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Autore: Silvar tales    01/02/2012    8 recensioni
Nicholas Andreassen non era un ragazzino credulone o pauroso, semplicemente era pieno di insicurezze.
Da poco si era trasferito in quella cittadina americana, e non si sentiva del tutto a suo agio.
L'ambiente in cui si era ritrovato costretto a vivere era del tutto diverso dalla sua coloratissima Norvegia, anche se la lingua non era mai stata un problema.
Le persone erano diverse, il mare era diverso, persino il cielo e le ore di luce e di buio erano diverse.
Nonostante ciò, si era sentito abbastanza maturo e sicuro di sé da decidere di partecipare a quella piccola grande rivolta giovanile, di prendere in mano le sue idee.
Non sarebbe di certo stato un fantasma a fermarlo.
Genere: Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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Prologo



Ehi tu, vieni un po' qui”.
“Eh, io?”
“Esattamente tu, fammi un po' vedere il libretto delle giustificazioni. Non ti ho mai visto in questa scuola”.
“Sono di prima!”
“Ma bene, un altro primino che decide di fare occupazione notturna. Apprezzo l'impegno, ma non credi che sia meglio tornare a casa da mamma?”
“Cosa...?”
“E tu, fammi controllare la cartella, hai l'aria di uno che ha bevuto”
“...”
“Lo sapete benissimo, non voglio neanche vedere un grammo di alcolico!”
Bene, ammettiamo pure che Jack Bennett fosse il ragazzo più popolare del liceo, e che non era stato proclamato rappresentate d'istituto solo perché era troppo pigro per candidarsi, ma nominarlo coordinatore della sicurezza era stato un grave errore.
Chiunque avrebbe capito che uno pignolo come lui, che amava sempre criticare tutto di tutti e vedere sbagliata anche la cosa più perfetta di questo mondo, non andava bene a capeggiare. E così, neanche a dirlo, il ragazzo si era montato la testa non appena gli era stata affidata questa mansione. Assillava chiunque gli capitasse a tiro, standosene comodamente seduto dalla sua posizione di guardia, e mai che gli venisse in mente di fare qualcosa di più intelligente, o semplicemente di più costruttivo.
“Jack, la vuoi smettere di torturare la gente?”
Ecco un altro che non si faceva mai tanti problemi a dire quello che pensava: Pierre Bryant, o meglio conosciuto come
il coglione di turno.
“No...” Cominciò Jack, scuotendo la testa e incatenando i suoi occhi a quelli viola dell'altro, con aria di sfida.
“No Re-Rè non hai capito. Tu puoi passare questa bella occupazione come quattro giorni di dolce far niente, ma io devo vigilare, capito? Vigilare!” Scandì insopportabilmente l'ultima parola.
“Sì, sì capito...” Sbuffò l'altro, dando finalmente il permesso ai due ragazzini di prima di andarsene.
“Se ti ci impegni sei noioso come quel nerd di Sammy, biondo...” Ribatté poi Pierre, sorridendo.
Alle nove in punto, i coordinatori fecero chiudere i cancelli, sigillando l'istituto da occhi ostili.
La notte poteva iniziare.





Storie di Spettri





Cosa successe quando quel liceo di dolori e innamorati, di battaglie e professori d'altro tempo, di corridoi stretti e ingarbugliati, andò nelle mani anche se per pochi giorni ai suoi giovani assidui frequentatori?
Liceo occupato, studenti off-topic dalle normali attività scolastiche, istituto in ribellione. Espressioni che saettavano sugli striscioni appesi fuori dalle finestre, e nei discorsi che si udivano nei vari gruppetti dei ragazzi più effervescenti.
In città imperavano manifestazioni e movimenti sociali, organizzati alcuni, altri improvvisati.
Il clima non era esattamente tranquillo, e anzi sfociava troppo facilmente in tensione e scontri.
La gente che scendeva in piazza inneggiava al lavoro e alla libertà, il grido che si elevava dalla folla e che guidava i cori dal podio era ammaliante e, non si sa come, risvegliava uno spirito del tutto nuovo che ognuno scopriva di possedere dentro di sé, uno spirito che faceva sentire ognuno componente di una società, di uno stato, di un insieme di persone.
Proprio nel suo periodo più irrequieto, l'intera urbs venne ricoperta senza preavviso di un velo di zucchero, sceso dalle nuvole ad abbassare di un tono le grida.
I ragazzi si rifugiavano dentro la cementata della loro scuola presa in assedio, battendo i piedi e i denti nel tentativo di scrollarsi di dosso il freddo tenace.
Dentro vi trovavano i loro colleghi, stipati nell'atrio di quel vecchio liceo, che a fatica riusciva a contenere quell'inaspettata marmaglia di gente.
I coordinatori correvano cercando invano i rappresentati, e i rappresentati si alteravano chiamando a circolo vuoto i coordinatori. E ovunque, tra i membri alti, regnava un chiaro sentore precipitoso e frenetico molto simile al panico.
Per loro quella gran festa sembrava solo un girone infernale a ruota libera, allegramente contornato dagli squilli isterici dei cellulari, pronti messaggi interplanetari d'emergenza che arrivavano dai rappresentati di altre scuole, o da invitati speciali che chiedevano indicazioni stradali.
Gli studenti, dal canto loro, si rannicchiavano nel loro nido, e occupavano.
Occupavano, quasi timorosi di mettere il naso fuori dalla scuola, anche fosse per prendere un caffè o per ordinare una pizza, in attesa della lunga notte che li attendeva.

Il pomeriggio passò lentamente, immerso in uno stato di torpore.
C'era chi strimpellava due note sulle corde della chitarra, chi aveva una voglia disumana di cantare in coro, chi disegnava o studiava silenziosamente, con la schiena premuta contro le griglie nere dei termosifone.
Non attendevano nient'altro che la sera, quasi imprigionati in quella crisalide di ghiaccio, in quella scuola che in momenti simili tutti sentivano come casa.
E la sera finalmente calò, non troppo tardi, sul fare delle cinque.
L'istituto sembrò risvegliarsi, gli studenti ricominciarono ad affluire all'interno di quelle mura, ripopolando la scuola di vigore e chiacchiericci.
Proprio nel momento più critico, in cui tutti si chiedevano dove mai fosse finito, comparve sulla soglia del liceo il coordinatore della sicurezza.
Un Jack Bennett con il naso arricciato e lo sguardo altezzoso, e soprattutto con un'ora di ritardo da giustificare.
Dopo essersi subito tediosi rimproveri dal rappresentante di turno, il ragazzo prese posto sulla sua sedia abituale, munita anch'essa di chitarra come tutte le postazioni di guardia.
Imbracciò lo strumento, pizzicando pigro le corde con le dita, rinunciando poi al suo intento mezzo minuto più tardi.
Lasciò agli altri il compito di ordinare la cena per i cinquanta ragazzi rimasti a fare occupazione notturna, ne aveva abbastanza di tenere a bada tutte queste frivolezze.
Si lasciò andare con fare annoiato alla contemplazione della neve, che cadeva placida oltre i vetri.
Mai che succedesse qualcosa di nuovo.
Un intervento della polizia, ad esempio. O un tentativo di intrusione.
Era stato nominato coordinatore della sicurezza, ma se l'ambiente d'intorno era un mortorio innevato, non era troppo difficile renderlo sicuro.
Poco dopo decise di accorparsi al resto degli occupanti, cercando di spezzare un poco la noia e, soprattutto, cercando di togliersi di torno quelle quattro donzelle truccate che l'avevano accerchiato.
Senza troppi giri di parole s'impadronì di un trancio di pizza margherita, lasciata sola nel cartone ormai esaurito. Poi si accodò ai soliti curiosi che attiravano l'attenzione con storie ammalianti, dalla vita sessuale dei professori alle leggende metropolitane dello scheletro dell'aula di biologia che prendeva vita e si metteva a ballare il valzer.
Jack sorrise scettico, prestando orecchie alla voce del giorno.
Pierre Bryant, il coglione di turno, si era tramutato nel chiacchierone di turno.
Lo era sempre stato, a dire il vero, anzi. I due nomignoli andavano di comune accordo.
Ma stavolta era lui il pulpito, e questo era un evento più unico che raro.
Solitamente i suoi vaneggiamenti venivano semplicemente ignorati, lasciati a reggersi in piedi da soli, per poi crollare miseramente dopo un tentativo mozzato.
“Si trattava proprio di un fantasma!”
Un fantasma?
Jack si batté una mano in fronte, dandosi mille volte dello stupido.
Come aveva potuto pensare, anche solo per un secondo, di dar credito alle scemenze di Pierre?
La sorte era stata malvagia con lui, stavolta. Voleva un diversivo serale, sì, ma nulla che avesse a che fare con i fantasmi immaginari di Pierre Bryant, diamine!
“Sono tutte cazzate!” Inveì il coordinatore, smontando l'entusiasmo dei primini astanti che letteralmente pendevano dalle labbra del loro oratore.
“Ti sbagli, Jackie. C'è davvero qualcosa che infesta il terzo piano, e questi ragazzi ne sono testimoni!”
Due quattordicenni pallidi, che tutto avevano fuorché la voglia di aprir bocca, se ne stavano accovacciati l'uno di fianco all'altro, con l'aria di dover collassare di lì a momenti.
“Idiota! Ti diverti tanto a spaventare i mocciosi?” Ringhiò Jack in faccia ad un Pierre piuttosto offeso, e con intenzioni per nulla rappacificanti.
“Sapete che vi dico?” Continuò poi il coordinatore, punto nell'orgoglio. “Andrò io stesso a controllare, ci dev'essere qualcuno che vuole fare il furbo”.
Munitosi di buona volontà, Jack decise di avventurarsi lungo le scale che portavano ai piani superiori, senza ascoltare i vari tentativi di dissuasione.
Era pur sempre un membro della sicurezza, no?





*





Come gli fosse venuto in mente di vagare solo per la scuola, Nicholas doveva ancora capirlo.
Ci fosse stato un briciolo di razionalità in quello che stava facendo, avrebbe anche potuto continuare ad assecondarlo, ma così stava facendo l'asociale e basta. Doveva ammettere però, che decidere di fare l'asociale proprio andando ad intanarsi nei piani superiori dell'edificio, dove di prassi dopo le nove si manteneva il coprifuoco, non era stata esattamente quella che si diceva una buona idea.
A malapena riusciva a vedere dove mettere i piedi, e inoltre tra gli studenti aleggiavano voci inquietanti. C'era chi sosteneva di aver avvistato orde di fantasmi, di ombre umane di cui non si riusciva a vedere la fonte, di passi leggeri privi di proprietario.
Nicholas Andreassen non era un ragazzino credulone o pauroso, semplicemente era pieno di insicurezze. Da poco si era trasferito in quella cittadina americana, e non si sentiva del tutto a suo agio. L'ambiente in cui si era ritrovato costretto a vivere era del tutto diverso dalla sua coloratissima Norvegia, anche se la lingua non era mai stata un problema. Le persone erano diverse, il mare era diverso, persino il cielo e le ore di luce e di buio erano diverse. Nonostante ciò, si era sentito abbastanza maturo e sicuro di sé da decidere di partecipare a quella piccola grande rivolta giovanile, di prendere in mano le sue idee. Non sarebbe di certo stato un fantasma a fermarlo.
Inoltre, in tutto quel marasma di note negative, ce n'era una immensamente positiva che spiccava stonata, ovvero Jack Bennett e i suoi occhi verdi, gentilmente ripresi dalla gemma che portava al collo, appesa alla collanina di caucciù che spiccava sulla pelle bianca.
Jack aveva tre anni in più di lui e un carattere totalmente opposto, ma così carismatico da non potersi ignorare. E quell'inaspettata occupazione diventava per Nicholas l'ennesima occasione per conoscerlo. Jack era una sorta di mito per i ragazzini del biennio, una sorta di simbolo della scuola.
Se si voleva sminuire gli intenti megalomani di qualche studente alle prime armi, gli si diceva: non spererai mica di diventare come Bennett!, oppure di Jack Bennett non ce ne saranno più.
Ma tra pochi mesi anche quel baluardo si sarebbe dovuto incamminare verso la maturità, e allora chi avrebbe più retto in piedi il liceo? O meglio, chi avrebbero potuto idolatrare le ragazzine innamorate e gli studentelli saccenti?
Qualunque cosa fosse successa dopo, ora Nicholas aveva la testa ben concentrata sul presente.
Sul presente immediato per essere precisi, e su qualunque cosa fossero quei passi affrettati e furtivi e quel respiro affannoso che percepiva chiaramente vicini a lui.
Sentì distintamente il cuore balzargli in petto, e un bolo d'acciaio fermarglisi in gola; possibile che le dicerie non fossero solo dicerie?
Era arrivato, vagabondando senza meta a quel modo, al terzo piano. Uno di quei piani polverosi e sconosciuti, in cui non si avevano mai particolari motivi per andarci. L'ampio atrio era reso di un colore spettrale dal pavimento di marmo che catturava i debolissimi bagliori lunari; nonostante ciò, l'ambiente era pregno di un'oscurità tangibile e insidiosa.
Nicholas si guardò intorno con frenesia, ma brancolava nel buio come un cieco. Era disorientato, e cominciava ad essere pervaso da un fastidioso senso di nausea.
Il sudore gli gelò sul collo e lungo la schiena, gli si troncò il respiro e il cuore gli balzò nel petto battendo furioso per una manciata di lunghissimi attimi.
Qualcosa si muoveva in fondo al corridoio, e veniva verso di lui.
All'apparenza un viso bianco, smorto e senza occhi che ammiccava al suo indirizzo con fare minaccioso.
Benché il suo corpo si rifiutasse di muoversi, Nicholas fece comunque qualche goffo passo indietro, vincendo l'improvvisa scarica d'adrenalina che lo teneva inchiodato sul posto.
Arretrò così di qualche metro, rischiando d'inciampare sui suoi stessi piedi; ma la creatura demoniaca continuò ad avanzare imperterrita, come avesse avuto le ali ai piedi.
“Ehi tu! Che ci fai qua?”
Una voce maschile piena di stizza spezzò quel silenzio carico di tensione. Nicholas si voltò ansante, ma nella foga si appoggiò male sulla caviglia e perse l'equilibrio. Per un malaugurato caso, in quella buffa piroetta si trovò a diretto contatto con il corpo secco e spigoloso di un ragazzo.
D'istinto spinse le mani sul suo petto per sbilanciarsi all'indietro e rimediare, in qualche modo, a quell'imbarazzante quanto improvviso incontro ravvicinato.
“Scusa... io...”
Il buio in quella parte di corridoio era talmente denso che Nicholas non riuscì neppure a distinguere il viso dell'altro, anche se quella voce beffarda e strascicata gli suonava familiare. In compenso, si accorse della sua idiozia e della sua ingloriosa mancanza di sangue freddo: quello che prima aveva scambiato per un mostruoso essere smunto ed evanescente, non era altro che il viso dello studente sconosciuto che gli si era avvicinato alle spalle, riflesso nel vetro della finestra di fronte.
“E tu chi saresti?” Chiese titubante Nicholas, notando che l'altro non accennava a voler tornare alla luce e aveva persino smesso di parlare, quasi stesse meditando se nascondere o no la propria identità.
Come temeva, non ricevette risposta. O meglio, nessuna risposta vocale. Sentì solo il respiro dell'altro sul collo, il suo corpo piegarsi e le sue mani bloccarlo.
Che diavolo aveva intenzione di fare?
Per un attimo Nicholas si lasciò prendere dal panico, non riuscendo a dare una spiegazione a quell'intimità improvvisa. Nel mentre che pensava vorticosamente a dare un senso a quella situazione a dir poco assurda, le labbra fresche e ruvide dell'altro lo sfiorarono sulla guancia, accennando lievi baci, e la sua mano s'intrufolò sotto la maglia, sollevandola. Si sentì toccare lungo la schiena e sulla pancia, e venne pervaso da una serie di intensi brividi, pieni di libidine. Non conosceva quel ragazzo, anzi, non riusciva nemmeno a guardarlo in viso, e sapeva quanto fosse rischiosa e azzardata una decisione del genere, ma la tentazione di cedere era forte. Lì, immersi nel buio e nel silenzio della notte, senza il peso di dover rivelare le loro identità, senza il timore di venire scoperti da qualcuno.
Inoltre erano due maschi, non correvano il pericolo di lasciare cuori infranti o bebè indesiderati dietro la scia delle loro azioni sconsiderate.
Senza nemmeno accorgersene, Nicholas si era trovato attaccato alle labbra dell'altro, in un bacio prudente ma che sarebbe presto degenerato in qualcosa di più turbinoso. E in quell'attimo che affondò il naso nel collo del ragazzo, per respirare il suo vago odore di sigaretta e deodorante, l'attenzione del suo sguardo, spaesato per il troppo buio, venne tutta quanta catturata da uno sfavillio azzurro e verdognolo. Una pietra, di un delizioso acquamarina, incastonata in un ciondolo grezzo e sbeccato.
Un solo viso e un solo nome gli attraversarono la mente, assieme ad un'ondata di eccitazione e vergogna.
Jack Bennett.
Cazzo.
“C'è qualcosa che non va?”
Nicholas scosse forte la testa, sentendo il viso accendersi di una vampata di calore. Mosse nervoso i piedi all'interno delle sue larghe scarpe da skater, e con una certa timidezza si lasciò abbassare i jeans.
Quale divinità avesse deciso di concedergli un tale privilegio, non lo poté mai sapere.
Fattostava che quella fredda e misteriosa notte d'occupazione fece per davvero l'amore con uno degli angeli che avevano deciso di fare, di quella misera e malandata scuola con i banchi rotti e i bagni privi di carta igienica, il loro regno.





*





Okay, hai vinto tu sparacazzate numero uno”, esordì il capo sicurezza entrando nella guardiola dei bidelli - il loro improvvisato quartier generale - con le braccia alzate e l'espressione rassegnata.
“E cioè?” Pierre lo fissò sospettoso, inarcando un sopracciglio.
“Cioè ho trovato questo fantasma”, lanciò una veloce occhiata complice a Nicholas Andreassen, appoggiato con finta disinvoltura alla porta dell'infermeria, e suoi occhi blu cielo lampeggiarono all'unisono con la pietruzza che gli pendeva dal collo.
“Uno dei più carini che si siano mai avvistati”.



Nel frattempo, una ragazzina con l'animo a pezzi e il petto allagato si era rifugiata nella solitudine del terzo piano, cercando un angolo in cui versare le proprie lacrime in santa pace.
I vetri gelidi delle innumerevoli finestre erano l'ideale per sbollire la rabbia e l'agitazione che la pervadevano, così appoggiò la fronte contro una di quelle superfici trasparenti e scure, trovandosi faccia a faccia col suo riflesso.
Con quello che credeva fosse il suo riflesso.
Fissò per lunghi minuti la sua faccia pallida e bianca confondersi con i fiocchi di neve che coloravano il cielo di un motivo a pois, finché il sonno non la colse.
E l'ombra poté divorarla, sgranocchiandola soddisfatta tra le sue schegge di vetro.


   
 
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