Prologo
“Ehi
tu, vieni un po' qui”.
“Eh, io?”
“Esattamente tu, fammi
un po' vedere il libretto delle giustificazioni. Non ti ho mai visto
in questa scuola”.
“Sono di prima!”
“Ma bene, un altro
primino che decide di fare occupazione notturna. Apprezzo l'impegno,
ma non credi che sia meglio tornare a casa da mamma?”
“Cosa...?”
“E
tu, fammi controllare la cartella, hai l'aria di uno che ha
bevuto”
“...”
“Lo sapete benissimo, non voglio neanche
vedere un grammo di alcolico!”
Bene, ammettiamo pure che Jack
Bennett fosse il ragazzo più popolare del liceo, e che non
era stato
proclamato rappresentate d'istituto solo perché era troppo
pigro per
candidarsi, ma nominarlo coordinatore della sicurezza era stato un
grave errore.
Chiunque avrebbe capito che uno pignolo come lui,
che amava sempre criticare tutto di tutti e vedere sbagliata anche la
cosa più perfetta di questo mondo, non andava bene a
capeggiare. E
così, neanche a dirlo, il ragazzo si era montato la testa
non appena
gli era stata affidata questa mansione. Assillava chiunque gli
capitasse a tiro, standosene comodamente seduto dalla sua posizione
di guardia, e mai che gli venisse in mente di fare qualcosa di
più
intelligente, o semplicemente di più costruttivo.
“Jack, la
vuoi smettere di torturare la gente?”
Ecco un altro che non si
faceva mai tanti problemi a dire quello che pensava: Pierre Bryant, o
meglio conosciuto come il
coglione di turno.
“No...”
Cominciò Jack, scuotendo la testa e incatenando i suoi occhi
a
quelli viola dell'altro, con aria di sfida.
“No Re-Rè non hai
capito. Tu puoi passare questa bella occupazione come quattro giorni
di dolce far niente, ma io devo vigilare, capito? Vigilare!”
Scandì
insopportabilmente l'ultima parola.
“Sì, sì capito...”
Sbuffò l'altro, dando finalmente il permesso ai due
ragazzini di
prima di andarsene.
“Se ti ci impegni sei noioso come quel nerd
di Sammy, biondo...” Ribatté poi Pierre,
sorridendo.
Alle nove
in punto, i coordinatori fecero chiudere i cancelli, sigillando
l'istituto da occhi ostili.
La notte poteva iniziare.
Storie di Spettri
Cosa
successe quando quel liceo di
dolori e innamorati, di battaglie e professori d'altro tempo, di
corridoi stretti e ingarbugliati, andò nelle mani anche se
per pochi
giorni ai suoi giovani assidui frequentatori?
Liceo occupato,
studenti off-topic dalle normali attività scolastiche,
istituto in
ribellione. Espressioni che saettavano sugli striscioni appesi fuori
dalle finestre, e nei discorsi che si udivano nei vari gruppetti dei
ragazzi più effervescenti.
In città imperavano manifestazioni e
movimenti sociali, organizzati alcuni, altri improvvisati.
Il
clima non era esattamente tranquillo, e anzi sfociava troppo
facilmente in tensione e scontri.
La gente che scendeva in piazza
inneggiava al lavoro e alla libertà, il grido che si elevava
dalla
folla e che guidava i cori dal podio era ammaliante e, non si sa
come, risvegliava uno spirito del tutto nuovo che ognuno scopriva di
possedere dentro di sé, uno spirito che faceva sentire
ognuno
componente di una società, di uno stato, di un insieme di
persone.
Proprio nel suo periodo più irrequieto, l'intera urbs
venne ricoperta senza preavviso di un velo di zucchero, sceso
dalle nuvole ad abbassare di un tono le grida.
I ragazzi si
rifugiavano dentro la cementata della loro scuola presa in assedio,
battendo i piedi e i denti nel tentativo di scrollarsi di dosso il
freddo tenace.
Dentro vi trovavano i loro colleghi, stipati
nell'atrio di quel vecchio liceo, che a fatica riusciva a contenere
quell'inaspettata marmaglia di gente.
I coordinatori correvano
cercando invano i rappresentati, e i rappresentati si alteravano
chiamando a circolo vuoto i coordinatori. E ovunque, tra i membri
alti, regnava un chiaro sentore precipitoso e frenetico molto simile
al panico.
Per loro quella gran festa sembrava solo un girone
infernale a ruota libera, allegramente contornato dagli squilli
isterici dei cellulari, pronti messaggi interplanetari d'emergenza
che arrivavano dai rappresentati di altre scuole, o da invitati
speciali che chiedevano indicazioni stradali.
Gli studenti, dal
canto loro, si rannicchiavano nel loro nido, e
occupavano.
Occupavano, quasi timorosi di mettere il naso fuori
dalla scuola, anche fosse per prendere un caffè o per
ordinare una
pizza, in attesa della lunga notte che li attendeva.
Il
pomeriggio passò lentamente,
immerso in uno stato di torpore.
C'era chi strimpellava due note
sulle corde della chitarra, chi aveva una voglia disumana di cantare
in coro, chi disegnava o studiava silenziosamente, con la schiena
premuta contro le griglie nere dei termosifone.
Non attendevano
nient'altro che la sera, quasi imprigionati in quella crisalide di
ghiaccio, in quella scuola che in momenti simili tutti sentivano come
casa.
E la sera finalmente calò, non troppo tardi, sul fare delle
cinque.
L'istituto sembrò risvegliarsi, gli studenti
ricominciarono ad affluire all'interno di quelle mura, ripopolando la
scuola di vigore e chiacchiericci.
Proprio nel momento più
critico, in cui tutti si chiedevano dove mai fosse finito, comparve
sulla soglia del liceo il coordinatore della sicurezza.
Un Jack
Bennett con il naso arricciato e lo sguardo altezzoso, e soprattutto
con un'ora di ritardo da giustificare.
Dopo essersi subito tediosi
rimproveri dal rappresentante di turno, il ragazzo prese posto sulla
sua sedia abituale, munita anch'essa di chitarra come tutte le
postazioni di guardia.
Imbracciò lo strumento, pizzicando pigro
le corde con le dita, rinunciando poi al suo intento mezzo minuto
più
tardi.
Lasciò agli altri il compito di ordinare la cena per i
cinquanta ragazzi rimasti a fare occupazione notturna, ne aveva
abbastanza di tenere a bada tutte queste frivolezze.
Si lasciò
andare con fare annoiato alla contemplazione della neve, che cadeva
placida oltre i vetri.
Mai che succedesse qualcosa di nuovo.
Un
intervento della polizia, ad esempio. O un tentativo di
intrusione.
Era stato nominato coordinatore della sicurezza, ma se
l'ambiente d'intorno era un mortorio innevato, non era troppo
difficile renderlo sicuro.
Poco dopo decise di accorparsi al resto
degli occupanti, cercando di spezzare un poco la noia e, soprattutto,
cercando di togliersi di torno quelle quattro donzelle truccate che
l'avevano accerchiato.
Senza troppi giri di parole s'impadronì di
un trancio di pizza margherita, lasciata sola nel cartone ormai
esaurito. Poi si accodò ai soliti curiosi che attiravano
l'attenzione con storie ammalianti, dalla vita sessuale dei
professori alle leggende metropolitane dello scheletro dell'aula di
biologia che prendeva vita e si metteva a ballare il valzer.
Jack
sorrise scettico, prestando orecchie alla voce del giorno.
Pierre
Bryant, il coglione di turno, si era tramutato nel
chiacchierone di turno.
Lo era sempre stato, a dire il
vero, anzi. I due nomignoli andavano di comune accordo.
Ma
stavolta era lui il pulpito, e questo era un evento più
unico che
raro.
Solitamente i suoi vaneggiamenti venivano semplicemente
ignorati, lasciati a reggersi in piedi da soli, per poi crollare
miseramente dopo un tentativo mozzato.
“Si trattava proprio di
un fantasma!”
Un fantasma?
Jack si batté una mano in fronte,
dandosi mille volte dello stupido.
Come aveva potuto pensare,
anche solo per un secondo, di dar credito alle scemenze di Pierre?
La
sorte era stata malvagia con lui, stavolta. Voleva un diversivo
serale, sì, ma nulla che avesse a che fare con i fantasmi
immaginari
di Pierre Bryant, diamine!
“Sono tutte cazzate!” Inveì il
coordinatore, smontando l'entusiasmo dei primini astanti che
letteralmente pendevano dalle labbra del loro oratore.
“Ti
sbagli, Jackie. C'è davvero qualcosa che
infesta il terzo
piano, e questi ragazzi ne sono testimoni!”
Due quattordicenni
pallidi, che tutto avevano fuorché la voglia di aprir bocca,
se ne
stavano accovacciati l'uno di fianco all'altro, con l'aria di dover
collassare di lì a momenti.
“Idiota! Ti diverti tanto a
spaventare i mocciosi?” Ringhiò Jack in faccia ad
un Pierre
piuttosto offeso, e con intenzioni per nulla rappacificanti.
“Sapete
che vi dico?” Continuò poi il coordinatore, punto
nell'orgoglio.
“Andrò io stesso a controllare, ci dev'essere
qualcuno che vuole
fare il furbo”.
Munitosi di buona volontà, Jack decise di
avventurarsi lungo le scale che portavano ai piani superiori, senza
ascoltare i vari tentativi di dissuasione.
Era pur sempre un
membro della sicurezza, no?
*
Come gli
fosse venuto in mente di
vagare solo per la scuola, Nicholas doveva ancora capirlo.
Ci
fosse stato un briciolo di razionalità in quello che stava
facendo,
avrebbe anche potuto continuare ad assecondarlo, ma così
stava
facendo l'asociale e basta. Doveva ammettere però, che
decidere di
fare l'asociale proprio andando ad intanarsi nei piani superiori
dell'edificio, dove di prassi dopo le nove si manteneva il
coprifuoco, non era stata esattamente quella che si diceva una buona
idea.
A malapena riusciva a vedere dove mettere i piedi, e inoltre
tra gli studenti aleggiavano voci inquietanti. C'era chi sosteneva di
aver avvistato orde di fantasmi, di ombre umane di cui non si
riusciva a vedere la fonte, di passi leggeri privi di
proprietario.
Nicholas Andreassen non era un ragazzino credulone o
pauroso, semplicemente era pieno di insicurezze. Da poco si era
trasferito in quella cittadina americana, e non si sentiva del tutto
a suo agio. L'ambiente in cui si era ritrovato costretto a vivere era
del tutto diverso dalla sua coloratissima Norvegia, anche se la
lingua non era mai stata un problema. Le persone erano diverse, il
mare era diverso, persino il cielo e le ore di luce e di buio erano
diverse. Nonostante ciò, si era sentito abbastanza maturo e
sicuro
di sé da decidere di partecipare a quella piccola grande
rivolta
giovanile, di prendere in mano le sue idee. Non sarebbe di certo
stato un fantasma a fermarlo.
Inoltre, in tutto quel marasma di
note negative, ce n'era una immensamente positiva che spiccava
stonata, ovvero Jack Bennett e i suoi occhi verdi, gentilmente
ripresi dalla gemma che portava al collo, appesa alla collanina di
caucciù che spiccava sulla pelle bianca.
Jack aveva tre anni in
più di lui e un carattere totalmente opposto, ma
così carismatico
da non potersi ignorare. E quell'inaspettata occupazione diventava
per Nicholas l'ennesima occasione per conoscerlo. Jack era una sorta
di mito per i ragazzini del biennio, una sorta di simbolo della
scuola.
Se si voleva sminuire gli intenti megalomani di qualche
studente alle prime armi, gli si diceva: non spererai
mica di
diventare come Bennett!, oppure di Jack Bennett non
ce ne
saranno più.
Ma tra pochi mesi anche quel baluardo si sarebbe
dovuto incamminare verso la maturità, e allora chi avrebbe
più
retto in piedi il liceo? O meglio, chi avrebbero potuto idolatrare le
ragazzine innamorate e gli studentelli saccenti?
Qualunque cosa
fosse successa dopo, ora Nicholas aveva la testa
ben
concentrata sul presente.
Sul presente immediato per essere
precisi, e su qualunque cosa fossero quei passi affrettati e furtivi
e quel respiro affannoso che percepiva chiaramente vicini a
lui.
Sentì distintamente il cuore balzargli in petto, e un bolo
d'acciaio fermarglisi in gola; possibile che le dicerie non
fossero solo dicerie?
Era arrivato, vagabondando senza meta a
quel modo, al terzo piano. Uno di quei piani polverosi e sconosciuti,
in cui non si avevano mai particolari motivi per andarci. L'ampio
atrio era reso di un colore spettrale dal pavimento di marmo che
catturava i debolissimi bagliori lunari; nonostante ciò,
l'ambiente
era pregno di un'oscurità tangibile e insidiosa.
Nicholas si
guardò intorno con frenesia, ma brancolava nel buio come un
cieco.
Era disorientato, e cominciava ad essere pervaso da un fastidioso
senso di nausea.
Il sudore gli gelò sul collo e lungo la schiena,
gli si troncò il respiro e il cuore gli balzò nel
petto battendo
furioso per una manciata di lunghissimi attimi.
Qualcosa si
muoveva in fondo al corridoio, e veniva verso di lui.
All'apparenza
un viso bianco, smorto e senza occhi che ammiccava al suo indirizzo
con fare minaccioso.
Benché il suo corpo si rifiutasse di
muoversi, Nicholas fece comunque qualche goffo passo indietro,
vincendo l'improvvisa scarica d'adrenalina che lo teneva inchiodato
sul posto.
Arretrò così di qualche metro, rischiando
d'inciampare sui suoi stessi piedi; ma la creatura demoniaca
continuò
ad avanzare imperterrita, come avesse avuto le ali ai piedi.
“Ehi
tu! Che ci fai qua?”
Una voce maschile piena di stizza spezzò
quel silenzio carico di tensione. Nicholas si voltò ansante,
ma
nella foga si appoggiò male sulla caviglia e perse
l'equilibrio. Per
un malaugurato caso, in quella buffa piroetta si trovò a
diretto
contatto con il corpo secco e spigoloso di un ragazzo.
D'istinto
spinse le mani sul suo petto per sbilanciarsi all'indietro e
rimediare, in qualche modo, a quell'imbarazzante quanto improvviso
incontro ravvicinato.
“Scusa... io...”
Il buio in quella
parte di corridoio era talmente denso che Nicholas non
riuscì
neppure a distinguere il viso dell'altro, anche se quella voce
beffarda e strascicata gli suonava familiare. In compenso, si accorse
della sua idiozia e della sua ingloriosa mancanza di sangue freddo:
quello che prima aveva scambiato per un mostruoso essere smunto ed
evanescente, non era altro che il viso dello studente sconosciuto che
gli si era avvicinato alle spalle, riflesso nel vetro della finestra
di fronte.
“E tu chi saresti?” Chiese titubante Nicholas,
notando che l'altro non accennava a voler tornare alla luce e aveva
persino smesso di parlare, quasi stesse meditando se nascondere o no
la propria identità.
Come temeva, non ricevette risposta. O
meglio, nessuna risposta vocale. Sentì solo il respiro
dell'altro
sul collo, il suo corpo piegarsi e le sue mani bloccarlo.
Che
diavolo aveva intenzione di fare?
Per un attimo Nicholas si
lasciò prendere dal panico, non riuscendo a dare una
spiegazione a
quell'intimità improvvisa. Nel mentre che pensava
vorticosamente a
dare un senso a quella situazione a dir poco assurda, le labbra
fresche e ruvide dell'altro lo sfiorarono sulla guancia, accennando
lievi baci, e la sua mano s'intrufolò sotto la maglia,
sollevandola.
Si sentì toccare lungo la schiena e sulla pancia, e venne
pervaso da
una serie di intensi brividi, pieni di libidine. Non conosceva quel
ragazzo, anzi, non riusciva nemmeno a guardarlo in viso, e sapeva
quanto fosse rischiosa e azzardata una decisione del genere, ma la
tentazione di cedere era forte. Lì, immersi nel buio e nel
silenzio
della notte, senza il peso di dover rivelare le loro
identità, senza
il timore di venire scoperti da qualcuno.
Inoltre erano due
maschi, non correvano il pericolo di lasciare cuori infranti
o
bebè indesiderati dietro la scia delle loro azioni
sconsiderate.
Senza nemmeno accorgersene, Nicholas si era trovato
attaccato alle labbra dell'altro, in un bacio prudente ma che sarebbe
presto degenerato in qualcosa di più turbinoso.
E in
quell'attimo che affondò il naso nel collo del ragazzo, per
respirare il suo vago odore di sigaretta e deodorante, l'attenzione
del suo sguardo, spaesato per il troppo buio, venne tutta quanta
catturata da uno sfavillio azzurro e verdognolo. Una pietra, di un
delizioso acquamarina, incastonata in un ciondolo grezzo e
sbeccato.
Un solo viso e un solo nome gli attraversarono la mente,
assieme ad un'ondata di eccitazione e vergogna.
Jack
Bennett.
Cazzo.
“C'è qualcosa che non va?”
Nicholas
scosse forte la testa, sentendo il viso accendersi di una vampata di
calore. Mosse nervoso i piedi all'interno delle sue larghe scarpe da
skater, e con una certa timidezza si lasciò abbassare i
jeans.
Quale
divinità avesse deciso di concedergli un tale privilegio,
non lo
poté mai sapere.
Fattostava che quella fredda e misteriosa notte
d'occupazione fece per davvero l'amore con uno degli angeli che
avevano deciso di fare, di quella misera e malandata scuola con i
banchi rotti e i bagni privi di carta igienica, il loro regno.
*
“Okay,
hai vinto tu sparacazzate
numero
uno”, esordì il capo sicurezza entrando nella
guardiola dei
bidelli - il loro improvvisato quartier generale - con le braccia
alzate e l'espressione rassegnata.
“E cioè?” Pierre lo fissò
sospettoso, inarcando un sopracciglio.
“Cioè ho trovato questo
fantasma”, lanciò una veloce occhiata complice a
Nicholas
Andreassen, appoggiato con finta disinvoltura alla porta
dell'infermeria, e suoi occhi blu cielo lampeggiarono all'unisono con
la pietruzza che gli pendeva dal collo.
“Uno dei più carini che
si siano mai avvistati”.
Nel
frattempo, una ragazzina con l'animo a pezzi e il petto allagato si
era rifugiata nella solitudine del terzo piano, cercando un angolo in
cui versare le proprie lacrime in santa pace.
I
vetri gelidi delle innumerevoli finestre erano l'ideale per sbollire
la rabbia e l'agitazione che la pervadevano, così
appoggiò la
fronte contro una di quelle superfici trasparenti e scure, trovandosi
faccia a faccia col suo riflesso.
Con
quello che credeva
fosse il suo
riflesso.
Fissò
per lunghi minuti la sua faccia pallida e bianca confondersi con i
fiocchi di neve che coloravano il cielo di un motivo a pois,
finché
il sonno non la colse.
E
l'ombra poté divorarla, sgranocchiandola soddisfatta tra le
sue
schegge di vetro.