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Autore: Melian_Belt    01/02/2012    3 recensioni
Nella Roma del 410 d.C., uno schiavo viene acquistato da una potente famiglia romana e si trova a vivere in un mondo diverso da quello al quale era abituato. Ma l'elemento più disturbante si rivelerà il nuovo padrone, destinato a dare una svolta inaspettata a quello che credeva il suo destino già segnato.
Slash, tanto per cambiare U_U
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La casa è tanto grande che potrei perdermici. I pavimenti decorati a mosaico variano da piano a piano, anche se non vado spesso ai piani superiori. Mi chiedo a cosa possa servire un’abitazione così immensa, ci saranno almeno una cinquantina di schiavi al servizio della famiglia e qui vivono insieme al padrone sua sorella con marito e bambini, la vecchia madre e credo almeno cinque parenti più alla lontana, senza contare le decine di ospiti che gravitano spesso intorno alla casa, i clienti, gli amministratori. E ancora si trovano aree vuote. Un secondo cortile con un porticato in legno è costellato di aranci ora in fiore, aiuole e una grande vasca che al momento è usata per fare crescere enormi ninfee, insieme a pesci colorati di fogge mai viste.
Se c’è un luogo che sicuramente è sempre occupato, è la parte riservata alla palestra, alle piscine, alle terme. Dove vivevo in precedenza c’erano strutture simili, ma erano pubbliche. Questa famiglia ha delle terme in casa, sempre piene di ospiti. Da quanto ho sentito dire, gli antenati del padrone sono stati senatori da prima della nascita dell’Imperatore, ma se c’è qualcosa che so dei romani, è che spesso esagerano. Hanno delle case fuori città, al Sud. Dei terreni dove altre decine di schiavi coltivano i campi e pascolano le bestie. È assurdo pensare che pochi abbiano così tanto, una ricchezza immensa e potere sulla vita di decine di persone. Eppure, a guardare il padrone camminare taciturno per le ricche sale, non si direbbe un uomo di tale potere. Il suo sguardo scuro si posa su cose niente affatto interessanti e rimane lì assorto, le mani raccolte dietro la schiena. La cosa che fa più spesso è sedersi nei giardini della casa, lunghi rotoli di papiro stretti tra le dita. Un po’ legge, un po’ si distrae guardando ciò che ha intorno. Con gli schiavi ha uno strano modo di fare, non rivolge quasi mai loro la parola. A gestire le decine di dipendenti, sotto la sua sporadica supervisione, è un tale Doroteo, schiavo intorno alla quarantina. Un tipo dallo sguardo severo ma che sembra non perdere mai la calma.
Per quanto mi riguarda, non mi interessa davvero ciò che succede nella casa. Ma non mi interessa nemmeno avere rapporti di alcun tipo con gli altri schiavi, quindi osservo e basta. Il padrone non è sposato, stranamente, anche perché sembra che gli piacciano i bambini, i pochi sorrisi che fa li esibisce quando prende in braccio le nipotine. Non mostra i denti ma solleva le labbra, portando appresso le guance un poco sporgenti e un breve scintillio nei grandi occhi castani. Solo la sorella lo chiama per nome: Giuliano.
Una sera mi sono ritrovato a ripeterlo nel buio e nel silenzio. Giuliano. Hm…niente di speciale. Non ha niente di imponente, niente di esotico. Mi trovo a ridacchiare amaramente, il petto che risuona delle vibrazioni: parlo io, che non ho nemmeno un nome. Non è che serva molto, il nome di uno schiavo qualunque. Ed io non ricordo come mi chiamassero i miei, o forse non voglio nemmeno ricordarmelo. Quelli che mi hanno abbandonato non possono darmi un’etichetta come il nome.
Per i primi giorni pulisco i piani inferiori e il cortile. Rispetto ai lavori pesanti della campagna è quasi rilassante, se non monotono. E almeno qui non ho quei “dopolavoro” che piacevano tanto ai padroni precedenti. In casa vivono anche delle concubine, quattro o cinque, ma non ho chiesto a chi dispensino i propri servigi. Al padrone immagino. Eppure tutto quello che vedo fare loro è passeggiare, andare in giro per Roma nei bei vestiti ricamati e fare il bagno nelle piscine. Non ho nemmeno chiesto se il padrone abbia degli amanti maschi, non voglio passare come un povero disgraziato con queste paure.
Una settimana dopo il mio arrivo, mi mandano nelle stalle a sistemare fasci di paglia. Sono al coperto e il sole non arriva ma, abituato alle temperature del nord, sento il caldo appiccicarmisi addosso e togliermi pian piano le forze. Quando finisco è quasi sera, sono così stanco che non ho nemmeno voglia di mangiare, ma devo aiutare nelle cucine e lì fa ancora più caldo, tra le decine di fuochi e pentoloni bollenti. Col passare dei minuti arriva la fame, non ho mangiato quasi niente in tutto il giorno. Ma porta il cibo lì, pulisci là, non ho nemmeno il tempo di respirare. Una ragazzotta dai capelli mori e cespugliosi mi passa malamente un vassoio colmo di frutti: “Portalo nella sala”. Chiudo la bocca in una linea sottile, socchiudendo gli occhi. Non ha detto niente di strano né fatto niente di male, oggettivamente. È il suo stesso essere che mi disturba. Mentre esco, una delle schiave mi guarda, abbozzando un sorriso. Dovrebbe essere suadente? Sollevo scocciato gli occhi al cielo. Nel corridoio l’aria è più fredda e rabbrividisco per il cambiamento brusco.
Nella grande sala dove si cena sono poggiati molti tavolini in argento pieni di cibo e bevande, intorno ai quali sono riuniti i commensali beatamente poggiati sui cuscini. Gli odori si mescolano insieme e il mio stomaco si ribella, indeciso tra la nausea e la fame. Mi gira la testa e la scrollo, cercando di non inciampare in niente mentre mi faccio largo verso il tavolino del padrone. È seduto con la nipotina più piccola sulle ginocchia, che cerca invano di aprire una noce. Lui sorride e ne prende due, chiudendole nel pugno della mano. Quando stringe si sente il rumore delle cocce che si rompono e le porge alla bambina, che con le dita sposta il commestibile da quello che non lo è. A quanto ho sentito ha dei problemi di vista e lo zio le dà una mano, mettendo via i cocci. Con un profondo respiro poggio il vassoio su un tavolino, prendendo quello ormai vuoto. Solo ora il padrone alza la testa a guardarmi. I suoi occhi rimangono fissi nei miei, uno sguardo troppo profondo per i miei gusti. Corrugo la fronte. Vorrei chiedergli perché mi sta fissando e di smetterla, ma ovviamente non posso. Non posso mai fare nulla di quello che davvero voglio. Come se una sedia scegliesse d’improvviso di diventare una ballerina e suonatrice d’arpa. Semplicemente non può.
Finalmente distoglie lo sguardo e si allunga verso il tavolino. Dalle maniche lunghe della tunica si intravede il muscolo del braccio sinistro, definito ma allungato. Molti nobili romani a quanto ho potuto vedere, tengono all’allenamento. Passano ore in palestra e nelle piscine, ma non credevo che anche lui fosse così, forse per l’aria calma e distante. Afferra una mela e me la porge. Io rimango immobile. Cosa diavolo vuole questo? La soppesa nella mano: “Prendila. Sei bianco come un cadavere”. Incerto e con quello che so non essere uno sguardo amichevole, allungo la mano. I colori delle nostre pelli sono diversi, la sua del colore del miele all’eucalipto lo sembra ancora di più contro la mia. Aspetta…da dove mi è venuta fuori la metafora? Afferro velocemente il frutto e ritiro la mano. Mi schiarisco la voce, incerto su cosa fare. “Hm…grazie?”. Spalanca appena gli occhi, piegando la testa di lato. Poi sorride: “Bella voce”. Abbozzo un mezzo sorriso, tra l’interdetto e il preoccupato. E me ne vado, evitando accuratamente di evitare ogni sguardo, compreso quello di un giovinetto che mi sembra fin troppo interessato. Pelle bianca della malora…
 
So bene che è la terza volta che pulisco questo punto del pentolone, ma non faccio che distrarmi. Non mi sono mai interessati gli uomini, nemmeno le donne ad essere sinceri. Allora perché continua a tornarmi in mente il suo sorriso e la sua voce mi riecheggia nelle orecchie? Ha un gran bel sorriso ecco tutto, gentile, ed io non sono abituato a niente di gentile. Dev’essere per questo e la sua voce ha un timbro particolare, un po’ roco ma vivo e pieno di sfumature. Sembra un’altra lingua rispetto a quella che sentivo nella campagna. “Ehi…” uno mi si avvicina. Da come è vestito e dai suoi capelli, capisco che è uno di quelli che qui chiamano schiavi puliti. Quelli che non si sporcano mai le mani, che non fanno lavori pesanti, ma si occupano dei bambini, che i padroni abbiano il necessario, di quello che si mangia. Lo fulmino mentre mi giro verso di lui e devo abbassare lo sguardo per incrociare il suo: “Sì?”. Anche lui rimane stupito dalla mia voce. Che cosa terribilmente noiosa. Sbuffo, incrociando le braccia al petto: “Che vuoi?”. Solleva una mano, agitandola nell’aria: “Sì beh…come ti chia…”
“Non ho un nome” taglio corto. Rimane immobile per un secondo, poi scrolla le spalle. “Il padrone ti vuole nel sua stanza personale. Muoviti”. Un frastuono mi echeggia nelle orecchie, ma intorno a me nessuno ha fatto movimenti bruschi o parlato a voce troppo alta, né fatto cadere qualcosa. È il mio cuore che batte a ritmo di danza e qualcosa nel mio petto deve non funzionare, se lo sento nella testa. Rimango pietrificato. “Hai capito?”. Annuisco appena, troppo paralizzato per dare la rispostaccia che vorrei. Quello se ne va e io spero che non fosse mai arrivato. Ma per quanto cerchi di convincermi che si è trattato di un sogno ad occhi aperti, come tattica non funziona. No, non di nuovo. Non voglio che succeda di nuovo, basta!
Mentre mi dirigo a passi lenti nella stanza del padrone, mi vengono in mente varie vie di fuga. Potrei lanciarmi giù per le scale e farmi male, ma questo non mi terrebbe al sicuro a lungo e nemmeno è detto che funzionerebbe. Occhieggiando i bracieri disseminati qua e là, penso che potrei sfigurarmi. Ma no, non permetterò ai miei padroni di farmi anche questo. Sospiro, sperando che si tratti di un evento sporadico, che si tolga lo sfizio e poi mi lasci in pace.
Ingoio il masso che mi si è fermato in gola prima di bussare. “Avanti”. Serro la bocca e chiudo gli occhi per un attimo, poi entro. Il padrone è seduto su uno sgabello, intento a sistemarsi un sandalo i cui lacci evidentemente si sono rigirati. Alza la testa: “Ah, eccoti”. Incastro le dita delle mani dietro la schiena, senza dire niente. Lascia lo sgabello e si avvicina di un paio di passi: “Non sapevo il tuo nome, ma a quanto pare è bastato dire quello nuovo con gli occhi blu per farsi capire”. Rimango in silenzio, evitando accuratamente di guardarlo. Si rischiara la voce. Aspetta un attimo…non sarà in imbarazzo vero? Mi ci manca sono lo sfruttatore imbranato: “Come…come ti chiami?”. Ora lo fisso, tutta la rabbia che provo annidata negli iridi che quasi fanno male. “Il mio primo padrone mi chiamava Marco, il secondo troia ed il terzo coso. Decidi tu il prossimo, padrone”. Gli ho praticamente sputato il titolo in faccia, cosa poco furba da parte mia. Ha gli occhi leggermente più aperti del solito e mi osserva interdetto. Si morde il labbro inferiore: “Ah…”. Ancora una volta si rischiara la voce: “Hai attirato la mia attenzione prima, in sala, perché…”. No, questo no. Tutto tranne questi ridicoli preamboli. La voce mi esce a scatti dalle labbra serrate: “Sì immagino. Ora vogliamo cominciare così ci diamo un taglio?”. Stavolta stringe chiuse le labbra. Apre la bocca per ribattere, ma la richiude. Con un gesto meccanico, porta un braccio verso il grande armadio attaccato al muro, pieno zeppo di scartoffie: “…sei alto”. Cade il silenzio, interrotto dopo qualche secondo dalla mia voce: “Cosa?”. Si avvicina all’armadio, indicando lo scaffale più alto. Abbozza un sorriso, tra il divertito e l’imbarazzato: “Credo proprio che tu sia il più alto della casa. Io non ci arrivo, potresti…”. Oh.  
  
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