Capitolo 24
I am here for you
soundtrack
Erano passati i tre giorni
fatidici. Sarebbe tornata a New York in un’ora, o poco meno, o non sarebbe
tornata più. Dopo quello che era successo, dopo la mia sparata di quella notte,
vedevo difficile riavvicinarmi a lei come se nulla fosse, con un caloroso abbraccio
e un “bentornata!” contornato da festoni e palloncini. C’era troppo in ballo
che non poteva più essere nascosto e troppo che le avevo rinfacciato e le avevo
urlato e non poteva essere rispedito nei miei polmoni.
Il 70% di ciò che avevo detto
non lo pensavo, per l’altro 30 era meglio se una volta tanto mi fossi fatto i
cazzi miei e avessi dato tempo al tempo.
Ero a casa da due giorni ormai,
avevo ripreso la mia routine nonostante le ferie per evitare sindromi maniaco-depressive;
non dovevo pensare a le h24, la mia vita doveva tornare alla normalità,
soprattutto in prospettiva del suo non ritorno. Non potevo deprimermi di nuovo,
Aidan non me lo avrebbe perdonato stavolta, non per una ragazza almeno.
Così mi misi sotto con lo
studio e tornai tra gli scaffali della libreria con somma gioia del capo che
non era più obbligato a pagarmi le ferie. Tuttavia nessuno, al di fuori di
Aidan e dei miei colleghi di lavoro e di università, sapeva del mio ritorno. Non
potevo certo dire a mia madre di aver lasciato Allison da sola in un bed & breakfast,
né che tantomeno spiegarle che lo avevo fatto perché, in una sorta di
dichiarazione, lei mi aveva dato il ben servito ed io me l’ero presa. Certo,
non appena fosse andata alla stazione degli autobus a prenderla, sarei stato
sgamato alla pulita e già sentivo i suoi acuti isterici perforarmi i timpani,
ma fino ad allora potevo far finta di aver dimenticato il carica batterie a
casa tenendo il cellulare spento. Inoltre, potevo essere abbastanza sicuro del
fatto che lei ed Allison si dovevano essere sentite davvero di sfuggita perché,
se lo avesse saputo da lei, a quest’ora avrebbe fatto sfondare la porta e le
finestre di casa mia dai vigili del fuoco pur di parlarmi. Non c’erano dubbi
sul fatto che avesse ottime conoscenze tra le forze dell’ordine.
Sebbene potessi dire di averla
fatta franca da mia madre, almeno per il momento, nulla avevo potuto contro
quella suocera travestita da studente universitario di Aidan. Generalmente le
sue rimenate non mi facevano né caldo né freddo, entravano da un orecchio ed
uscivano dall’altro, ma stavolta mi avevano fatto veramente male. La sfilza di
“avresti potuto … ma perché non hai fatto così … io al posto tuo” che erano
volati si sprecavano, così come avevo perso il conto di quante volte,
mentalmente, avevo interpellato i componenti femminili della famiglia di Aidan
in maniera poco garbata. Lui non poteva parlare di amore e veniva a fare a me
la paternale … tipico. Ma non ero più il tipo remissivo a cui le offese non
facevano un graffio. Così avevo finito col prendere anche Aidan a parole
grosse, senza pesare il significato di ogni fosse, senza considerare quanto
tempo avrei impiegato per riparare a ciascuna di esse. Come si dice, mi ero
decisamente tirato la zappa sopra i piedi e dalla padella ero passato alla
brace.
Ci eravamo ridotti allo stato
di due conoscenti che condividono un appartamento ed il posto di lavoro, invece
che essere due amici che alle spalle avevano anni e anni di bisbocce e ricordi
anche dolorosi da partecipare.
Ancora pieno di rancore e collera,
covati per tanto tempo, scoppiati nel giro di nemmeno 10 minuti e rimuginati lungo tutto il volo, non trovavo
ragione che fosse dal lato di Allison. Dopo tutto quello che avevo fatto per
lei, dopo essermi esposto per lei come non avevo fatto per nessuno prima di
allora … bel modo di essere ripagati. Potevano scusarla in ogni modo possibile,
ma per come la vedevo io, era arrivato il momento di accantonare le attenuanti
e lasciare che si assumesse ogni responsabilità. Forse lo aveva fatto
inconsciamente, ma mi aveva ingannato, o quantomeno aveva istillato in me false
speranze. È il minimo sentirsi di merda come mi sono sentito io. Avrei solo
voluto, per una volta, che capisse lei come mi sentissi io, e non fossi io, per
una volta, l’accomodante, il comprensivo.
E così, da incazzato sono
passato al depresso. Fantastico! Portatemi il muro del pianto vi prego, ho
bisogno di versare qualche lacrima e ripetere le mie dolenti litanie. Perché
l’unica colpa che sentivo di dover espiare è di amare una donna che non sente di
amarmi o che mente persino a sé stessa a tal proposito. Non riuscivo più a
distinguere se quella fosse la colpa o la condanna: splendido!
E il tutto per colpa di una
ragazzina che non ero sicuro che avrei rivisto, egoista insensibile e frigida.
Basta!
Urlai
a me stesso, di fronte allo specchio del bagno, pulendo con la mano lo specchio
appannato, dopo la doccia bollente. Stavo ricamando l’immagine di Allison con
gli epiteti più raffinati, la dipingevo come una persona ingrata ed
insensibile, uscendo dalla vicende come la vittima dall’anima candida, umiliato
e offeso da una donna senza scrupoli.
Ma come in tutte le cose nella
vita la verità sta nel mezzo, e se era vero che stavolta non potevo prendermi
tutte colpe, era anche vero che non dovevo lasciarle tutte a lei.
Però per quanto potessi
mortificarla, anche soltanto nella mia memoria, non riuscivo a sminuire il
sentimento che provavo per lei. Ricordavo ancora quella notte buia nel Bronx,
quando le dissi che mi stavo innamorando di lei. Alcune cose erano cambiate da
allora, ma il buio apparentemente era stato al mio fianco in diverse occasioni,
mi aveva aiutato ad nascondermi quando avevo bisogno invece della massima
esposizione. Anche le mie parole erano cambiate: non le avevo pronunciate ad
alta voce, ma solo uno stupido non le avrebbe colte tra le righe. Ed Allison
non era una stupida. Io l’amavo e lei lo sapeva.
Tra poche ore avrei saputo la
verità e avevo paura persino di andarmene a dormire senza la sua telefonata o
di qualcun altro per lei. Se mi fossi svegliato senza che nessuna chiamata mi
avesse spaventato nel cuore della notte o alle prime luci dell’alba, sarebbe
stato proprio il caso di dire addio ad Allison.
E
se invece tornando non avesse voluto più vedermi? Comprensibile, inattaccabile, ma era mio
dovere avvicinarla e cercare di spiegarmi. Almeno così mi diceva il cuore. Ma la
ragione non comprende le ragioni del cuore, è per questo che nella nostra vita
combiniamo tanti disastri: amiamo definirci animali razionali, ma la verità è
che se seguissimo un po’ più spesso il nostro cuore, la via filerebbe un
pochettino più dritta.
Ma la notte era passata indenne
da risvegli improvvisi, a parte la sagoma di Aidan che rientrando non faceva
nulla per evitare di svegliarmi. Così mi ritrovai alle dieci spaccate davanti
alla porta di casa di mia madre, aspettando che qualcuno venisse ad aprirmi.
Ero sceso dal letto all’alba, quando ancora fuori era buio, saranno state le
sei meno un quarto, massimo mezz’ora più tardi, non badai troppo a controllare
sull’orologio, ma tanto ero sazio delle pur poche ore di sonno che mi ero
concesso quella notte. E mia madre salutò la mia giornata con una chiamata
fredda e telegrafica. Non avrei voluto rispondere, ma c’era poco da fare i
polli in una situazione simile. “Vieni qui, subito” disse e non aggiunse altro,
riagganciando la conversazione senza lasciarmi nemmeno il tempo di dirle
buongiorno. Non una parola al fatto che non fossi con Allison, non un accenno
alla mia fuga da adolescente ribelle. Non si perse nemmeno troppo nei
convenevoli quando venne ad aprirmi, ancora nel suo pigiama bianco e avvolta in
uno scialle dello stesso colore. Aveva i capelli raccolti in una coda fatta
senza troppa cura, il che significava che anche lei aveva avuto altri pensieri
per la testa, come me. Cazziatone in arrivo, lo sentivo nell’aria.
“Non dovresti essere al lavoro
oggi?” “Pomeriggio” rispose, al massimo della sintesi.
“Caroline?” chiesi, per
stemperare la situazione. Sembrava di essere al Polo Sud e già mi vedevo i
pinguini di Madagascar sbucare per casa come se niente fosse. Mi sembrava fuori
luogo chiedere di Allison, dal momento che era sicuro al 100% che dovesse
parlarmi di lei.
“Sono le dieci e un quarto
Tyler … dove vuoi che sia?!” rispose, piuttosto acida. Ora, una madre che non
coccola suo figlio come se fosse il Teddy Bear di una vetrina di negozi di
giocattoli è universalmente riconosciuto come un brutto segno, ma non capivo se
fosse dovuto al ciclo mensile, oppure ai cambiamenti di umore dovuti al fatto che,
forse, il ciclo lei non lo aveva più. Comunque la girassi, restava una
situazione di merda.
“Senti Tyler” si sedette alla
penisola della cucina, di fronte a me, passandomi una tazza di caffè “immagino
che tu sappia di cosa voglio parlarti, non c’è bisogno che lo dica perché lo
immagini … vero?”
“Certo mamma” risposi, da
perfetto bambinone consapevole di averla fatta grossa. Mi sembrava di essere
rimpicciolito su quella sedia, mi sentivo stretto nella divisa della scuola
privata, con il cravattino, il blazer e i calzoncini corti, le ginocchia
sbucciate e i capelli a spazzola biondissimi. Ed in compenso vedevo mia madre
grande e minacciosa, come se temessi che potesse confiscarmi la collezione di
figurine o impedirmi di andare a vedere la partita degli Yankees. “Allison”
dissi, ma credo che mi sentii da solo e fu più che altro per il labiale se lei
poté annuire.
“Senti mamma” mi affrettai a
prendere la parola, non perché volessi che capisse le mie ragioni, ma perché
volevo che sapesse che la pensavo come lei, avevo colpa e me ne assumevo ogni
responsabilità “non c’è giustificazione per come mi sono comportato con Allison,
sono stato un irresponsabile a lasciarla da sola! Ora vorrei solo poter
rimediare …”
Non avevo ben chiaro il tipo di
ascendente che mia madre aveva su Allison, anche se ero sicuro che si volessero
molto bene e che Allison provava per lei un profondo rispetto; speravo però che
fosse sufficiente a darmi la possibilità di spiegarmi e farmi perdonare. Perché
pur di non perderla avrei accettato anche l’amicizia fraterna. Guardare e non
toccare sono due cose che fanno crepare, su questo sono d’accordo tutti, ma
vederla sparire sarebbe stato mille volte peggio.
“Lascia stare quello che è
successo tra di voi, sono cose private in cui io non voglio entrare …” mi frenò
lei, mettendo letteralmente le mani avanti. Era bello sapere che nonostante
fossimo amici di letto quasi alla luce del giorno, ci era ancora concessa della
privacy, anche se forse la riservatezza di mia madre era dovuta più al pudore
che da altro. “E del fatto che te ne sei letteralmente sparito senza dire una
parola ne parleremo più tardi … ma ora c’è una cosa che mi sta più a cuore …”
disse lei e notai nelle corde della sua voce un cambiamento radicale: sembrava
più preoccupata che arrabbiata e questo era un presagio peggiore, rispetto alle
mie previsioni.
“Oddio!” esclamai, figurandomi
davanti immagini sciagurate di incidenti stradali, con carcasse di autobus in
fiamme e lenzuoli bianchi stesi qua e là sul manto stradale. “Dov’è Allison
mamma? Dov’è?” domandai inorridito, alzandomi dalla sedia senza che il comando
fosse mai partito dal cervello ai miei muscoli. Sentivo la mia voce
agghiacciata dagli scenari che mi si erano profilati e solo a pensare a quella
tremenda ipotesi il mio corpo rabbrividiva.
“Tyler!” mi riprese mia madre,
mettendomi a sedere di nuovo, esattamente come quando ero bambino “Tyler
calmati! Va tutto bene, è tornata ieri sera e sta benone. Solo …”
“Solo?” incalzai. Odiavo quel
suo modo di fare, quando interrompeva le frasi stile soap opera. Se mi devi
dare una brutta notizia, non c’è niente di peggio che averla a piccole dosi,
provando più dolore che ad apprenderla in una sola botta.
Vidi mia madre chiudere gli
occhi e passarsi le mani sul volto, a nascondere lo sguardo. Era visibile la
sua tensione, il dubbio che aveva, il terrore probabilmente di usare le parole
meno adatte. Una volta ripreso evidentemente il controllo, strinse meglio a sé
lo scialle e parlò: “Allison è andata alla polizia, Tyler. È uscita presto di
casa stamattina” mi raccontò “aveva detto di voler andare a correre per
sgranchire le gambe dopo il lungo viaggio in autobus. E dopo un’oretta ci
arriva la sua chiamata dalla polizia, dicendo che aveva bisogno di un avvocato
Il resto della conversazione
non fu esattamente chiaro, ricordo la voce di mia madre come un’eco lontana, un
suono ovattato che la mia testa, in confusione, non aveva fatto in tempo a
decodificare.”
Mi madre aveva parlato di
denuncia, ma non avevo ben capito sé era andata a denunciare i suoi aguzzini o
a costituirsi. Che poi non capivo cosa avesse da confessare: lei era stata solo
una vittima arrendevole. Contrariamente a quanto si crede generalmente, nel suo
caso piegarsi era meglio che spezzarsi, questione di sopravvivenza.
E così la mia piccola Allison era
finita davanti a quei mastini delle guardie: così piccola ed indifesa che al
minimo tentennamento avrebbero potuto mangiarsela in un solo boccone.
Corsi a perdifiato per la
strada, perché la stazione di polizia più vicina non era particolarmente
lontana e avevo bisogno che l’aria gelida di New York mi raffreddasse il
cervello, in ebollizione per tutte le informazioni che mia madre mi aveva dato:
gli uffici a cui dovevo rivolgermi, tutti i nomi che aveva fatto e che mi avrebbero
aiutato a vederla. Sapevo che non era sola, Les si era fatto subito avanti per
sostenerla. Perché avere per patrigno un avvocato, a volte, può essere davvero
un vantaggio.
Finché non salii le scale della
centrale di polizia non potevo ancora credere che lo avesse fatto. Man mano che
passavo di ufficio in ufficio, ogni volta che mi lasciavano ad aspettare fuori
da una porta o che davanti a me un poliziotto grassotto mi stava a guardare con
sufficienza, aspettando qualcuno che dall’altro capo del telefono rispondesse,
ero sempre più sconvolto dall’idea che lo avesse fatto per davvero. Avevo
ancora davanti a me, nitide, le immagini di quella mattina tragicomica, dopo la
notte più bella della mia vita, quando avevamo fatto l’amore per la prima
volta, mia madre si era presentata al mio appartamento e lei, presa dal panico,
si rintanò in camera mia facendo l’isterica e urlando che mai e poi mai lei
sarebbe finita in gabbia. Ed ora si stava offrendo volontaria. Meraviglioso!
“Tyler!” sentii chiamarmi alle
spalle, mentre davanti ad una macchinetta del caffè prendevo quello che era il
quarto caffè della giornata. Forse una camomilla sarebbe stata più appropriata,
ma avevo bisogno di essere il più vigile e reattivo possibile. Les mi venne
incontro in jeans e maglione di lana, invece che con il suo solito gessato
carbone d’ordinanza. Aveva in mano un fascicolo, che supposi essere tutta la
documentazione riguardante Allison. Mi strinse la mano e ci lasciammo andare ad
un abbraccio che in tanti anni di parentela acquisita non ci eravamo mai
concessi. Eravamo entrambi nervosi e capii che in qualche modo quella ragazza
era entrata anche nel suo cuore. Come poteva essere diversamente.
“Ma che cosa …” volli
domandare, ma evidentemente sentiva l’urgenza di dirmi qualcosa che fosse più
importante.
“Ti ringrazio di essere venuto.
Allison non voleva che ti avvisassimo ma io e tua madre abbiamo pensato che non
fosse giusto …”
Non sapevo cosa dire, ero del
tutto stordito. Riuscii a pronunciare un grazie stentato. Avevo bisogno di una
sedia o sarei caduto a terra come una pera cotta. Notai una panca accanto al
distributore di bevande e mi lasciai stramazzare lì sopra, abbandonato da tutte
le forze.
“Dov’è?” domandai. “È con gli
ispettori, le stavano facendo delle domande fino a poco fa, ci siamo presi una
pausa, ma lei non può muoversi … sai come sono i poliziotti qui … sembra ancora
di stare nel Far West”
Me lo ricordavo bene: nei primissimi
mesi dopo la morte di Michael, infatti, Les era stato costretto a tirarmi fuori
di prigione per tre volte, e i capi d’accusa erano uno più ridicolo dell’altro.
L’unica volta che mi ero veramente cacciato nei guai, ma non ricordavo molto
considerati i fiumi d’alcool che erano scivolati via quella notte, quando,
qualche anno prima, non ancora ventunenne, ero stato beccato ubriaco per le
strade di NY ed eravamo andati a fare i cretini con dei vecchi compagni di
liceo proprio davanti ad una volante della polizia. Scemo e più scemo. Quella
volta fu l’avvocato di mio padre a tirarmi fuori di prigione e lui me lo
rinfacciò così tanto che avrei preferito marcire in prigione piuttosto che
farmi pagare la cauzione da un uomo di mio padre.
“E ora” chiesi, esitante e preoccupato
“che succede ora?”
“Vorrei poterti dire che non
succederà nulla … il problema è che non lo so neanche io” rispose inerme ma
franco “sicuramente verranno avviate delle indagini, ma non le risparmieranno
il processo. Lo sai, qui è il …”
“… il Far West” completai io la
sua frase “lo so”. Non avevo idea del motivo che l’avesse spinta a quel gesto,
visto che proprio lei era quella che vedeva la casa circondariale come uno
spettro da evitare con tutta sé stessa. Volevo esserle vicina, volevo che sapesse
che le ero accanto, davvero, volevo che sapesse che non l’avevo abbandonata,
nonostante la mia fuga da stupida ragazzina adolescente che fugge anziché
affrontare le sue responsabilità. “Posso … posso vederla?”
“Non credo Tyler che te la
lasceranno incontrare …” rispose Les, titubante.
“Andiamo!” lo incalzai “sei o
non sei il migliore avvocato di tutta la costa Orientale?”
“No, non lo sono” negò lui,
ridendo, mentre lo scuotevo per le spalle. Ok, probabilmente la mia era stata
la sviolinata meno riuscita della storia, ma comunque Les restava un buon
avvocato, a New York era rispettato e questo doveva pur valere qualcosa. Quando
gli ribadii quello che pensavo di lui, lo vidi alzarsi, forse per orgoglio,
forse per autocompiacimento, sistemarsi il colletto della camicia e dirigersi
in un ufficio in fondo al corridoio.
Dieci minuti dopo, dopo una
serie di urla e parole un po’ pesanti da parte di un insospettabile Les, mi
trovavo in una stanza di quelle che fanno tanto poliziesco, con gli specchi
unidirezionali e le cimici a registrare ogni singolo respiro. Non era la
condizione idea per rivederla, ma per lei potevo sopportare anche che un
omaccione afroamericano mi rovistasse dappertutto per controllare che non
avessi nulla di potenzialmente pericoloso con me.
Quando me la condussero avrei
voluto stringerla forte e baciarla, ma ne convenni che non era il posto né la
circostanza migliore per lasciarsi andare a pubbliche dimostrazioni d’affetto.
Eppure, al contempo, non avrebbe potuto esserci opportunità migliore: se solo
non mi fossi comportato da emerito cretino l’ultima volta che c’eravamo visti. Ero
stato un cretino, e da cretino patentato mi stavo comportando: sì perché non
riuscivo a non essere fiero del mio comportamento; hai fatto bene, doveva sapere continuava a ripetermi la mia
coscienza. E se quella testa ciarlona non l’avesse finita l’avrei schiacciata,
come si fa con i grilli che parlano troppo.
Così lei mi salutò con un cenno
del capo e un piccolo gesto con la mano, nascosta quasi completamente nella
manica della maglia. Aveva paura: faceva sempre così quando era spaventata.
Eppure non si stava tirando indietro, affrontava il suo peggior nemico e lo
stava facendo con dignità.
Venne sedersi accanto a me,
poggiando le mani, quasi giunte, sul tavolo. D’istinto le presi tra le mie:
erano gelate; le portai verso la mia bocca e le baciai, sperando che non le
ritraesse, né che prendesse a male il mio gesto. Fortuna mia, non accadde né
l’una, né l’altra cosa.
“Perché?” le domandai, finalmente.
“Immaginavo che Diane e Les non
ti avrebbero tenuto all’oscuro per molto. Anzi … direi proprio che non hanno
saputo tenere la bocca chiusa nemmeno per un secondo” non capivo per quale
motivo evitasse di rispondere alla mia domanda, non riuscivo a trovarne uno che
fosse sensato. Pensai alla vergogna, alla paura, ma entrambe erano fasi che
avevamo superato da un pezzo? Se mi avesse detto che non era una faccenda che
mi riguardava più mi avrebbe fatto incazzare ancora di più di quanto non mi era
accaduto solo pochi giorni prima, perché mi ero fatto spaccare la faccia per
lei, e non mi andava a genio l’idea di farmi illividire per niente.
“Spiegami perché” pressai,
pregando che non si risentisse della mia insistenza.
“Detenzione di documenti falsi
è l’accusa al momento” rispose “prostituzione, spaccio di droga e furto
dovranno essere accertate. Ma sono tutte imputazioni di cui mi sono
personalmente accusata davanti al mio avvocato. Appena finiranno con
l’interrogatorio mi trasferiranno al piano di sopra …”
Sapevo bene cosa c’era un paio
sopra a dove ci trovavamo noi: avevo già dormito un paio di notti in gattabuia
ed ero sempre stato attento a non farmi scarcerare prima della colazione: è
gratis ed è dannatamente buona. Ma lei no, non volevo che ci entrasse nemmeno
per un secondo.
“Les dice che non ci passerei
più di un paio d’ore, tempo di sbrigare tutte le prassi burocratiche … uscirei
con la cauzione. E poi, certo, ci sarà il processo”
“E cos’altro dice Les?!”
sputai, sarcastico “lo dice che non hai idea del pasticcio in cui ti sei
cacciata? Che la giustizia americana è un Far West dove è meglio non immischiarsi
perché solo chi è forte vince?”
“Io sono forte Tyler … posso
farcela. Non ho paura di entrare in una cella … ho vissuto anni in gabbia!” rispose
lei, con altrettanto fermezza. Tuttavia non era una questione di carattere,
piuttosto una questione di potere. Era fortunata a non avere un avvocato di
ufficio, sottopagato e spremuto fino all’osso dallo Stato, ma il suo processo
non sarebbe stato sulle prime pagine dei giornali come Lindsay Lohan e nessuno
le avrebbe ridotto la pena solo per aver letto il suo cognome. Non volli
insistere oltre: Les le aveva tenuto nascosta quella parte e non stava a me darle
queste cattive notizie; inoltre, da ragazza intelligente qual era, dubitavo
fortemente che non sapesse già quello che, per proteggerci entrambi, aveva
sicuramente finto di non capire.
“Va bene” dissi, cercando di
reprimere la rabbia che mi saliva a vederla così calma “però mi devi dire
perché diamine l’hai fatto. Perché sei venuta dalla polizia?”
La vidi abbassare il capo e
nascondermi i suoi bellissimi occhi, cosa che mi innervosiva sempre perché
voleva dire che non aveva fiducia in me o per qualche ragione si vergognava e
mi temeva. Ma come, avrebbe dovuto saperlo, non dovevano esserci barriere:
erano cadute nello stesso istante in cui mi aveva fatto entrare nella sua vita.
“Io” tentennò “l’ho fatto
perché avevo bisogno di dire addio a Mallory una volta per tutte. Non bastava
far sparire dei documenti falsi o darsi una ripulita per iniziare una nuova
vita”
“Una nuova vita?” chiesi
spiegazioni, ma avevo paura che la sua risposta potesse farmi male. Ma dovevo
saperlo subito, se aveva intenzione di dirmi addio
“Tu avevi ragione … io ho
semplicemente fatto finta di non vedere quello che per tutti era alla luce del
sole” esordì, sorridendo sommessamente, quella vaga aura malinconica che sempre
la circondava.
“A cosa ti riferisci?”
domandai. “A noi” rispose lei, questa volta lasciando che i suoi grandi occhi
verdi arrivassero dritti ai miei, per rimbalzare verso il mio cuore e farlo in
mille pezze.
Avevo sentito bene?! Aveva
detto proprio NOI, quella parola magica che da tempo sognavo di sentire. Quindi
credeva come me che quel noi esisteva, ma si era ostinata a non voler vedere.
“Io lo sai, non ne capisco
molto di sentimenti” riprese, stringendo lei questa volta lei miei mani “però
io … io ho c’ho pensato a lungo in questi giorni e so già che sarà un casino …
ma voglio provarci”
Sapevo che non avrebbe mai
usato le parole che avrei potuto usare io, capivo la difficoltà e l’impaccio
nell’esprimere sentimenti che fondamentalmente non conosceva. Però sentivo
anche tutto lo sforzo che ci stava mettendo e sentivo forte il battito del suo
cuore, il calore e l’emozione che quella dichiarazione un po’ sbadata le
stavano procurando. Era tutto passato, dimenticato; non c’era rancore o sdegno:
c’era solo tutto l’amore che ero pronto a darle e che lei, finalmente, si
sentiva pronta a ricevere.
“Non è mai facile Allie … ma
quando si è in due tutto è più facile” sapevo che non dovevo usare paroloni che
l’avrebbero spaventata, era meglio sottintendere. Doveva essere tutto facile, dovevamo
rimanere Allison e Tyler di sempre, quelli che andavano in giro per New York a
divertirsi o rimanevano in casa a coccolarsi: perché eravamo già una coppia,
l’eravamo sempre stati agli occhi degli altri. Solo che, ora, l’avremmo saputo
anche noi.
Sciolsi la presa delle nostre
mani e le accarezzai una guancia, sorridente. Mi sentivo un idiota, ma non me
ne fregava nulla. Ero felice e, anche se non ero esattamente sotto la Tour
Eiffel, avrei voluto gridarlo al mondo. Ma la cosa più straordinaria di tutti
era quella meraviglia che avevo davanti agli occhi, quella porcellana che con
la mia carezza stavo sfiorando: era felice quanto me, e non aveva paura di
mostrarlo; forse per la prima volta da quando la conoscevo, si occupava davvero
di sé stessa. Stava mettendo da parte gli scrupoli e si stava concedendo il mio
affetto senza scrupoli, senza più porsi le domande o preoccuparsi di trovare un
modo per sdebitarsi.
“Devo chiederti scusa per come
mi sono comportato con te ad Indianapolis” le confessai “eravamo entrambi
nervosi e come al mio solito ho finito per peggiorare la situazione. Avevo
troppa paura di perderti …”
“ed invece è stata proprio la
tua sfuriata ha farmi aprire gli occhi … forse lo sapevo già … ma è stato
quando sono rimasta sola che ho capito che la mia vita è qui, con te”
Ero un uomo, ma avrei voluto
piangere; avrei voluto prenderla, baciarla, abbracciarla, magari anche portarla
davanti ad un prete e sposarla in quel momento. Mi voleva … mi voleva davvero.
Non era possibile eppure era vita vera e non un sogno malefico venuto a torturarmi
per lasciarmi con l’amaro in bocca una volta sveglio. E se è un sogno vi prego … lasciate che io muoia ora così questo sarà
il mio ultimo ricordo.
Mi avvicinai a lei quel poco
che bastava per sfiorare le sue labbra. Non volevo la passione, ma solo
sfiorare le sue labbra, sentire il suo sapore ed il suo profumo invadere i miei
sensi in maniera gentile ed innocente, come lei sapeva fare; ma mi fermò,
premendo l’indice contro la mia bocca. “Non qui … non ora” parlò sottovoce, tuttavia
emozionata ed imbarazzata, accennando a qualcuno che era oltre la mia spalla.
Un paio di poliziotti in
borghese, le facce impenetrabili e serie, facevano le belle statuine
all’ingresso della stanza e sperai che fossero lì da poco.
“È ora di andare ragazzo” mi
disse uno di loro, avvicinandomi e prendendomi per il braccio.
Le lasciai una lieve carezza
sulla guancia e per entrambi era stato come bruciarsi.
“Sono qui fuori ad aspettarti”
le sussurrai. Lei annuì, sicura che fosse la verità.
Nel corridoio incontrai Les,
che aspettava di riprendere l’interrogatorio con un plico sempre più grande di
carte e libri da studiare e a cui ricorrere.
“Come l’hai trovata?” mi
chiese, notando evidentemente che, rispetto a quando era entrato, ero
decisamente più rilassato. “Bene” risposi “è serena e ha fiducia in te. Non
deluderla”
“Faccio del mio meglio lo sai”
replicò lui “ma devo pensare anche a tutta un’altra serie di cose ora. Se, come
penso io, partiranno le indagini, anche noi verremo coinvolti … niente di cui
preoccuparsi, ma vorranno almeno sentire quello che abbiamo da dire”
“Certo certo” annuii. E ne
avrei avute di cose da dire io; se fosse servito a farmi vedere in faccia quel
pappone che aveva ridotto Allison ad una schiava, se fosse servito a sbatterlo
in galera e a buttare via la chiave, avrei parlato davvero molto volentieri.
“Un’altra cosa Tyler …” riprese
Les “dovresti avvisare i genitori di Allison. La polizia li avrà già avvertiti
visto che era stata fatta una denuncia di scomparsa, ma ho bisogno che li
tranquillizzi. Allison non vuole vederli …”
Annuii e lo lasciai rientrare
negli uffici dove si stava tendendo l’interrogatorio. Ero ancora troppo
euforico per pensare a trovare un panino da mettere sotto i denti per il pranzo
e non avevo oltretutto la minima intenzione di abbandonare l’edificio. Una
promessa è una promessa e va mantenuta.
Prima di tutto avrei dovuto
chiamare i Riley e non sapevo cosa aspettarmi: Les aveva detto che Allison non
voleva vederli e questo, oltre ad rattristare, mi metteva il dubbio che lei non
li avesse incontrati, nonostante avessi organizzato un incontro fortuito con
suo padre il giorno del suo compleanno; oppure lui non si era fatto avanti, ma
questa era un’ipotesi che mi sentivo di poter scartare.
Ma il mio corpo sembrava
essersi calmato e riavviato alla grande dopo l’incontro con Allison e nel giro
di dieci minuti i crampi allo stomaco mi stavano corrodendo e implorando di
buttare giù qualcosa. Mi sembrava di ricordare, a memoria visiva, di un bar a
pian terreno, ed infatti fu lì che andai; eravamo io ed un centinaio di altre
persone ad intasarlo: per prendere un hamburger e una Coca Cola impiegai 20
minuti sani, tanto che mi sembrava di essere nella mia libreria nei giorni di
punta: avrei provato il trucchetto degli occhi dolci, se solo al bancone non ci
fossero solo uomini. Mangiato al volo me ne andai a fumare una sigaretta fuori
dall’edificio, in mezzo al passeggio continuo dei marciapiedi di New York:
avevo voglia di caffè, ma per oggi ne avevo presi già troppi. Tra un tiro e
l’altro tirai il naso in su, tra i grattacieli il sole era al suo zenit e si
scorgeva; era una strana giornata d’inverno: non era fredda e umida, come al
solito, ma calda e secca, quasi primaverile. Ma non per questo provai a
togliermi il giaccone.
Presi il telefono e trovai di
getto il numero di casa Riley sulla mia rubrica, dove Allison aveva voluto che
lo salvassi: previdente come al solito.
Non passarono che due squilli
da quando avevo avviato la chiamata.
“Pronto?” rispose all’altro
capo Doug. La sua voce era esattamente quella di colui che è in attesa di
notizie gravi e sviluppi e non era certo mia intenzione tenerlo sulle spine.
“Doug?! Salve Doug sono Tyler
…” “Oh Tyler, benedetto ragazzo!” sentii esclamare, ma stavolta a parlare era
Lois, la mamma di Allison, leggermente in lontananza. “Signora Riley?!” chiesi,
titubante, a causa di una conversazione non particolarmente limpida. “Tyler non
preoccuparti … sei in vivavoce” esclamò Doug, leggermente rilassato a sentire
una voce amica “dimmi tutto”
Non sapevo fino a che punto
spingermi, avevo paura di sbagliare come e peggio di prima. Rischiare di
perdere Allison una volta avrebbe potuto essere umano, ma perderla due … era
decisamente diabolico.
“Non preoccupatevi” cercai di
minimizzare, diplomatico “la situazione è in mano al marito di mia madre, Leslie
Hirsch. È un ottimo
avvocato, dovete davvero stare tranquilli …”
“Tyler ma di cosa è accusata?” chiese Lois, in
apprensione. “Signora … davvero glielo devo dire?!” chiesi, sperando di non
risultare troppo cinico “e comunque è stata lei a presentarsi dalla polizia. Ha
denunciato le sue vecchie … compagnie … ma per farlo ha dovuto dare loro i suoi
vecchi documenti e spiegare la sua posizione. La faremo uscire pagando la
cauzione, ma Les è fiducioso che il giudice capirà la posizione di Allison e
lei ne uscirà pulita”
Forse mi ero spinto troppo oltre, raccontando
loro una versione del futuro a cui non credevo, ma sapevo quanto Les avesse
sofferto e non meritava altro dolore. E per quando si fosse comportata da
stronza, neanche Lois lo meritava.
“Bene” commentò Doug, ma era così ermetica la sua
voce che non capii se si trattava di soddisfazione vera o fosse una mera
constatazione: optai per la seconda. “Noi verremo a New York in ogni caso”
dichiarò “… tempo di trovare un volo. Domani sera al più tardi saremo lì”
“No Doug!” lo fermai “non è il caso davvero! La
situazione è sotto controllo e già questa sera Allison sarà a casa” … con me, aggiunsi, ma lo solo le mie
labbra se ne accorsero.
“Tyler è nostra figlia!” ribatté Lois “non puoi
impedirci di vederla”
“Io no” ne convenni “ma lei sì. È maggiorenne
ormai … Doug, avrei bisogno di parlarti privatamente per favore”
Non era per cattiveria, ma c’erano cose che Lois
non sapeva e non stava a me parlargliene. Ne sarebbe venuta a parte solo quando
e se sua figlia avesse voluto. Io avevo sbagliato una volta, non mi sarei
fregato con le mie stesse mani di nuovo.
“Dimmi
Tyler” disse Doug e mi accorsi immediatamente che eravamo rimasti solo io e lui
nella conversazione, sentendolo decisamente più vicino. “Cos’è successo?
Allison dice che non vuole vedervi. Io non le ho chiesto nulla, ma Les dice …”
“È
colpa mia” mi interruppe “non ce l’ho fatta a nascondere la verità a mia
moglie. Le ho detto che era in città ed andata da lei …”
E
così non era riuscito a mantenere il silenzio; purtroppo, era una cosa che
avrei dovuto aspettarmi. A vederli insieme, Doug e Lois, era palpabile quando
fosse solida la loro unione, ma soprattutto la loro fedeltà e fiducia l’un
l’altro, nonostante le prove che avevano dovuto affrontare. Potevo solo
immaginare la reazione di Allison a trovarsi sua madre di fronte, l’ultima
persona che lei avrebbe voluto trovarsi davanti.
“Ora
non mi stupisce che non ci voglia vedere … si è sentita tradita” constatò lui,
demoralizzato “l’ho accompagnata alla fermata degli autobus per ripartire, ma
ci siamo scambiati poche parole. Parlale Tyler, ho paura che non voglia più
vedermi …”
Doveva
essere una paura ricorrente quella, c’ero passato anch’io e sapevo cosa si
provasse. “Proverò” mi impegnai “ma non garantisco”
Ci
salutammo cordialmente e cercai di tranquillizzarli di nuovo entrambi. Lasciai
loro anche il recapito telefonico di Les, volendo accollarsi l’onere della
cauzione. Anche se non erano in buoni rapporti, anche se ricucire quel legame
sembrava difficile, sembravano intenzionati a far funzionare le cose. C’era da
fidarsi di loro, o almeno di Doug: conoscevo quel genere d’impegno e
determinazione, perché era lo stesso che mi aveva portato ad averla vinta
proprio con Allison.
Passai
il resto della giornata nella sala d’aspetto della centrale, tra gli sguardi
sospetti degli agenti e squallide riviste comprate nel giornalaio in fondo alla
strada in tutta fretta, per evitare di non essere presente quando Allison fosse
stata rilasciata. Di tanto in tanto andavo a rompere le scatole negli uffici a
chiedere informazioni, ma venivo molto poco educatamente rimandato a sedere e
ad aspettare, perché quel genere di cose non ha un tempo stabilito e non
possono parlarne con il primo che capita. Il tempo passava, più di quanto io
stesso avevo stimato e fui costretto a chiedere ad Aidan di fare gli
straordinari in libreria per sostituirmi; ce l’avevo ancora con lui e lui con
me, ma non era riuscito a dirmi di no: “Spero per te che ne valga la pena”
aggiunse, quando gli spiegai perché stavo passando la giornata in una centrale
di polizia.
Quando
vidi Les uscire dall’ascensore erano ormai le sette di sera, e non mi ero
nemmeno accorto che erano state accese le luci nell’edificio. Nell’androne
eravamo rimasti in pochi, qualche barbone rifugiatosi lì per la notte e gente
in fila per denunce o documenti.
Gli
andai incontro mentre si preparava ad uscire, infilandosi giaccone e sciarpa.
Sembrava soddisfatto ed io tirai un deciso sospiro di sollievo, anche se non
potevo esserne ancora certo.
“Allora?!”
domandai e dal tono che mi uscì dovetti risultare più in apprensione di quanto
non fossi realmente, a giudicare dall’espressione scettica di Les.
“Come?!”
chiese lui a sua volta, sarcastico e divertito, ricordando le mie lusinghe di
quella mattina “non mi avevi definito il miglior avvocato della East Coast?! E
questa è tutta la fiducia che riponevi in me … complimenti!”. Ridemmo entrambi
e lui mi mise un braccio attorno alle spalle, dandomi un grosso scossone, notando
sicuramente quanto quell’intera situazione mi aveva coinvolto e provato. “È
andato tutto come previsto” continuò “Allison sta prendendo le sue cose e
scenderà a breve. Io me ne torno a casa, è stata una lunga giornata …”
“Grazie
… grazie mille Les” esclamai, abbracciandolo davvero di cuore. Ma lui si
stacco, lasciandomi delle pacche sulle spalle confortanti e annuendo
leggermente con la testa: era sempre stato un gran chiacchierone e uno che non
ha peli sulla lingua, a riprova del fatto che la sua professione calzasse a
pennello con la sua personalità, e vederlo lì in silenzio, quasi commosso dalla
mia espansività nei suoi confronti, mi disorientava. Di figli non ne aveva
avuti, né con mia madre, né dal suo primo matrimonio, finito male, con un’oca acida
che, se non fosse stato per sue le ottime conoscenze nel foro di New York,
aveva tutte le intenzioni di ridurlo sul lastrico. Ed ora si occupava in
maniera egregia della piccola Caroline e negli ultimi tempi anche di me; era un
ottimo padre putativo, cosa che non era riuscita affatto al nostro padre
naturale, colui che vi aveva dato il nome. Mi sarebbe piaciuto che fosse stato
lui lì con me, che lui si fosse fatto in quattro per Allison, che lui mi avesse
dato quelle pacche sulle spalle. Ma nella vita non si può avere tutto, e se
questo era il meglio che potevo avere, lo prendevo con molta gratitudine. Les
si allontanò, ma prima di uscire mi salutò un’ultima volta: “Immagino che non
dobbiamo aspettarci un rientro di Allison a casa prima di domattina, giusto?”
Risi,
un po’ timidamente e mentre lui se ne andava mi voltai, accorgendomi che gli
ascensori si stavano aprendo di nuovo. Allison era finalmente davanti a me.
Dentro quella stanza, prima di pranzo, avrei voluto prenderla, abbracciarla e
baciarla. “non qui … non ora” disse lei; ma ora sì che avrei potuto, e anche se
il luogo non era esattamente il più romantico e appropriato che conoscessi,
sentivo che potevo farlo. Avrei baciato Allison; ero emozionato come una
adolescente al suo primo bacio, anche se quello non era certo il primo bacio
che avrei dato ad Allison. Ma la mia ragazza, per lei sì che era il primo
bacio.
Fu
lei però a sorprendermi e a venirmi incontro, lasciando che sue braccia si
ancorassero alle mie spalle e le mani si arpionassero tra i miei capelli.
Nascose la testa nel mio collo ed io la tirai su. Non piangeva, non rideva e
non ero nemmeno sicuro che stesse respirando. Stavamo lì, fermi, a bearci l’uno
della stretta dell’altro. Il suo profumo al ridosso del mio corpo mi era
mancato immensamente e quell’aroma di latte di mandorle era ormai il mio
calmante naturale; mentre con una mano le cingevo la vita, con l’altra le
accarezzavo i capelli lisci e setosi.
“Sei
qui!” disse lei quando ci staccammo, quasi incredula ma felice di avermi trovato.
“Sono qui!” confermai ed i suoi occhi si fecero lucidi, le labbra si
contrassero, come quando si vogliono reprimere a forza le lacrime. Eppure era
raggiante. “Sei qui!” ripeté, la voce rotta. “Non piangere” sussurrai, stringendole
il volto tra le mie mani e posandole un bacio sulla fronte “dove pensavi che
fossi … te l’avevo promesso”
Così
come lei era rimasta interdetta dall’avermi trovato lì ad aspettarla, così io
ero ancora sconcertato dall’idea che la mia piccola eroina aveva deciso di dire
addio al suo passato nel modo più terribile, e lo aveva fatto per noi, perché
potessimo stare insieme senza ombre e senza paure.
La
vidi ricacciare in dentro le lacrime, obbligandosi a sorridere anche se aveva
voglia di piangere tutte le lacrime di questo mondo. Mi diceva sempre che le
lacrime non erano fatte per la felicità e si stava impegnando per far sì che
fosse così.
“Ora
me lo puoi chiedere” disse, posando le sue mani sul mio torace; dapprima non
capii e non ci fu bisogno di chiedere, perché lei comprese il mio
disorientamento. Dovevo avere una faccia che era tutta un programma … “quello
che mi hai chiesto ad Indianapolis” chiarì “chiedimelo di nuovo”
Non
aspettavo altro e non ebbi paura. Perché sapevo bene quale fosse la risposta e
non c’era nemmeno bisogno di chiederglielo. Lasciai scorrere le mie mani dal
suo volto al collo, intrecciando le mie dita con l’attaccatura dei suoi capelli
alla nuca, l’attirai a me e l’ultima cosa che vidi prima di chiudere gli occhi
fu il suo sorriso. Le nostre labbra si incontrarono di nuovo dopo quello che mi
sembrava un periodo lunghissimo, una vita intera. Si salutarono prima
timidamente, poi sempre più spavalde, come chi ha atteso e palpitato perché
quell’incontro avvenisse. Tutto quello che avevamo passato fino a quel momento
era in quel bacio, la fatica di capirsi e aprirsi all’altro, la facilità di
stare insieme e divertirsi insieme. I sorridi, le lacrime e anche e soprattutto
i litigi. Eravamo cambiati molto, entrambi, ma non eravamo mai stati così tanto
noi stessi per l’altro. Sentii le sue mani finire di nuovo nei miei capelli,
afferrandoli, tirandoli eppure quello che i nostri corpi frementi parlavano era
un idioma diverso da quello delle nostre bocche; mentre le nostre mani ci
avrebbero strappato già i vestiti di dosso, le labbra assaporavano quel momento
fino in fondo, fino all’ultimo: un filmato a rallentatore che apprezzava ogni
singolo fotogramma.
Dovemmo
staccarci controvoglia, ricordandoci che quella era una stazione di polizia e
nessuno dei due aveva intenzione di finire dentro per disturbo alla pubblica
decenza. Non c’era niente di male a baciarsi, ma i poliziotti non sono persone
particolarmente sensibili …
La
presi per mano, intrecciando le nostre dita ed andammo via: fino a quel momento
ogni volta che lo avevo fatto avevo dovuto ricordarmi che non era per lei
quello che valeva per me. Ora invece no, quello che aveva un significato per
me, lo aveva anche per lei: era una sensazione di alleggerimento mai provata
prima. Non avrei dovuto più pesare le mie parole e i miei gesti e, anche se non
sarebbe stato facile, era certamente una passeggiata rispetto alla situazione
precedente, quando eravamo in bilico tra amicizia e amore.
“Ciao
Aidan” salutammo il mio inquilino, appena rientrati in casa. Più entrare civilmente,
sembrava più che altro che avevamo sfondato la porta, battendovi contro,
impegnati a baciarci mentre aprivamo la serratura.
“State bene voi due?” domandò Aidan, uscendo dal cucinotto con in mano un
sandwich. “Sì” rispondemmo all’unisono, ma lui ci guardò perplesso.
Effettivamente, tra le risate e gridolini dovevamo dare l’idea di essere
ubriachi; ma era proprio così che mi sentivo, ero assolutamente strafatto di
Allison, del suo profumo, del suo sapore, del suo sorriso, dei suoi occhi.
“Aidan” esordii, con aria solenne “ti presento Allison, la mia ragazza!” “Ciao
Aidan!” mi fece eco lei, altrettanto euforica. Andai in cucina a prendere due
birre e lei prese il telefono per chiamare per ordinare delle pizze.
“Ma
tu non eri in galera?” le chiese Aidan, facendosi serio. “Strumento
meraviglioso la cauzione, non trovi?” rispose lei, non riuscendo a rimanere
seria. Avvicinandomi, le porsi la mia bottiglia e lei mi tirò a sé per la
maglia per darmi un bacio, così mi buttai sul divano anch’io e mi curai poco di
Aidan, rimasto lì a reggere il moccolo. Neanche nei miei sogni migliori era
stata così espansiva, ma immaginavo fosse solo la carica del momento e che
passate le prime ore, ci sarebbe passata ad entrambe. Almeno lo speravo,
altrimenti Aidan sarebbe stato costretto a trovarsi un altro appartamento.
“Ho
capito …” decretò il mio coinquilino e staccandomi controvoglia da Allison lo
vidi imbacuccarsi per uscire “è meglio se per stasera mi trovo un altro posto
per dormire”
NOTE FINALI
Ok,
lo so già che mi ammazzerete ora perché come finale
è orrendo e c'era una cosa che volevate leggere ... vi
conosco ormai porcelle XDXDXD
Comunque, questo è quanto. Finalmente! Allelujia!! Samba!!!
Lo so, lo so ... ce ne abbiamo messo di tempo ma alla fine ce l'abbiamo
fatta. Spero che non sia stato tutto troppo frettoloso, ma ho veramente
avuto tanta difficoltà a scrivere questo capitolo e se provavo a
dividerlo in due mi risultava vuoto.
Spero che vogliate farmi sapere cosa ne pensate perché è
davvero fondamentale per me. Parlo soprattutto con voi...lettrici
silenziose ù.ù
Vi rinnovo l'invito a passare sia sulla pagina di Facebook che su Twitter
Ora mi prendo una pausa di un mesetto (forse anche più) e vi
saluto chiarendo che la storia non è assolutamente finita, anzi.
à bientot