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Autore: _Arya    27/01/2012    2 recensioni
Esistono diversi tipi di ferite. Alcune possono guarire in poco tempo e da sole, altre con l’aiuto di una persona a noi cara che attraverso la vicinanza e il suo calore ci aiuta a farla rimarginare. Ci sono alcune ferite, per esempio quelle provocate dell’amore, quello vero, che si dice guariscano con il tempo.
Ci sono ferite dove il processo di rimarginazione è congelato, fermo, o addirittura inesistente dove né una persona né il tempo possono aiutare a spronare la sua guarigione.
La ferita che accompagna da sempre ogni singola giornata della mia vita, sia essa di luce che di pioggia, si è aperta molti anni orsono e ancora oggi è li, dentro di me. Questo mio continuo ricordare, questo mio continuo indirizzare i miei pensieri a ciò che l’ha provocata, mi ha portato alla conclusione che quel processo di rimarginazione si sia fermato proprio per non indurmi a dimenticare.
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Il mio minuto di silenzio per la Giornata della Memoria.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La nostra memoria tende a dimenticare quegli eventi e quegli episodi che in qualche modo hanno aperto una ferita all’interno del nostro cuore e nelle sue parti più profonde e nascoste. Dove risiedono i nostri desideri, le nostre speranze, ma anche le nostre paure e i nostri dolori.
Esistono diversi tipi di ferite. Alcune possono guarire in poco tempo e da sole, altre con l’aiuto di una persona a noi cara che attraverso la vicinanza e il suo calore ci aiuta a farla rimarginare. Ci sono alcune ferite, per esempio quelle provocate dell’amore, quello vero, che si dice guariscano con il tempo.
Ci sono ferite dove il processo di rimarginazione è congelato, fermo, o addirittura inesistente dove né una persona né il tempo possono aiutare a spronare la sua guarigione.
La ferita che accompagna da sempre ogni singola giornata della mia vita, sia essa di luce che di pioggia, si è aperta molti anni orsono e ancora oggi è li, dentro di me. Questo mio continuo ricordare, questo mio continuo indirizzare i miei pensieri a ciò che l’ha provocata, mi ha portato alla conclusione che quel processo di rimarginazione si sia fermato proprio per non indurmi a dimenticare. In realtà credo che forse questo non sia mai incominciato.
All’età di undici anni non avevo idea di che cosa fosse un lager, non avevo idea cosa fosse una campo di concentramento. Avevo sentito alcune voci su alcune persone definite fasciste, ma la mia indole di bambina non aveva alcun interesse a capire chi fossero realmente queste persone e cosa rappresentassero.
Avevo undici anni e come ogni bambina della mia età, passavo le mie giornate tra una lezione e l’altra a scuola, i giochi di quel tempo e le litigate con le mie sorelle e i miei fratelli. Oh la mia dolce e amorevole famiglia. Ricordo ognuno di loro, ogni particolare. Quanto ho sentito la mancanza di ciascuno di loro in quei giorni bui, quanto ho desiderato risentire le urla di mia sorella che mi sgridava perché mi ero introdotta di nascosto in camera sua e mio fratello che arrivava a mettere pace, il suono in sottofondo di un piano.
Il mio papà insegnava a suonare il piano. Con me aveva tentato e rinunciato. Diceva e sosteneva che ero una causa disperata. Ricordo che amavo sentire quella dolce melodia la domenica mattina risuonare tra le stanze di casa e svegliarmi con la carezza che quei tasti bianchi e neri producevano al solo sfiorarli. Passavo ore a guardare meravigliata e sognante il mio papà suonare. Adoravo ascoltare le melodie, non crearle.
La mia mamma invece era una mastra delle scuole elementari. Insegnava matematica. Spesso, troppo spesso, mi chiedevo perché Dio non mi avesse dato anche solo un briciolo della capacità che aveva la mamma nel risolvere problemi e ogni sorta di operazione.
Quanto a me, io ero una ragazzina vivace, un po’ troppo vivace secondo mio padre, curiosa e ingenua, pestifera, ma sempre educata.
Per quanto sia un dato di fatto che ai ragazzi non piace studiare, io adoravo scoprire cose nuove, capire il processo che un bruco doveva compiere per diventare una bellissima farfalla, leggere storie e scoprire nuovi e bizzarri personaggi che le popolavano. Una cosa che mi caratterizzava era il mio stare sempre tra le nuvole.
Ricordo la prima volta che la mia insegnante d’italiano me lo disse davanti a tutta la classe. Io risposi che era impossibile che fossi tra le nuvole perché mi trovavo in classe e poi anche volendo non potevo raggiungerle, mica sapevo volare. A quei tempi ero solo una bambina che a un mese a quella parte avrebbe fatto dodici anni.
Tutti scoppiarono a ridere e la maestra mi spiegò che era un modo di definire una persona che ha sempre l’aria sognante.
E aveva ragione. Amavo volare con la fantasia alimentata da quei libri che parlavano di mondi misteriosi e magici, popolati da principi e principesse, da elfi e da fate.
Vivevo una vita, come si sul dire, normale e io ero felice.
Avevo quindici anni quando il mio mondo felice incominciò a dare segnale di disquilibrio in una mattina di sole.
Ero in classe e la campanella era appena suonata. Io e i miei compagni andammo a sederci ai nostri posti e la maestra incominciò a chiamarci per nome per segnare chi fosse assente.
Il mio cognome lo saltò.
Convinta che si trattasse di un errore e di una sua svista, alzai la mano e lo feci notare.
La maestra mi ignorò e finì di fare l’appello. Posò il registro sulla cattedra e si volse per scrivere alla lavagna, dando così inizio alla lezione.
Scattai in piedi domandandole a gran voce il motivo. La maestra posò il gessetto e si girò verso di me. Mi parve che stesse prendendo tempo, perché ogni suo movimento era lento e studiato.
I suoi occhi marroni si fermarono su di me. Di solito la mia maestra era sempre solare e dolce, paziente e simpatica. Per noi tutti era come una seconda mamma. Quella mattina era distaccata e fredda. I suoi lineamenti non erano dolci come sempre.
Nella classe era sceso il silenzio che fu interrotto solo dalla sua voce triste.
<< Perché sei ebrea. >>
Quella frase su di me non ebbe lo stesso effetto che suscitò nei miei compagni di classe.
Intorno a me si sollevarono commenti a bassa voce, sussurri e pezzetti di frasi che mi giungevano da ogni parte.
Non mi interessava cosa stavano dicendo. Dentro di me si affollavano domande che chiedevano di spiegarli cosa mai mi avesse voluto dire la maestra pronunciando quella frase.
Chiesi spiegazioni, ma queste non arrivavano.
Che male c’era se la mia famiglia era ebrea? Non eravamo forse tutti uguali?
Allora ero convinta che i grandi sapessero tutto, ma solo nei giorni seguenti questa mia convinzione fu messa davvero alla prova incominciando proprio da questo momento.
I commenti dei miei compagni andavano aumentando e la maestra fu costretta a farli tacere. Sembrava combattuta.
Nell’aula cadde nuovamente il silenzio.
La maestra pronunciò il mio nome e dopo una lunga pausa disse: << Esci dall’aula. >>
Il tonò con cui mi ordinò di andarmene non ammetteva repliche. Io ero stata cresciuta e abituata ad obbedire ai grandi, a portare loro rispetto. 
Con lo sguardo incredulo di chi non sa cosa stia realmente accadendo e perché le stia succedendo, passai in rassegna dei volti dei miei compagni. Evitavano il mio sguardo e abbassavano il loro nel momento in cui i miei occhi incontravano i loro.
Quella fu l’ultima volta che vidi ciascuno di loro.
Raccolsi le mie cose e uscì dalla classe.
Non tornai più in quella scuola.
Nei giorni seguenti la speranza che le mie amiche si domandassero di me e quando sarei tornata a scuola andò spegnendosi. Una sera udì la mamma in cucina parlare con papà. Era preoccupata. Io tesi le orecchie e nascosta all’ombra della porta mi misi ad origliare, anche se questo era sbagliato. Non passò molto tempo che mio padre mi scoprì e senza dire una parola, mi venne incontro, mi diede una carezza sulla testa e chiuse la porta.
Quella notte non riuscì a dormire perché parole e nomi che per non avevano alcun significato viaggiavano a briglia sciolta nella mia mente. Per quanto fossi piccola, non ero stupida. Stava succedendo qualcosa. Ma cosa?
In quel periodo non fui solo io a smettere di andare a scuola. Ogni bambino e bambina ebrea, ogni ragazzo e ragazza ebrea, fu allontanato dagli istituti scolastici. Ci fu negato il diritto di avere un istruzione e di frequentare la scuola pubblica.
Allontanando il pensiero triste che le mie amiche di scuola mi odiassero, la comunità ebraica organizzò delle lezioni per noi ragazzi e visto che anche i grandi furono privati del loro lavoro, non fu difficile ritornare ad avere un insegnante che ti riempie la testa con nomi di autori e problemi di matematica.
Anche questo, però, durò poco.
A cena papà non ammetteva che si ascoltasse la radio e ogni qualvolta che la voce della donna del telegiornale pronunciava la parola fascista o semplicemente ebreo, ordinava alla mamma o ad un mio fratello di spegnerlo.
Capì che stava cercando di proteggere me e il mio fratellino più piccolo, quando i giornali sparirono da casa. Non mi era concesso ascoltare la radio quando né mamma né papà erano assenti. Quando andavamo per le strade a vedere le vetrine dei negozi, se papà incontrava qualcuno che conosceva, incominciava a parlare, ma quando saltava fuori quella parola mi mandava a prendere un gelato o mi allontanava con una scusa.
Il mio mondo felice crollò definitivamente quando, una sera sul tardi, apparvero sulla porta dei soldati. Ricordo le urla, le discussioni, gli insulti. Ricordo come uno di loro prese mia madre strattonandola e di mio padre che si avventò su quell’uomo. L’altro soldato brandendo il fucile sparò un colpo. Io non urlai. Credevo che si trattasse solo di un brutto sogno, ma quando un soldato mi prese di peso incominciai a dibattermi come una furia.
Capì che non si trattava di un sogno, ma della realtà e con quella realtà fui costretta a viverci per mesi.
L’ultima immagine che ho della mia casa, è di mio padre a terra con gli occhi aperti e la camicia bianca sporca di sangue.
Fummo caricati su un treno. Con noi c’erano altre persone e tutte erano ebree. Nessuno osava parlare, mentre viaggiavamo verso una meta sconosciuta con il gelo che si insediava delle ossa.
Non so con precisione quanto tempo trascorse. Non sapevo dove quelle persone ci stessero portando. Non sapevo cosa ci sarebbe successo.
Allora avevo quindici anni e la paura di aver fatto qualcosa di sbagliato, che infrangesse la legge, si insinuò trai miei pensieri.
Eravamo cattivi? Quelle persone ci avevano preso perché avevamo fatto qualcosa di sbagliato?
Anche se facevo queste domande, nessuno mi rispondeva. Molte persone mi guardavano e subito dopo, scuotendo la testa, abbassavano lo sguardo e si passavano una mano sul viso, segnato dalla stanchezza e dalla paura.
Quello che seguì fu indescrivibile.
Nel momento in cui varcammo i cancelli della desolazione, perdemmo ogni nostro diritto, non di ebrei, non di cittadini, ma di uomini.
Quello di cui ci privarono era il nostro sentirci esseri umani.
Non eravamo più bambini, donne o uomini. Eravamo solo tanti oggetti da collezione.
Ricordo la paura, la fame, i maltrattamenti, le punizioni, le atrocità che fummo costretti a sopportare.
Ricordo quel giorno di sole, quando mi marchiarono a fuoco con quel numero adesso sbiadito. Quel calore bruciante mi impresse nella mente quelle mani fredde e viscide, quei due occhi di ghiaccio e quello sguardo spietato dai lineamenti duri e severi.
In quei momenti mi continuavo a domandare cosa mai io avessi fatto. Cosa tutti noi avessimo fatto per meritarci tutto quello.
Quel giorno di sole avevo dato voce alle mie troppe domande con un tono lieve, quasi un sussurro. Non ricevetti risposta. Ormai ero abituata.
Quando l’uomo alto con gli occhi di ghiaccio si voltò per uscire senza degnarmi di uno sguardo, come se fossi troppo insulsa e sporca per ricevere un saluto, urlai.
La mia voce squillante e tremante di paura mischiata a una giovane rabbia, riecheggiò in quelle pareti sporche.
Tremavo, non so dirvi se per la rabbia o dalla pausa, ma il mio corpo era cosparso da brividi che successivamente si trasformarono in spasmi brucianti  e lacrime di terrore.
Mi ricordo come l’uomo dagli occhi di ghiaccio si voltò e con una luce selvaggia illuminarli quegli occhi, colpirmi con la sua mano.
Caddi a terra.
Sentì il rumore della porta sbattere sovrastato dal ronzio nella mia testa dovuto a quello schiaffo. La mia guancia in fiamme.
 
Con una mano asciugo una lacrima che scappa al mio controllo.
Tiro giù la manica e faccio un respiro profondo.
Sono qui.
Tutti quei ricordi che in me scorrono nel fiume calmo e lento dei miei pensieri vivono per non farmi dimenticare. Io non voglio dimenticare.
Sono una sopravvissuta. Una di quelle persone che ha vissuto con la Morte ogni giorno in quel periodo nero chiamato Shoah.
Faccio un altro respiro e prendo coraggio prima di fare la mia comparsa sul palcoscenico e incominciare a sfiorare quei tasti bianchi e neri.
Questa sera suonerò per te, papà. In memoria di te.
 





Note Autrice

Oggi, 27 gennagio, come ogni anno ricorre la Giornata della Memoria.
Ho scritto "Silenzio" in occasione di questa ricorrenza.
All'inizio credevo potesse essere complicato, ma i pensieri della bambina, narratori diretti della storia, si sono formati con facilità.
Non sono scesa nel dettaglio e non ho approfondito le sensazioni della protagonista, perché noi possiamo solo immaginare cosa queste persona hanno vissuto e provato.
Ho cercato di esprimerli si, ma senza esagerare.
Spero solo che l'abbiate apprezzata,

Lilydh

 


  
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