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Autore: roro    29/01/2012    3 recensioni
Celia si volta verso l’arena, e all’improvviso una piccola luce bianca si accende. Poi un’altra, rossa, e a seguire una verde e una gialla. Le fiammelle cominciano a vorticare in tondo, permettendo finalmente al pubblico di distinguere una figura.
È l’illusionista.
«Gentile pubblico, buonasera.» Accenna un inchino. «Il mio nome è Prospero l’Incantatore, e sono qui per deliziarvi con la sottile arte della magia.»
Genere: Generale, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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hopeless 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

«Hai capito bene?»

La bambina annuisce; è un movimento meccanico, il suo, come se neppure avesse ascoltato il discorso dell’illusionista. Semplicemente alza e abbassa il capo, stanca, e si stringe un po’ più forte nel suo cappottino.

«Starai bene. È un bel posto, quello, pieno di persone simpatiche. Non partirai subito, ovviamente – ho bisogno di addestrarti, perché tu sia pronta.»

Celia sospira. Vorrebbe domandargli: «Non si può fare altrimenti, padre?», e poi farsi abbracciare stretta. Vorrebbe ascoltare la voce melodiosa di sua madre, osservarla rassettare. Alzarsi sorridendo e aiutarla, persino.

Però la mamma non c’è più e il mago rifiuta di farsi chiamare papà – quando gliel’ha chiesto le ha risposto: «Mi sentirei vecchio.» E poi, sorseggiando un tè: «Ho altro da fare, non posso badare a te.»

Non è certo il tipo di genitore a cui Celia si aspettava di essere affidata, né il tipo di uomo che si può facilmente amare. Sembra freddo, inacidito, eppure in apparenza simpatico e cordiale.

«Mi hai sentito?»

«Sì» risponde. Non è vero e il padre lo sa, ma nessuno dei due sembra intenzionato a svelare questa piccola bugia. «Posso andare a letto? Ho sonno.»

E senza aspettare risposta si alza dalla sua sediolina e corre fuori dalla stanza, diretta a quel bugigattolo che le hanno affibbiato come camera da letto – sono due notti che non dorme e probabilmente anche questa la passerà a fissare il soffitto, ma piuttosto che ascoltare gli insensati sproloqui dell’illusionista Celia preferisce star da sola nella penombra.

 

 

La porta si apre di scatto, lasciando filtrare un debole raggio di luce lunare.

Celia spalanca gli occhioni scuri, confusa, e si porta a sedere – il chiacchiericcio che le giunge alle orecchie è confuso e fastidioso, eppure quasi confortante.

Piano e con attenzione si trascina fino all’uscio. «Chi c’è?» chiede.

Le risponde una voce infantile: «Allora ci sei davvero! Credevo m’avessero preso in giro, ‘sti qua!»

Non può avere più di undici, dodici anni. Ha i capelli nocciola – la luce della luna li rende quasi argentati – e lo sguardo vispo e attento, oltre che un sorriso luminoso.

Sotto lo sguardo attonito di Celia il ragazzino apre la porta e ciondola nella stanza, tranquillo. «Ci dormivo io, qua. Però non fare quella faccia» la ammonisce, alzando un dito, «mi fa più piacere che ci stia tu. Io dormo col trapezista, è divertente.»

«Lavori qui?» non può fare a meno di chiedere Celia.

Il ragazzo un po’ nicchia, poi annuisce. «Ho mollato la scuola pe’ sta qua. Mi piace il posto».

E deve piacergli anche qua, pensa Celia con un sorriso – il suo primo sorriso da giorni –, visto che non fa altro che ripeterlo. ‘Sti qua, qua, pe’ sta qua

«Io sono Celia.» Allunga la mano verso di lui, attendendo che la stringa. «Sono la figlia di…» A quel punto si morde il labbro inferiore, perché non sa come spiegarlo e neppure vuole.

I riccioli scuri le ricadono sul viso, enfatizzando il pallore delle sue guance di bambina, e il modo in cui struscia i piedi sul pavimento la rende solo più infantile.

Un po’ la cosa le secca; anche se chiaramente piccolo, il ragazzino che le sta ritto davanti ha un che di adulto. E sembra anche gentile, a differenza dell’illusionista e degli altri artisti che le sono stati presentati.

«Oh, lo so, non ci sta bisogno che ti spieghi.»

«Ci sta?» ripete Celia.

«Ci sta» conferma lui, sorridendo un po’ di più. «Mi chiamano tutti Scricciolo, quindi fallo anche tu – il mio vero nome manco lo ricordo.»

Celia vorrebbe chiedergli se è qui da molto tempo, se conosce bene suo padre. Se è in grado di aiutarla ad ambientarsi e se può suggerirle un modo per distrarsi.

Non che voglia davvero sentirsi parte di quel circo, in verità; suo padre ha intenzione di mandarla via, forse farla scritturare da qualche altra compagnia. Magari dovrà fare la maga.

«Sembro una strega?»

Scricciolo la guarda confuso. «Perché?»

«Perché papà…» Le si blocca la voce in gola. «Perché dice che ho dei poteri. Ho rotto un bicchiere senza toccarlo, sai?» esclama, gonfiando il petto. «Ero arrabbiata e l’ho rotto.»

«Se eri incazzata ben gli sta» conferma Scricciolo. «Sarebbe bello essere una maga, no? Se lo foss’io potrei fare altro, mica spalar la cacca degli elefanti!»

Celia tira su col naso. Vorrebbe essere felice anche lei della cosa – invece è indispettita e frustrata. In tutta la sua vita di bambina non aveva mai provato qualcosa di simile.

«Non ho una famiglia. A cosa mi servirebbe la magia?»

«A credere» risponde con semplicità Scricciolo, scrollando le spalle ossute.

«A credere?»

«Se puoi rompere i bicchieri senza toccarli dev’esserci qualcuno, lassù. E se c’è qualcuno» le sorride, «allora non sei sola. Mai.»

 

 

Il giorno successivo Celia lo passa osservando suo padre lavorare.

Scricciolo se n’è tornato in camera solo all’alba, così che le è stato possibile dormire due ore o poco più; però è felice, perché qualcuno le ha rivolto la parola e non è sembrato indisposto dalle sue brevi risposte.

«Vuoi provare anche tu?» chiede il mago, indicandole dei fazzolettini colorati e un paio di colombe chiuse in gabbia.

Celia non sa in cosa consista quell’incantesimo né se ci sia un qualche trucco dietro, però scuote la testolina riccioluta e ricomincia a osservare ostinatamente le punte dei suoi stivaletti.

«Sei poco collaborativa, Miranda. L’addestramento cambierà questa tua indole, ne sono certo.» E sorridendo tra sé l’illusionista ricomincia ad agitare i fazzoletti – qualche attimo di pausa e poi una colomba spunta tra le sue dita, presto seguita da un’altra e un’altra ancora.

Sono così belli, quei volatili, che prima di rendersene conto Celia si è avvicinata alla gabbia; un uccello le si accosta esitante, e quando la bambina infila un dito tra le sbarre per carezzarlo quasi la becca.

«Fa’ attenzione, Miranda.»

Celia ingobbisce la schiena e finge di non averlo sentito.

«Miranda?»

Serra le labbra, indisposta.

«Giulietta? Ofelia?» insiste il padre. «Con che razza di nome devo chiamarti, bambina?» Ha la voce melliflua, ma i suoi occhi sono una dichiarazione di guerra. «Celia

Trattenendo il fiato, la piccola si volta.

«Così va meglio. Vieni qui» la chiama.

Le gambe le tremano un po’, però si sforza di procedere – stringendo i piccoli pugni muove un paio di passi, quindi alza il viso e punta i suoi profondi occhi scuri in quelli del padre. Si somigliano così tanto! Hanno la stessa drammatica profondità della notte, la stessa carica emotiva.

Celia tira su col naso e si avvicina ancora.

«Prendi questo.» L’illusionista le ficca un fazzolettino rosa in mano e sorride. «Ora pensa a un animale, Celia.»

«Uno qualsiasi?» chiede con un filo di voce.

«Sì. Chiudi la mano – lascia pendere solo un pezzo di quello straccio, bambina, il resto deve stare nel pugno! – e pensa.»

Celia rivolge un ultimo sguardo al padre, poi socchiude gli occhi e immagina; è in una foresta. Ci sono lupi, leoni e ghepardi, ma lei cammina e loro a stento la osservano. Ogni tanto qualcuno emette qualche verso sconnesso, ma si tratta di mugugni più o meno udibili e per nulla aggressivi.

All’improvviso una violenta luce le colpisce il viso, e Celia fa appena in tempo a osservare un coniglietto bianco che qualcosa – morbido – le preme contro le dita.

Quando riapre gli occhi l’illusionista le sta sorridendo. «Sei dotata.»

«Il coniglio c’è davvero.»

La sua affermazione dev’essere suonata davvero stupida alle orecchie del padre, perché l’uomo ride – è una risata poco credibile e per nulla di cuore, ma a Celia si scalda ugualmente qualcosa nel petto.

Sistema meglio il roditore tra le braccia, attenta a non ferirlo, e con la manca – le tremano le dita – gli carezza un po’ il dorso, deliziata dalla morbidezza del pelo dell’animale. È molto grazioso.

«Come…» inizia.

«Vuoi sapere come l’hai evocato?»

Celia non è sicura di cosa significhi evocato, ma il senso della frase è abbastanza chiaro. Annuisce piano. «Come ho fatto?»

«La magia, bambina, non ha spiegazioni razionali. È potere

«Potere?»

«Già. Farai meglio a ricordarlo, se vuoi sopravvivere in questo mondo.»

 

 

«Quindi le Cirque des Rêves apre solo di notte.» Celia sbatte gli occhioni scuri, fissando perplessa Scricciolo. «Ed è per questo che puoi venire a salutarmi? Perché tutti lavorano e tu sei libero?»

Il ragazzino ride e si lascia cadere sul letto; ha portato con sé tanti dolci e svariate mele caramellate, così che ora ha la bocca tutta impasticciata e le dita lorde. «Lavoro di giorno, qua, mentre gli altri di notte. Solo il trapezista rientra prima – il suo è il primo numero –, ed è per questo che dormo con lui.»

«E non sei stanco?»

«No. Ci sto da tanti di quegli anni, qua, che c’ho fatto il callo.» Le sorride e ricomincia a scartare caramelle.

Celia ha preferito non toccarne nessuna, un po’ perché ha già cenato da un pezzo e un po’ perché le si è chiuso lo stomaco. «Anche l’illusionista» deglutisce, «lavora di notte?»

«Tuo papà è molto bravo, tanta gente viene qua solo per vedere lui.»

Un moto di orgoglio smuove il corpicino di Celia – per quanto la cosa la infastidisca e le sembri inopportuna vorrebbe quasi sgattaiolare fuori dalla stanza per andare a sbirciare. Non per suo padre – o forse sì? –, quanto piuttosto per… per qualcosa che neppure comprende.

Osserva Scricciolo ficcarsi un’altra manata di caramelle in bocca e poi si alza, sistemandosi nervosamente la camicia da notte. «Si può guardare?» chiede.

«Lo spettacolo? Sì, si può.»

«Dobbiamo pagare l’ingresso?»

Celia ha solo qualche spicciolo regalatole da sua mamma; si tratta di poche monetine, e non è per nulla sicura che siano sufficienti per un biglietto. Inoltre il circo dev’essere aperto già da qualche ora, perché ascoltando attentamente riesce a sentire il parlottare sommesso della gente e le urla di approvazione.

Di quando in quando le arriva alle orecchie anche la voce tonante del direttore, e quella divertita dei pagliacci.

«Noi facciamo parte di ‘sto posto, Celia. Possiamo fare quel che vogliamo» ride Scricciolo. Poi si alza e raggiunge con qualche falcata la porticina. «Il mago comincerà tra poco, mi sa. Se vuoi vederlo devi correre.»

E Celia lo fa. Indossa le ciabattine – troppo grandi per lei e decisamente scomode – e segue Scricciolo fuori.

«Sei sicura? Perché il Circo dei Sogni può ipnotizzare, se non si è preparati.»

Celia ripensa al bicchiere che ha rotto e al coniglio che le è comparso tra le mani; a suo padre, al modo in cui le ha detto che i suoi poteri sono interessanti. Osserva il tendone scuro che le sta davanti, quindi prende un profondo respiro e annuisce.

 

 

Quando entrano decine di cavalli stanno correndo per l’arena. C’è una sola donna in mezzo a loro: è alta, con lunghi capelli biondi e un vestito bianco addosso.

«Quella signora, Margaret, è un’acrobata» spiega Scricciolo, sorridendo. «Ha quasi finito il numero – prima saltava sui cavalli e si agitava tutta, ora li sta mettendo in fila per uscire.»

Margaret non lascia passare un secondo di più: a un suo schioccare di frusta gli animali si dirigono a passo svelto verso l’uscita, sbattendo con forza gli zoccoli contro la sabbia.

Celia trattiene il fiato per l’emozione – sono così belli! «Il loro numero è finito?» domanda con un pizzico di delusione.

«Sì. Però ora tocca all’illusionista.»

Le luci si spengono. D’un tratto, senza che il direttore abbia dato un qualche avviso, e dal pubblico si alza un brusio perplesso – anche Celia non può fare a meno di trattenere il fiato e stringere piano la mano di Scricciolo.

«È normale?»

«Quanto può esserlo la magia.»

Celia si volta verso l’arena, e all’improvviso una piccola luce bianca si accende. Poi un’altra, rossa, e a seguire una verde e una gialla. Le fiammelle cominciano a vorticare in tondo, permettendo finalmente al pubblico di distinguere una figura.

È l’illusionista.

«Gentile pubblico, buonasera.» Accenna un inchino. «Il mio nome è Prospero l’Incantatore, e sono qui per deliziarvi con la sottile arte della magia.»

Qualcuno nel pubblico esclama: «Buffone», tante altre voci commentano qualcosa in tono ammirato.

«Immagino che vi si stia stancando la vista, con sì poca luce. Quindi…»

C’è un bagliore immenso; a Celia ricorda la sensazione di fastidio che dà osservare il sole a occhi nudi. Pian piano, però, la luce scema, e il circo torna normale – niente più fuochi fatui a ruotare intorno all’illusionista, solo colombe colorate.

Il mago alza una mano guantata e un uccello gli si posa sulle dita. «Si dia inizio allo spettacolo!»

 

 

«Tuo papà è davvero eccezionale.»

«Sì» sbuffa Celia, trascinandosi con fare stanco sul suo lettino. La cosa la secca, ma lo spettacolo del mago si è davvero rivelato meraviglioso – dalle luci alla voce di suo padre, tutto era stupendo. Non c’erano particolari fuori posto o trucchi mal riusciti.

Ai suoi occhi di bambina, lo spettacolo di Prospero l’Incantatore sembra quanto di più bello al mondo.

«Ho sonno. Tu no, Scricciolo?»

«Io ci sono abituato.»

«Fortunato.»

L’imbarazzo cade tra loro prima che possano accorgersene: finiscono col fissarsi inebetiti, aspettando che sia l’altro a spezzare quella magia. Scricciolo giocherella imbarazzato con un lembo della coperta, Celia si sfrega gli occhi assonnati.

«Solitamente che lavori svolgi, di giorno?»

«Lavo i cavalli e cose così. Niente di divertente» spiega il ragazzo. Poi tossicchia per schiarirsi la voce: «Il mago ti ha insegnato qualcosa?» chiede. «Sei stata con lui tutto il giorno!» Si sporge verso Celia, una luce eccitata negli occhi. «Cos’hai imparato?»

«Niente. Però ho» cerca la parola esatta, «evocato un coniglio. È stato divertente.»

Scricciolo squittisce un euforico: «Voglio vedere!», prima di afferrarle una mano e strattonarla.

«Ma è quasi giorno! Tra un po’ saranno tornati tutti nelle loro tende!»

«Non ci giurerei. Ci stanno almeno due bis, dopo lo spettacolo – solitamente si esibisce di nuovo tuo papà, a volte i clown o l’addestratore dei leoni. Ora come ora staranno ancora ringraziando il pubblico.»

«Non so se posso riuscirci…» esita.

Scricciolo è molto convincente, però, e Celia troppo stanca per controbattere; ci vogliono pochissimi minuti perché la bambina, un fazzoletto tra le dita e le labbra corrucciate per lo sforzo, prenda posto al centro del letto e chiuda gli occhi.

La scena che le si presenta davanti è più o meno la stessa della mattina; animali di ogni sorta le gironzolano intorno senza apparente interesse, e prima che il ben noto lampo di luce le ferisca gli occhi scorge la sagoma di un pulcino.

«Ce l’ho fatta» sussurra, fissando inebetita la palla gialla tra le sue dita.

Scricciolo si avvicina per osservare l’animale. «Celia?» la chiama.

«Sì?»

«Secondo me diventerai una grande maga.»

 

 

È stata Margaret a occuparsi dei bagagli.

Fluttuando per lo stanzino con la grazia di una fata ha recuperato i pochi vestiti di Celia e i suoi stivaletti rossi, quindi ha piegato il piegabile – «È così che si fa, bambina; io ci sono abituata perché il circo è itinerante.» – e sistemato tutto in delle rozze valigie nere.

Le stesse rozze valigie che ora sono sistemate accanto a una carrozza e attendono di essere caricate.

Celia alza lo sguardo verso suo padre: benché si sia ripromessa di non piangere la cosa le risulta un po’ difficile, perché Scricciolo le mancherà tanto e anche la vita a le Cirque des Rêves non era male. Ha visto delle belle cose, ascoltato musiche meravigliose e carezzato il muso di un cavallo. Ha conosciuto il suo papà.

Si passa una manica del cappottino sugli occhi, combattendo per ricacciare le lacrime.

«Andrà bene» le comunica l’illusionista senza particolari emozioni. «Hai dei discreti poteri, Miranda: suppongo ci impiegherai pochi anni a imparare a controllarli. E a quel punto tornerai qui, bambina – il circo ti attende, e io con lui.»

Miranda. Non fa che chiamarla così da quando è arrivata.

Vorrebbe chiedergli il perché – o spiegargli che si chiama Celia, che è il nome scelto da sua madre e lo ama, che non alzerà il capo finché non la chiamerà per bene –, ma si limita a sospirare pesantemente.

«La bambina è pronta?» chiede il cocchiere della carrozza, scendendo per caricare i bagagli.

Il mago annuisce, benevolo, e scompiglia piano i riccioli della bambina – ha le dita fredde, così che Celia non può evitare di trasalire.

«Farò del mio meglio per compiacerti» sussurra con voce stanca. Gli occhi scuri si posano un’ultima volta sulla figura del padre, poi posa un piede – e subito l’altro, per paura di cambiare idea – sul gradino della carrozza. «Arrivederci, papà.»

La porta si chiude dietro le sue spalle.

 

   
 
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