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Autore: Clem    30/01/2012    9 recensioni
Polisindeto. Una marea di congiunzioni che non porta da nessuna parte. Io speravo mi congiungessero a te.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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E' un giovedì torrido, mi lascio il lavoro di traduttrice alle spalle e salgo sul solito pullman pubblico. « ho l'abbonamento. » e mi siedo. Sono vicina al finestrino e ti vedo, amore, e ti guardo, ebano. Ti guardo mentre torno a casa e ti scorro avanti come un fiume. Però colgo le tenebre che sei, le tenebre che mi restano dentro e non mi mollano più. Stai lasciando scorrere benzina in un'auto in questa minuscola stazione di servizio su un marciapiede e riconosco in te ciò che mi stravolgerà sempre, il mio uragano, e non so se è presto per definirti già così, ma hai quegli occhi grandi e scuri da perdersi, scuri come le tenebre ma vivi come il sole. Stai fermo, attento ai litri che lasci andare, a non perdere l'unico lavoro che, probabilmente, hai trovato. Però hai alzato lo sguardo e hai perso il conto della benzina, mi hai guardata e hai incontrato i miei occhi, te li sei sentiti addosso. E' un attimo ma i miei occhi restano lì a guardarti lavorare, aspettare la fine del turno, l'ora del riposo. Era trecento volte peggio prima di quello sguardo, mille volte peggio dopo quelle tenebre. Sono rimaste a torturarmi, a prendermi a morsi lo stomaco, a lasciarmi tremare, aspettare qualcosa che sapevo non sarebbe mai arrivato. Non ho voglia di studiare per l'università, di tradurre articoli, non ho voglia che di uscire e venirti a cercare, di trovare quelle tenebre, quel mondo che ci scorre dentro e scorrerci dentro anch'io. diventare tenebra, nebbia, o anche un fiore, una panchina del parco, una strada, un'auto, una pietra. Tutto pur d'entrarti in quegli occhi. Ho voglia di tornare a un'ora fa, salire sul pullman, vederti e scendere senza restare imbambolata, allungare la mano e dirti solo "Anita", quel nome austero che mi tiro dietro, severo come la bisnonna, era lei Anita, io sono più Susanna tutta panna, tutta scema, troppo alta, con le gambe di cicogna. Anita sa di vecchio, di passato, però un po' mi piace quel contrasto che fa con i miei occhi, con il mio sorriso, con le mie lentiggini, i miei capelli rossi, gonfi, forse ricci. Mi piace il contrasto di un nome da cinquantenne su me che ne ho trenta in meno. Mi piace il contrasto della tua pelle scura, da africano, dei tuoi occhi bui, con la mia pelle di latte, i miei occhi di mela. Aspetto che tu mi chiami quando non sai il mio nome, figurati il mio numero, però il cellulare canta i Queen, è chiamata, ma non sei tu, come potresti? E' Tullio, ci sono uscita sabato, disinteressata dalle sue labbra sulle mie, dalla sua mano nella mia, dai suoi soldi che mi offrivano un mojito. Non ho voglia di lui, non rispondo. Nonè l'ebano, non è te. Potrei scendere a cercarti, allungare la mano per portarti via, prenderti in ostaggio, senza sapere il tuo nome, senza che tu sappia il mio. Dirtelo dopo, quando ormai ti ho preso e non ho bisogno di un riscatto, niente soldi, solo tu, solo l'ebano. Ma è meglio che tu lo sappia in partenza.. Mi tremano le gambe, ho paura ebano, ho paura, uragano: magari mi hai guardata senza vedermi, magari mi hai dimenticata già, magari non ti sono mai entrata in testa. E non chiedermi del coraggio, perché non ne sono fornita. Devo averlo perso, forse, nella neve in montagna dei Natali della mia infanzia, o nella sabbia, nella schiuma del mare, in giro per casa, risucchiato dall'aspirapolvere. Forse me l'hanno rubato o, più semplicemente, non ne ho mai avuto. E allora sono rimasta ad aspettare il venerdì, il lunedì, martedì, ma non ci sei. Dove sei, tormento? Ti sento dentro, so che ci sei, ma non ti vedo.

Sorseggio un capuccino tra le chiacchiere insistenti di Beatrice, qualcosa su Tullio che « ti cerca continuamente, tesoro. Chiamalo prima che io diventi un'esaurita con tutte quelle sue domande. », qualcos'altro sul professore Valle, quello di letteratura, su un suo corso «assolutamente illuminante, cara. Vuoi gli appunti?». Non ti sto ascoltando, Bea, non vedi? Ti sento, sono qui, ma stamattina sono assente, sono sorda. Mi smuovi appena, Bea, mi chiedi che ho «perché qualcosa ce l'hai». Ti sorrido, ti mento, ti dico che ho il ciclo, ti dico che non ho niente. Ed è una bugia a metà perché non ho niente davvero, non ho l'ebano, non ho che poco senza perché l'ebano, Bea, è un'altra cosa. Lo inseguo e non lo trovo, lo cerco, cerco quelle mani che hanno sempre lavorato e quelle labbra che hanno sorriso poco e non ho niente a cui aggrapparmi se non quelle mani, quelle labbra, a quei sorrisi sfioriti, a quelle dita callose. «A che pensi, Anì? Non parli, dove sei finita?» Sono partita, Bea, con quei ricci neri, quei jeans piani di polvere. Mi chiedi se voglio un passaggio ma ti dico che ho pagato l'abbonamento per il pullman proprio ieri, li ho spesi quei soldi, tanto vale sfruttarli, ma lo so che è un'altra bugia, che se non vengo in auto con te è per lui, per cercarlo ancora e per non parlare di nulla, per lasciarmi la mente e la bocca vuote, non per i soldi o l'abbonamento. - Chiamami oggi. - Mi dimentico. - Ok, ti chiamo io.- Sospiri, Bea. Ti faccio incazzare sempre ma non lo dici mai. E' giovedì, devo lavorare, ma mi porto gli articoli a casa, li spedirò per mail all'assistente. Tanto mi è concesso, sono l'unica là dentro che non finge di conoscere il francese usando google traduttore.

Eccoti tormento, è una settimana che ti cerco. Ti vedo, sempre alla solita pompa di benzina. Forse lavori solo di giovedì. Scendo stavolta, alla fermata lì vicino, e vengo da te.
. - Una ricarica da 5. Wind.
- Ho solo le carte..
- Ah..- e sto zitta, e crollo con la mia scusa, il mio finto e poco duraturo coraggio.
- Allora? - Credo.. è uguale?
- Ci sono le istruzioni dietro, ma se vuoi ti aiuto.- Ti do il mio telefono, ti dico "non sono brava, pensaci tu"
- E' facile-, mi dici. e ti mangi un sorriso, lo mostro a metà. - Fatto, tieni. - Grazie. E mi fermo, vorrei dirti il mio nome, la mia mente mi urla di restare. Ho le game rigide, me ne vado come una zoppa. Due metri e mi volte, e torno da te. Mi stai guardando.
- Quando finisci di lavorare?
- Alle sei.
- Tra due ore??
- Sì, perché? -
- Voglio prendermi un caffè con te.- Mi sorridi confuso. Mi dici che hai poco da perdere, mi chiedi come faccio a fidarmi subito.
- Sei la ragazzza del pullman. Quella della settimana scorsa.- e non è una domanda. Accetti.
- Ci vediamo vicino casa mia? ma non ti porto di sopra, ebano.
Ridi - Ebano?- me ne accorgo dopo che ti ho chiamato così.
- Scusa, volevo dire.. passo a prenderti?
- Verrei io se sapessi dove abiti
. - Vicino al musa, ci vediamo lì?
Dici di esserci stato ieri sera, che sai la strada, che posso chiamarti ebano o come mi pare.
- Tu come ti chiami, mandaryns?
- Come?
- Vuol dire mandarino in africano.
Mi tocco i capelli, d'istinto, sorrido, dico Anita, dici bello, dici a dopo, ci vediamo. Scendo mezz'ora prima, per aspettarti. Ma forse abbiamo avuto la stessa idea.
Sei già qui anche tu. Mi blocco quando ti vedo, quando mi vedi, quando mi vieni incontro. Mi porti al tavolo, ebano, mi fai sedere.

- Sei già qui?  ti chiedo banale
- Tu anche hai ragione e capisco che l'avrai sempre.
Stefan, dici, Stefan Ndomba.
-Bel nome. Anche il cognome.
Ridi appena. - Sono abituato a presentarmi così, nome e cognome.
- Anita, Anita Serafin. -       ti sorrido, allungo la mano, me la baci, un galantuomo, scherzo, un galantuomo, e ridiamo.

Sento i Queen, so già che è Bea, sono tre ore che stiamo insieme qua dentro, il secondo cocktail fresco. Lo spengo, sto cazzo di cellulare, stai zitta, Bea, non mandarmi tutto a puttane, non ora.
- Perché mi hai portato qui?
Alzo gli occhi dal display del telefono, dalle sue innumereboli chiamate perse.
- Non lo so-, ti dico, ed è vero. Non lo so, so solo che ne ho sentito il bisogno.
- Non mi hai dato il tempo di cercarti.
Non ti capisco ebano. Scusa, Stefan. Me lo ricorderò, promesso.
- Volevo invitarti io. Non mi hai dato il tempo di trovarti.
- Non so neanche io come ho fatto, di solito non sono così coraggiosa. Non lo sono mai.
- Lo siamo tutti, non saremmo mai usciti dal grembo delle nostre madri, altrimenti.
Rimaniamo qui dentro un'altra ora. Dici che mi porterai domani pranziamo insieme da "Margot". Lo dici, non lo chiedi. Come faccio a dirti di no?
- Dove vai, ora?
- Da mia madre.
- Abita lontano? Vuoi un passaggio?
- Un po'. Hai la macchina?
- No, costa troppo, ci sono i taxi, o la bicicletta.
Ridi. - Anche i taxi costano, ma un passaggio in bici, io ci starei.

Sono seduta dietro, mi tengo a te, hai un buon profumo. Mi porti in una strada di palazzi. Mi fai vedere una finestra al terzo piano. La luce è accesa, tua madre dev'essere sveglia.
- Sali, vieni, te la presento.
Prendi la bici in braccio, la porti fino a sopra, fino a casa tua. Ci apre tua madre, è bellissima Stefan. Dice di chiamarsi Alaska "come quel posto freddo". Sorride più di te, mi accarezza, dice che sono la prima che porti su. Vorrei restare per sempre, vorrei non andarmene. Alaska mi dice di restare, c'è il divano letto.
E' come te, Stefan, non ci riesco a dirle di no. Mi dai un bacio  sulla fronte, mi dici "buona notte, mandaryns" ed esci. Vai al lavorare. Quanti lavori fai? Torni presto, dici, torni prima per me.
 Angolo autrice:
ho un migliaio di dubbi su questo dannato libro.. non so, sono andata troppo di fretta?
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