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Autore: Yoko Hogawa    30/01/2012    9 recensioni
Ogni – e ribadisco: ogni – persona con un briciolo di sanità mentale sarebbe come minimo svenuta, mentre come massimo si sarebbe messa ad urlare istericamente svegliando non solo il coinquilino scellerato e l’amabile padrona di casa che “non sono la vostra governante”, ma anche i dirimpettai, il vicinato e tutta la maledetta Baker Street.
Ma non John Watson. John Watson era un medico, era un soldato, era tornato (quasi) integro dalla guerra e, soprattutto, viveva con Sherlock Holmes (ricordate lo “scellerato coinquilino” di qualche riga fa?).
[Più che altro bromance, ma se cercate bene...]
Genere: Commedia, Fluff, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Desclaimer: Sherlock e John sono pargoli di Sir Doyle e nipoti di Moffat e Gatiss. Al primo il ringraziamento per averli inventati, ai secondi di averli mescolati a tanto slash sottointeso. Ah, ovviamente scrivo gratis, tanto per ...*ironic mode: on*.

Note: avevo bisogno di fluff. Sul serio. Sto scrivendo la mia personale interpretazione cerebrale/psicotica/angst alla 2x03, ma dopo averla dovuta cancellare per la seconda volta mi sono persa d’animo... e allora ben venga una piccola pausa fatta di puro fluff, che male non fa.

Questa fanfic, lo ammetto, è un inno all’insonnia, e io ne so qualcosa (tragicamente). Amo John, dunque per questa volta l’insonne sarà lui ;D giusto perché ci piace farlo soffrire (?!). È anche il mio personale tributo al tè perché sì, mettetemi davanti il Pure White della Twinings, o l’Earl Grey con zucchero e un po’ di limone, e sarò vostra perdutamente (l’istinto mi urla che non dovevo dirlo, ma tant’è...).

Direi che è... beh, bromance, per lo più. Ma chi vuole vederci lo slash è liberissimo, io non mi offendo (sia mai!).

Il resto delle note al testo è a fondo pagina :D

 

A chi vuole accingersi, buona lettura

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It’s a Twinings Moment

 

 

Sul ripiano accanto al fornello c’era una mano mozzata immersa nella colla di pesce.

John la osservò con un principio di riluttanza e un discreto grado di rassegnazione. Aveva addosso i pantaloni del pigiama azzurro a righe bianche verticali, una maglietta di cotone di un verde improponibile, era sudato e spettinato e se ne stava in piedi in cucina a guardare una mano mozzata dentro una terrina immersa nella colla di pesce.

Ogni – e ribadisco: ogni – persona con un briciolo di sanità mentale sarebbe come minimo svenuta, mentre come massimo si sarebbe messa ad urlare istericamente svegliando non solo il coinquilino scellerato e l’amabile padrona di casa che “non sono la vostra governante”, ma anche i dirimpettai, il vicinato e tutta la maledetta Baker Street.

Ma non John Watson. John Watson era un medico, era un soldato, era tornato (quasi) integro dalla guerra e, soprattutto, viveva con Sherlock Holmes (ricordate lo “scellerato coinquilino” di qualche riga fa?).

Per John Watson svegliarsi alle tre del mattino e trovare parti anatomiche varie in giro per l’appartamento era diventata una cosa normale, e quando ci pensava a mente fredda si diceva sempre che era qualcosa di cui avrebbe dovuto preoccuparsi, probabilmente.

Poi guardava l’orologio, si rendeva conto che erano le tre del mattino e lui era in piedi in cucina come uno zombie e lasciava perdere tutto per la sanità mentale dell’affittuaria non-governante, dei dirimpettai, del vicinato e di tutta la fottutissima Baker Street. Il coinquilino con il morbo della sperimentazione selvaggia non veniva mai interrogato veramente, dato che l’unica cosa che sapeva rispondergli era “è un esperimento, John! Sto tentando di...” fare questo con quello per scoprire se dopo la morte questo e quello di trasformano in quell’altro perché “...potrebbe tornare utile in un qualche caso”.

Dio, adesso si metteva anche a completarsi i flashback da solo.

Anche quella notte – come tutte le altre – scosse il capo con auto-rassegnazione e, semplicemente, spostò terrina e relativo arto mozzato un poco più in là (qualche metro più in là).

Dobbiamo dire le cose come stanno: solitamente non era John quello dei due abitanti del 221B a soffrire di una potente crisi d’insonnia. Quella era cosa abituale di Sherlock, cioè dell’individuo in grado di suonare il violino in piena notte e di lasciare in cucina aspic di mani mozzate con contorno di colla di pesce. Quando succedeva all’altro coinquilino – il più normale dei due, diciamo – era sempre per un motivo ben preciso.

Aveva sognato l’Afghanistan, semplicemente. Non era la prima e né sarebbe stata l’ultima volta e anche se ormai succedeva raramente che si svegliasse di botto, sudato e intrappolato in un groviglio di lenzuola, dal momento in cui apriva gli occhi e fissava il buio della sua stanza si rendeva immediatamente conto che non avrebbe più preso sonno.

Era uno di quei momenti che necessitava di un tè, il panno, la poltrona, e qualche occupazione alternativa per arrivare al mattino. Ma soprattutto di un tè.

Mani mozzate e colla di pesce permettendo.

Estrasse il bollitore dalla credenza, riempiendolo velocemente d’acqua e mettendolo sul fornello già acceso. Aprì poi l’anta della credenza adiacente alla prima, carezzando con gli occhi le varie scatole di tè allineate in modo disordinato sulla mensola.

Aveva voglia dell’English Breakfast e del suo sapore forte, ma non era il caso di caricarsi di teina con il livello d’ansia che si trovava ancora addosso. Stesso discorso valeva per Prince of Wales nonostante fosse più delicato, come sapore. Sfiorò l’idea di un Pure White con due gocce di limone, e quell’idea gli ammiccò a sua volta, ma poi decise di andare sul classico e prese con due dita una bustina dalla scatola dell’Earl Grey.

Mentre aspettava che l’acqua arrivasse ad ebollizione diede un’occhiata al resto della cucina, non stupendosi affatto di vederla occupata da qualsiasi tipo di utensile che con la stanza non ci azzeccava un emerito niente. Sembrava più il laboratorio del Piccolo Chimico, dell’Allegro Chirurgo e del Novello Patologo tutti assieme e per fare un profondo piacere ai suoi già provati neuroni glissò di nuovo sulla necessità di rendere quella cucina un po’ più simile a quello che doveva essere – una cucina, per l’appunto – e un po’ meno somigliante al laboratorio di Frankenstein.

Con un sospiro versò l’acqua calda nella tazza, coprendola con un piattino e appoggiandola su di un vassoio a caso insieme al limone e allo zucchero. Prese tutto in mano, spense con il gomito la luce in cucina e si diresse in salotto, dove solo l’alone soffuso della lampada illuminava il percorso verso la poltrona.

Appoggiò il vassoio sul tavolino di fianco ad essa e mentre aspettava i canonici cinque minuti, necessari al tè per andare in infusione, ciabattò silenziosamente verso la libreria e si mise a vagliare i frontespizi.

Lesse qualche titolo e, per la prima volta da quando passava le sue nottate insonni al 221B di Baker Street, si rese conto che quelli erano tutti libri di Sherlock. Si accorse come un fulmine a ciel sereno che lui non aveva portato libri, in quell’appartamento – i suoi erano ancora chiusi in uno scatolone nella soffitta muffita della vecchia catapecchia dei suoi genitori, oppure nella cantina del Barts insieme a tutti i manuali dalle pagine scarabocchiate che la biblioteca metteva a disposizione quando lui era ancora giovane e stringeva il mondo fra le dita della mano sinistra, perché la destra gli serviva per scrivere dunque era impegnata.

Realizzò che tutto quello che aveva portato con sé stava comodamente in una valigia, ed era tutto al piano di sopra, nella sua stanza. Per il resto, quell’appartamento era pieno della roba di Sherlock; lui stava immerso nella roba di Sherlock, e se si metteva a filosoficare un po’ pensando, ad esempio, che le cose di Sherlock potessero essere un’estensione di Sherlock stesso, ciò voleva dire che lui era praticamente circondato dalle braccia di Sherlock, dalle membra di Sherlock, dal tutto di Sherlock.

Si sentiva tanto come la mano mozzata nella colla di pesce.

Sospirò pesantemente afferrando un libro a caso senza nemmeno guardare quale fosse, per poi andare a sedersi nella sua poltrona. Quella almeno era già compresa con il mobilio dell’appartamento, dunque poteva dire che era diventata “sua” tra virgolette. “Sua” finché pagava metà dell’affitto, per lo meno.

Si avvolse con il panno, mettendoselo sulle spalle, per poi condire il tè e berne il primo sorso. L’aroma rilassante dell’Earl Grey si diffuse come miele giù per la gola e dentro lo stomaco e solo in quel momento si rese conto di essere ancora teso dall’incubo appena vissuto, dato che i suoi muscoli si distesero piacevolmente. Aprì distrattamente il libro ad una pagina a caso, rendendosi conto solo dopo qualche parola che era una sorta di manuale di grafologia e analisi della scrittura. Chissà perché non si aspettava un romanzo.

Avrebbe volentieri acceso la televisione, ma considerando che per una volta il suo coinquilino non era steso sul divano a far lavorare l’instancabile cervello che si trovava, non suonava Bach o Paganini, non percorreva chilometri avanti e indietro per il salotto e, soprattutto, dormiva, era fermamente convinto che fosse meglio non svegliarlo.

Ovviamente, tutte le sue considerazioni si risolsero come sempre in un mucchio di buoni propositi schiacciati con violenza contro un muro. La porta della camera di Sherlock si aprì con un click sommesso e, subito dopo, la zazzera piena di ricci color inchiostro si affacciò alla porta, osservandolo.

John evitò di incatenare per troppo tempo il suo sguardo a quegli occhi dall’incredibile color azzurro e si limitò a sospirare appena sul filo della tazza che teneva appoggiata alle labbra. « Ho fatto troppo rumore? » domandò allora, prendendo un sorso del tè e sfogliando casualmente il libro. Per una volta nella vita aveva abbandonato la sua compostezza inglese e si era seduto a gambe incrociate, il libro poggiato nel loro punto d’unione, in equilibrio perfetto.

« Oh, no » rispose Sherlock, pantaloni del pigiama azzurri – lo faceva apposta a mettersi il pigiama dello stesso colore del suo? – e maglietta a mezze maniche bianca, semplice. « Per la media sei stato anche fin troppo silenzioso, dovrei congratularmi » aggiunse, incrociando le braccia ed appoggiandosi con la spalla allo stipite della porta.

John, dal canto suo, sospirò. « Era un modo velato di chiederti scusa per averti svegliato, Sherlock ».

« Non sei stato tu a svegliarmi, John » gli rispose però l’altro, aggiungendo poi: « in teoria non stavo nemmeno dormendo, dunque il verbo “svegliare” non sarebbe del tutto esatto. Si potrebbe dire che hai attirato la mia attenzione, oppure... »

« Sì, Sherlock, ho capito il concetto » lo interruppe Watson, guardandolo da sopra la spalla: « allora scusami per qualsiasi cosa io abbia fatto per spingerti ad uscire da camera tua » disse, stizzito, probabilmente parlando troppo.

Nella sua ormai comprovata abilità di trattare e sopportare Sherlock Holmes, purtroppo aveva momenti in cui nemmeno la pazienza e la capacità di adattamento riuscivano a reggere uno dei discorsi eterni che si sviluppavano quando Holmes si lanciava in uno dei suoi pensieri frenetici. C’erano attimi in cui nemmeno l’oceano calmo e paziente contenuto nella calotta cranica del dottor Watson riusciva ad adattarsi alle sinapsi criptiche e fulminee del genio, e uno di quelli era quando si svegliava sudato nel suo letto, con la sensazione di avere ancora un coltello da campo infilato fra detonatore e parte esplosiva di una mina nel mezzo della sabbia.

Quando la mano sinistra aveva lievi tremori quasi invisibili, quando la gamba pulsava di un dolore che in realtà non c’era e quanto il buco nella spalla non pulsava di un dolore che sarebbe stato l’unico ad essere effettivamente giustificabile.

E forse Sherlock lo sapeva, lo notava, lo aveva dedotto. Per questo, nonostante avesse la voglia seria di rispondergli a tono – non vedeva sul serio l’ora, glielo si poteva leggere dagli occhi – rimase in silenzio.

Sherlock Holmes che si trattiene. Ora sarebbe potuto morire felice.

Il medico si risolse a sospirare, calmando se stesso ed il suo tormento interiore. « Scusami – disse poi – è solo che... »

Questa volta fu il turno di Sherlock di interromperlo. « Lo so » replicò, semplicemente.

« Devo solo... » riprese John.

« Lo so » gli rispose nuovamente Holmes.

Watson, chiudendo definitivamente il libro, sospirò. « Scusami... » ripeté.

« Ti stai scusando un po’ troppo » gli rispose Sherlock, staccandosi finalmente dallo stipite della porta e camminando in sua direzione.

Era scalzo, notò John, e il rumore dei passi rimbombò cupamente sul parquet e poi sul tappeto. Gli si affiancò, sedendosi sul bracciolo della poltrona, per poi inclinarsi all’indietro fino ad infilarsi con il corpo fra la sua schiena e lo schienale della poltrona.

Ed il verbo “infilarsi” non rendeva esattamente l’idea. Si stava propriamente accaparrando lo spazio sulla poltrona, spingendo Watson sempre più verso il bordo, fino a farlo cadere giù completamente per occupare il posto prima usufruito da John praticamente steso al contrario, con la testa su un bracciolo e la piega delle ginocchia sull’altro.

Era vendetta, e questo il medico lo sapeva. Lo aveva interrotto in uno dei suoi ragionamenti, gli aveva spento le luci del palcoscenico, dunque adesso si vendicava di quel gesto.

Non ribatté solo perché la sua unica priorità fu quella di non versare il tè sul tappeto. « Sherlock...! » si lasciò però sfuggire quando, incapace di puntellarsi sulle gambe ed alzarsi, arrivo con il sedere per terra e quindi ad essere seduto ai piedi della poltrona ora completamente invasa da Sherlock Holmes, i suoi capelli neri, la sua intelligenza spropositata ed i suoi occhi azzurri.

Occhi che lo stavano guardando da una posizione fin troppo rilassata, sorridendogli appena. « Earl Grey » disse – affermò – allora il proprietario di quegli occhi, quasi accoccolandosi meglio sulla poltrona in questione e girandosi appena su di un fianco, per poterlo guardare meglio.

John ricambiò lo sguardo con uno duro e severo, ma fu incapace di mantenerlo per più di quei due secondi di rimostranza effettiva. Si limitò a sospirare, annuendo con il capo e passandogli la tazza. « Attenzione a non versarlo » sussurrò solamente, mettendosi più comodo a sua volta: si girò sul fianco destro per osservare meglio Sherlock e appoggiò la spalla alla poltrona, potendo così adagiare la testa per metà sul proprio braccio ripiegato e per metà sul fianco del detective.

Dal canto suo, Sherlock lo lasciò fare e spense un sorrisetto soddisfatto sul bordo della tazza, assaggiando il tè. Chiuse gli occhi mentre lo faceva, prendendo un sorso – anche se bere da sdraiati non era effettivamente raccomandabile... – per poi annuire lievemente. « Riesci sempre a metterci la giusta quantità di limone » disse, passando di nuovo la tazza al dottore, che bevve a sua volta. « Di solito tu metti più zucchero » fu la sua considerazione.

« Accetta il complimento e basta, John. Mi sto sforzando » ironizzò Sherlock, riuscendo a strappargli un sorriso.

« Allora, grande detective, se ti annoi così tanto perché non accetti il caso che Mycroft tenta di sottoporti da quasi tre giorni? » cominciò John, posando la tazza ai piedi della poltrona e osservando l’espressione dell’altro cambiare, trasformarsi, assumere sfumature particolari che solo una sincerità spiazzante come quella di Sherlock Holmes sapeva attribuire al suo volto, ai suoi occhi. Quello si lanciò in una crociata verbale contro il fratello maggiore, elencando motivi su motivi per cui l’altro avrebbe potuto anche fare a meno di chiamarlo per “cretinate simili” – citato testualmente – e su come la nuova dieta povera di sodio sembrava averne aumentato la perseveranza che diveniva sempre fastidiosa insistenza.

Il medico sorrideva, ascoltando.

Ormai non si svegliava più tanto spesso, John, nel cuore della notte. I brutti sogni tornavano solo ogni tanto, quando non era abbastanza stanco per dormire senza sognare o non abbastanza euforico da sognare lui e Sherlock con Londra come sfondo.

C’era una cosa, però, che non avrebbe mai ammesso ad alta voce. Quando succedeva, e si alzava dal letto con la sensazione sgradevole di essere un povero derelitto rimesso insieme con del nastro adesivo e tanta speranza, era grato di aprire gli occhi e rendersi conto di essere al 221B di Baker Street.

Era grato di trovare resti umani in rigor mortis in giro per casa, grato di essere circondato dalla roba di Sherlock, grato di passare nottate intere seduto sul tappeto a parlare, e a dividere con il suo migliore amico una tazza di Earl Grey con limone e poco zucchero.

No, John Watson non lo avrebbe mai detto ad alta voce... ma sapeva che Sherlock lo aveva già capito.

Sherlock capiva sempre tutto.

 

 

 

 

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Il titolo è preso da una frase tipicamente americana. La frase in questione è "it's a Kodak moment" e viene utilizzata per descrivere quei momenti che sarebbero degni di una fotografia. Sì, è un tributo alla famosa marca di rullini e macchine fotografiche. Io ho fatto più o meno la stessa cosa con la Twinings ed i suoi tè, volendo così descrivere il momento in cui, per mandare giù qualcosa di pressante, serve assolutamente un tè (XD). Pubblicità molto poco occulta BD

 

Per chi non lo sapesse, inoltre, la colla di pesce si vende in fogli e viene usata in cucina per fare la gelatina. Sì, proprio quella che ricopre quelle bellissime torte alla frutta che scaldano il cuore e cariano i denti, alle quali dedichereste volentieri un Kodak moment.

E ora scommetto che nessuno mangerà più una fetta di torta alla frutta. (Just kidding X°D)

   
 
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