Quel
lunedì pioveva
forte, le strade della città si erano allagate di un denso
miscuglio di terra e
acqua che si riversava nelle piazze. Camminare era quasi impossibile,
le
carrozze nel loro passaggio affogavano nelle grandi pozze restando
incagliate
come navi fra gli scogli. Il nero cielo appesantiva l’aria
carica
d’elettricità, non un ombrello
s’incamminava per quei vicoli angusti; gli
abitanti o i visitatori se ne stavano rintanati nei propri alloggi
aspettando
la fine della tempesta e il nascere del sole. Una speranza vana. Erano
ormai
giorni che quel tempaccio imperversava su Parigi, tutta
quell’acqua stava
lavando via il sangue e il male e le lacrime che avevano insudiciato il
territorio francese. La Rivoluzione[1]
aveva comportato gravi perdite, tanti i morti per dei valori
irraggiungibili,
per vacue speranze, per finte promesse che poi si persero come fumo
nell’aria. In
lontananza nereggiava imponente un faggio, la cui chioma era smossa dal
soffiare del vento, gli uccelli e alcuni animaletti avevano trovato
riparo
presso di lui, anche per loro le difficoltà della vita gli
imponevano di star
fermi in quegli attimi angosciosi. Incurante delle sgradevoli
condizioni
climatiche si aggirava per i boulevard un giovane avvolto in un
mantello logoro
e inzuppato d’acqua. Da dietro i vetri delle abitazioni, i
cittadini lo
osservavano basiti, increduli di tanta stoltezza. Non pareva spaesato,
anzi, sapeva,
dove andare, uno straniero o forse un viaggiatore che molto spesso si
era
trovato a passeggiare per i viottoli della capitale. Svoltò
due volte a
sinistra e si diresse, in seguito, dritto verso un caffè,
uno dei pochi aperti
in quel dì di marzo. Era il Café
de
la Nouvelle
Athènes[2]dove
si riunivano tutti gli artisti dell’epoca. Il giovane
entrò spavaldo e sedette
a un tavolo in disparte, lontano dal chiacchiericcio dei pittori che
stavano
discutendo di colori, politica e quant’altro.
Sciolse il legaccio che teneva il mantello saldo sulle
spalle e ripose
quest’ultimo sulla sedia di fianco, svelando la pelle pallida
e candida. I
lineamenti tradivano la sua giovane età, poteva avere
sì e no diciotto anni,
diversamente da coloro che popolavano il caffè: erano per lo
più tutti nel
pieno della mezza età, anno più, anno meno. Lo
straniero spiccava con i suoi
ricci in mezzo a quelle teste calve o coperte da parrucche sintetiche
fin
troppo evidenti e le ragazze sedute ai divanetti lo fissavano
insistentemente; alcune,
le più audaci, gli si avvicinavano cercando di agguantarlo
con i loro modi
affabili, ma lui sembrava non notarle nemmeno; ogni tanto, poi, alzava
lo
sguardo e loro si aprivano in smaglianti sorrisi che ben presto
scemavano nella
sua indifferenza. Se ne stette per qualche ora seduto a quel tavolo,
con
sguardo attonito intento a vaneggiare in una lingua sconosciuta a molti
in
quella sala. Quelle pozze azzurre ch’erano i suoi occhi,
parevano impregnate
d’una strana malinconia, spenta, priva d’ogni moto
del cuore. In silenzio con
fare svilito riempiva di continuo il bicchiere d’un liquido
argenteo che tutto
d’un sorso versava in gola, che ardeva di lacrime e fiamme.
Profumava d’anice,
quella bevanda, aveva la fresca essenza della natura, un misto di erbe
e fiori,
che ripuliva l’aria appesantita da quel carico di alcol che
aleggiava nella
saletta. Uno; due; tre bicchieri. All’ennesimo sorso, il
ragazzo, pareva aver
perso quel poco di lucidità che gli era rimasto. Fu allora
che la tristezza,
che aveva largamente cercato di reprimere, affiorò in tutta
la sua impetuosità.
Amare lacrime cominciarono a sgorgare da quelle dighe ormai divelte, il
viso
deturpato in una smorfia di dolore lasciava trasparire la sua debolezza
in quel
mondo così distante da lui, dai suoi desideri, dai suoi
sogni. Si alzò
barcollando, con una mano scostò la sedia e con
l’altra reggeva una bottiglia
nera come la pece. Inciampando nei propri passi raggiunse a stenti il
bancone
del bar, puzzava tremendamente, aveva lo sguardo perso nel vuoto,
l’aria di uno
che ormai con la testa non ci stava più. Chi lo sa,
probabilmente non era più
conscio di ciò che gli accadeva intorno. Ogni cosa la vedeva
girare e girare
vorticosamente senza mai fermarsi, tale e quale ad una bussola
impazzita; era
inquietante ma al tempo stesso lo faceva ridere stupidamente. La guerra
lo
aveva distrutto, aveva logorato il suo animo, la sua
gioventù; il fragore dei
cannoni rimbombante nelle orecchie, le grida dei bambini strappati
dalle loro
madri, lo sbattere incessante degli zoccoli dei cavalli, in quel
momento li
aveva completamente scordati. Si lasciò avvolgere da quella
strana sensazione
di benessere. La puzza di polvere da sparo era andata via, un sapore
zuccherino
prese i suoi sensi e lui si perse per sempre in quel profumo, il
profumo
d’assenzio.
[2]
Nouvelle
Athènes è
il nome di un caffè a Place
Pigalle, famoso
ritrovo degli impressionisti come Manet, Degas, Van Gogh ecc.
Con lo stesso nome è indicato
anche un intero quartiere di Parigi di fine '800.
Il locale fu scelto
soprattutto da Marcellin
Desboutins e
aveva il vantaggio rispetto al Café
Guerbois di
possedere una terrazza coperta che
si affacciava sulla piazza, consentendo la visione dei passanti. Ogni
lunedì
infatti presso la piazza gli artisti sceglievano i loro modelli che si
ritrovavano in quel luogo. All'interno del caffè fu dipinto
il quadro di Degas L'assenzio.
Nel corso degli anni il caffè cambio nome più
volte: negli anni '40,
divenuto un locale di spogliarelliste, venne chiamato Sphynx e si
caratterizzò per essere divenuto
il luogo di incontro dei militari nazisti prima e
statunitensi poi. Più
recentemente, tra gli anni
ottanta e
gli anni
novanta,
fu chiamato New
Moon. Il
caffè fu chiuso nel 2004 ed il
palazzo dove risiedeva
completamente modificato.