività nei suoi confronti, mi disorientava. Di figli non ne aveva avuti, né con mia madre, né dal suo primo matrimonio, finito male, con un’oca acida che, se non fosse stato per sue le ottime conoscenze nel foro di New York, aveva tutte le intenzioni di ridurlo sul lastrico. Ed ora si occupava in maniera egregia della piccola Caroline e negli ultimi tempi anche di me; era un ottimo padre putativo, cosa che non era riuscita affatto al nostro padre naturale, colui che vi aveva dato il nome. Mi sarebbe piaciuto che fosse stato lui lì con me, che lui si fosse fatto in quattro per Allison, che lui mi avesse dato quelle pacche sulle spalle. Ma nella vita non si può avere tutto, e se questo era il meglio che potevo avere, lo prendevo con molta gratitudine. Les si allontanò, ma prima di uscire mi salutò un’ultima volta: “Immagino che non dobbiamo aspettarci un rientro di Allison a casa prima di domattina, giusto?”


soundtrack2


Risi, un po’ timidamente e mentre lui se ne andava mi voltai, accorgendomi che gli ascensori si stavano aprendo di nuovo. Allison era finalmente davanti a me. Dentro quella stanza, prima di pranzo, avrei voluto prenderla, abbracciarla e baciarla. “non qui … non ora” disse lei; ma ora sì che avrei potuto, e anche se il luogo non era esattamente il più romantico e appropriato che conoscessi, sentivo che potevo farlo. Avrei baciato Allison; ero emozionato come una adolescente al suo primo bacio, anche se quello non era certo il primo bacio che avrei dato ad Allison. Ma la mia ragazza, per lei sì che era il primo bacio.
Fu lei però a sorprendermi e a venirmi incontro, lasciando che sue braccia si ancorassero alle mie spalle e le mani si arpionassero tra i miei capelli. Nascose la testa nel mio collo ed io la tirai su. Non piangeva, non rideva e non ero nemmeno sicuro che stesse respirando. Stavamo lì, fermi, a bearci l’uno della stretta dell’altro. Il suo profumo al ridosso del mio corpo mi era mancato immensamente e quell’aroma di latte di mandorle era ormai il mio calmante naturale; mentre con una mano le cingevo la vita, con l’altra le accarezzavo i capelli lisci e setosi.
“Sei qui!” disse lei quando ci staccammo, quasi incredula ma felice di avermi trovato. “Sono qui!” confermai ed i suoi occhi si fecero lucidi, le labbra si contrassero, come quando si vogliono reprimere a forza le lacrime. Eppure era raggiante. “Sei qui!” ripeté, la voce rotta. “Non piangere” sussurrai, stringendole il volto tra le mie mani e posandole un bacio sulla fronte “dove pensavi che fossi … te l’avevo promesso”
Così come lei era rimasta interdetta dall’avermi trovato lì ad aspettarla, così io ero ancora sconcertato dall’idea che la mia piccola eroina aveva deciso di dire addio al suo passato nel modo più terribile, e lo aveva fatto per noi, perché potessimo stare insieme senza ombre e senza paure.
La vidi ricacciare in dentro le lacrime, obbligandosi a sorridere anche se aveva voglia di piangere tutte le lacrime di questo mondo. Mi diceva sempre che le lacrime non erano fatte per la felicità e si stava impegnando per far sì che fosse così.

“Ora me lo puoi chiedere” disse, posando le sue mani sul mio torace; dapprima non capii e non ci fu bisogno di chiedere, perché lei comprese il mio disorientamento. Dovevo avere una faccia che era tutta un programma … “quello che mi hai chiesto ad Indianapolis” chiarì “chiedimelo di nuovo”
Non aspettavo altro e non ebbi paura. Perché sapevo bene quale fosse la risposta e non c’era nemmeno bisogno di chiederglielo. Lasciai scorrere le mie mani dal suo volto al collo, intrecciando le mie dita con l’attaccatura dei suoi capelli alla nuca, l’attirai a me e l’ultima cosa che vidi prima di chiudere gli occhi fu il suo sorriso. Le nostre labbra si incontrarono di nuovo dopo quello che mi sembrava un periodo lunghissimo, una vita intera. Si salutarono prima timidamente, poi sempre più spavalde, come chi ha atteso e palpitato perché quell’incontro avvenisse. Tutto quello che avevamo passato fino a quel momento era in quel bacio, la fatica di capirsi e aprirsi all’altro, la facilità di stare insieme e divertirsi insieme. I sorridi, le lacrime e anche e soprattutto i litigi. Eravamo cambiati molto, entrambi, ma non eravamo mai stati così tanto noi stessi per l’altro. Sentii le sue mani finire di nuovo nei miei capelli, afferrandoli, tirandoli eppure quello che i nostri corpi frementi parlavano era un idioma diverso da quello delle nostre bocche; mentre le nostre mani ci avrebbero strappato già i vestiti di dosso, le labbra assaporavano quel momento fino in fondo, fino all’ultimo: un filmato a rallentatore che apprezzava ogni singolo fotogramma.
Dovemmo staccarci controvoglia, ricordandoci che quella era una stazione di polizia e nessuno dei due aveva intenzione di finire dentro per disturbo alla pubblica decenza. Non c’era niente di male a baciarsi, ma i poliziotti non sono persone particolarmente sensibili …
La presi per mano, intrecciando le nostre dita ed andammo via: fino a quel momento ogni volta che lo avevo fatto avevo dovuto ricordarmi che non era per lei quello che valeva per me. Ora invece no, quello che aveva un significato per me, lo aveva anche per lei: era una sensazione di alleggerimento mai provata prima. Non avrei dovuto più pesare le mie parole e i miei gesti e, anche se non sarebbe stato facile, era certamente una passeggiata rispetto alla situazione precedente, quando eravamo in bilico tra amicizia e amore.

“Ciao Aidan” salutammo il mio inquilino, appena rientrati in casa. Più entrare civilmente, sembrava più che altro che avevamo sfondato la porta, battendovi contro, impegnati a baciarci mentre aprivamo la serratura.
“State bene voi due?” domandò Aidan, uscendo dal cucinotto con in mano un sandwich. “Sì” rispondemmo all’unisono, ma lui ci guardò perplesso. Effettivamente, tra le risate e gridolini dovevamo dare l’idea di essere ubriachi; ma era proprio così che mi sentivo, ero assolutamente strafatto di Allison, del suo profumo, del suo sapore, del suo sorriso, dei suoi occhi. “Aidan” esordii, con aria solenne “ti presento Allison, la mia ragazza!” “Ciao Aidan!” mi fece eco lei, altrettanto euforica. Andai in cucina a prendere due birre e lei prese il telefono per chiamare per ordinare delle pizze.
“Ma tu non eri in galera?” le chiese Aidan, facendosi serio. “Strumento meraviglioso la cauzione, non trovi?” rispose lei, non riuscendo a rimanere seria. Avvicinandomi, le porsi la mia bottiglia e lei mi tirò a sé per la maglia per darmi un bacio, così mi buttai sul divano anch’io e mi curai poco di Aidan, rimasto lì a reggere il moccolo. Neanche nei miei sogni migliori era stata così espansiva, ma immaginavo fosse solo la carica del momento e che passate le prime ore, ci sarebbe passata ad entrambe. Almeno lo speravo, altrimenti Aidan sarebbe stato costretto a trovarsi un altro appartamento.
“Ho capito …” decretò il mio coinquilino e staccandomi controvoglia da Allison lo vidi imbacuccarsi per uscire “è meglio se per stasera mi trovo un altro posto per dormire”









NOTE FINALI

Ok, lo so già che mi ammazzerete ora perché come finale è orrendo e c'era una cosa che volevate leggere ... vi conosco ormai porcelle XDXDXD
Comunque, questo è quanto. Finalmente! Allelujia!! Samba!!!
Lo so, lo so ... ce ne abbiamo messo di tempo ma alla fine ce l'abbiamo fatta. Spero che non sia stato tutto troppo frettoloso, ma ho veramente avuto tanta difficoltà a scrivere questo capitolo e se provavo a dividerlo in due mi risultava vuoto. 
Spero che vogliate farmi sapere cosa ne pensate perché è davvero fondamentale per me. Parlo soprattutto con voi...lettrici silenziose ù.ù
Vi rinnovo l'invito a passare sia sulla pagina di Facebook che su Twitter 
Ora mi prendo una pausa di un mesetto (forse anche più) e vi saluto chiarendo che la storia non è assolutamente finita, anzi.

à bientot

Federica


   
 
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