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Autore: Mizar19    02/02/2012    2 recensioni
Il numero 72 di via De Meis a Torino è uno dei tanti opachi palazzi della zona; costruito negli anni '60, assomiglia molto ai tanto deplorati casermoni di città, con gli infissi marroni un po' scrostati, possenti pilastri a sorreggerne l'androne e uno sprazzo di verde nel cortile comune. La scala D è abitata da famiglie, anziani e, soprattutto, universitari. Saranno proprio gli universitari della scala D a raccontare tra le difficoltà quotidiane il loro rapporto con l'università, gli amici e il futuro.
Genere: Comico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: FemSlash
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Hysteria'
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Come promesso, ecco il primo capitolo! Abbiamo qualche notizia in più sugli inquilini, nonché un primo approccio generale. Godetevelo! Dedicato ai Magici Undici

Avvertenze: alcune informazioni circa queste persone non sono esatte, dunque non prestatevi interamente fede! Inoltre, ciò che viene detto dai personaggi non è necessariamente il mio pensiero e non è detto che lo condivida. Le restanti coincidenze con persone, luoghi, fatti esistenti sono puramente casuali.

***
 


Capitolo 1

 OLTRE OGNI RAGIONEVOLE DUBBIO

 
 
Monia distese tutti e quattro gli arti, tendendoli al massimo della loro elasticità sotto il piumone, con il rischio di ritrovarsi bloccata dai crampi. Ne riemerse con un gemito mentale di soddisfazione, che si tradusse in sonorità quando sfiorò la spalla della persona alla sua sinistra.
Decise che non sarebbe stato necessario svegliare la leggiadra creatura che russava al suo fianco, dunque zampettò in deshabillé fino al bagno. Si sciacquò la faccia, sfregandola con energia: nemmeno questa notte aveva avuto troppo tempo per dormire. Si domandò se la ragazza del quarto piano fosse davvero arrabbiata con lei, dato che verso le quattro una scarica di colpi aveva fatto tremare il suo pavimento. Era dispiaciuta – ma nemmeno troppo – eppure non poteva farci nulla: la sua compagna di letto era sempre così rumorosa. E chi era lei per negarle un po’ di piacere?
Indossò mutande, reggiseno e maglietta puliti, freschi di lavatrice, per poi accingersi a riempire la caffettiera di polvere di caffè. Qualcosa di forte la mattina presto era l’ideale, siccome nel giro di un’ora avrebbe dovuto presentarsi in università.
La stanza da letto era ancora immersa nella penombra, dunque Monia si aggrappò alla corda in nylon che permise al rullo di avvolgere rumorosamente la vecchia tapparella polverosa, lasciando così la luce del sole pervadesse la stanza.
«Buongiorno!», chiamò a gran voce. In risposta le giunse solo un gemito disperato, poi la ragazza si infilò sotto alle coperte con tutta la testa. Monia rise, ignorandola apertamente, per poi tornare ai suoi preparativi rituali.
Stava giusto buttando il contenitore vuoto dello yogurt nell’immondizia, quando Ambra fece la sua comparsa sulla soglia, il dorso della mano che sfregava pigramente sull’occhio sinistro e la bocca contratta in una deliziosa smorfia imbronciata.
«Guarda che anche tu hai un’università da frequentare», le ricordò Monia avvicinandosi alla piacevole apparizione.
«Storia del diritto non sarà mai attraente quanto te…»
«Non ci provare nemmeno, dovrai aspettare questo pomeriggio», la ammonì puntandole contro l’indice, per poi scivolarle accanto in direzione del bagno. La sua mano destra scivolò distrattamente sul gluteo di Ambra che non trattenne un risolino.
«Moni...»
«No, Ambra, sul serio, è la volta buona che la pazza di sotto viene su e ci sfonda la porta», rise chiudendosi a chiave in bagno, sorda alle proteste della sua ragazza.
 
Non era fisicamente possibile reggere un ritmo del genere: la prima cosa che fece Zoe quella mattina fu appuntarsi in cima alla lista della spesa tappi per orecchie. Se la gestrice del Bordello del quinto piano – come aveva iniziato a chiamarlo tra sé – e i suoi infaticabili amici non avevano intenzione di dormire, be’ lei era decisamente certa di volerlo. Dunque, siccome non poteva interferire con i loro cicli d’accoppiamento poteva però difendersi da essi. Quella notte era stata svegliata più o meno verso le quattro da gemiti disumani e tonfi animaleschi. Era stufa marcia della situazione così aveva tirato fuori la scala dal suo ripostiglio, l’aveva aperta nel mezzo della sua camera da letto e ci si era arrampicata sopra, poi aveva iniziato a prendere a pugni il soffitto. Per qualche istante era calato il silenzio e lei si era ingenuamente illusa – non senza un briciolo di profondo orgoglio – che avessero avuto il buongusto di rendersi conto che l’intimità si chiama così per un motivo. Invece no, la chiassosa danza era ripresa quasi più intensa di prima. Aveva digrignato i denti con tanta forza da farli scricchiolare sinistramente; si era dunque fiondata in cucina per recuperare la scopa e aveva così iniziato a tormentare di botte il soffitto. Era andata avanti per minuti interi, i muscoli delle braccia in fiamme per lo sforzo e la furia, il fiato grosso da toro. Furiosa, ecco cos’era: quella licenziosa inquilina le stava causando spiacevoli disturbi del sonno da quando si era trasferita.
Magicamente, il rumore si era affievolito fino a sparire e lei aveva tirato un profondo sospiro di sollievo: si era addormentata con la scopa ai piedi del letto e la scala ancora aperta in mezzo alla stanza.
Alle nove e mezza era in piedi con due borse violacee sotto gli occhi e i capelli biondi che la facevano assomigliare ad uno spaventapasseri. Si era trascinata come uno zombie nelle sue ciabatte orchesche fino al tavolo della colazione, dove aveva affogato la frustrazione in una tazza di cereali dietetici. Si riattivò con una doccia rapida, indossando calzoncini e maglietta, poi scese le scale per ritirare la posta del giorno prima, che aveva consapevolmente lasciato nella buca, troppo affamata per prestarle attenzione.
Saltellò per le scale – le inseparabili ciabatte sempre ai piedi – fino al pianoterra, dove aggredì la cassetta della posta con l’etichetta color ottone Schneckener – Baudino.
«Non puoi capire quanto è divertente, sul serio: hai presente quando facevi bere il caffè al criceto di tua sorella? È uguale! Tutta tesa, occhi enormi…»
Zoe tese l’orecchio: qualcuno stava scendendole scale, presumibilmente parlando al telefono. Gettò via le pubblicità con le offerte di vari supermercati della zona, il biglietto da visita di un negozio di articoli erotici e un periodico per i donatori di sangue.
«Non capisci, la voglio, è meravigliosa! Poi senti qua…», la voce della ragazza era sempre più vicina, «Alda Beccaria che come il pane la dà via. Pensi che se mi presentassi alla sua porta declamandole questi versi d’amore lei me la…». La ragazza ammutolì non appena la punta dei suoi sandali toccò il pianoterra. Gli occhi di Zoe incrociarono quelli della ragazza che si era appena zittita, rendendosi conto di essere udita da una sconosciuta.
«Ciao», la salutò cortesemente Zoe, sventolando una lettera arrivata dalla banca.
«Eh, eh… ciao». La ragazza fuggì nell’androne e poi nel cortile, cellulare premuto contro la guancia, lasciando dietro di sé una scia di grugniti tra cui Zoe riconobbe senza fatica qualche invocazione blasfema.
Possibile che oltre a vecchie signore che la scambiavano per la sua zia ultraquarantenne, in quell’appartamento vivessero solo ragazze strane?
Scrollando la testa, buste importanti alla mano, risalì le scale: era una persona attiva e sportiva, mai avrebbe preso l’ascensore per raggiungere il quarto piano, nemmeno nella più estrema delle condizioni – come ad esempio un trasporto tempestivo di un pacco da sei bottiglie d’acqua dalla capienza di due litri l’una.
Era appena sbarcata sul pianerottolo del secondo piano, quando aveva udito una voce femminile bisbigliare. «È pazza, te lo giuro, ho paura… No! Io non sono paranoica o apprensiva, né tantomeno psicolabile. Tu non hai sentito cosa diceva, contro chi imprecava!», sibilava la voce. Zoe sospirò alzando gli occhi al cielo, per poi continuare la salita. Incrociò poco dopo la proprietaria della voce, una ragazza con lunghi ricci castani e tondi occhi scuri spalancati che sussurrava in un cellulare compatto dall’aria vissuta.
«Ciao», salutò nuovamente con un sorriso cordiale.
«Ciao», squittì quella trasalendo nervosa, poi fuggì di corsa al pianterreno.
Sì, un condominio di psicopatiche oltre ogni ragionevole dubbio.
 
Anita era coricata sul tappeto nell’ingresso, gli arti allargati in modo tale da essere iscritti in un cerchio come nel famoso disegno delle proporzioni anatomiche ideali. Strano ma vero, stava riflettendo sulla sua tesi di laurea, motivo per cui si era alzata alle sette di mattina e fino alle nove non aveva concluso nulla. Sedersi davanti ad un foglio bianco era deprimente. Perché non si riempiva da solo, magari correggendosi anche automaticamente? Perché non aveva l’Idea, quella geniale intuizione spontanea che ti porta entusiasmo e soddisfazione? Era in balia della banalità quotidiana e ne soffriva.
Decisa che nutrire il ciprino dorato sarebbe stato qualcosa di molto più utile alla collettività di un cadavere sul tappeto. Tredicesimo guizzava beffardo nella sua boccia d’acqua pulita.
«Tieni, sgorbietto», borbottò affettuosamente Anita distribuendo il mangime sulla superficie dell’acqua.
Aveva iniziato l’esperimento il primo giorno in cui si era trasferita in quell’appartamento. Quanti pesci rossi sarebbero sopravvissuti alla sua carriera universitaria?
Primo era vissuto felicemente due mesi, poi era balzato fuori dalla boccia in un momento d’assenza di Anita, che l’aveva trovato, ormai spirato, spalmato sul pavimento della cucina come una fetta di salmone crudo. Secondo, invece, le era durato quasi un anno, il ciprinide più longevo di tutti. Sapeva che quelle bestiole possono vivere diversi anni anche in un acquario domestico, eppure i suoi pesci sembravano divertirsi a morire a ritmo sostenuto. Dunque una settimana prima aveva acquistato Tredicesimo, giusto in tempo per iniziare la tesi di laurea.
Tredicesimo iniziò ad ingurgitare il mangime con la bocca che si apriva e chiudeva ritmicamente sul pelo dell’acqua, le morbide pinne che sbattevano pigramente lungo il corpo lucido per mantenere la posizione.
Sospirando, Anita lo abbandonò alla sua occupazione. Siccome preferiva agire piuttosto che indugiare pigramente sperando che la tesi si sarebbe scritta in autonomia, decise che era tempo di buttare la spazzatura. Si caricò in spalla il sacco della plastica, poi strinse tra le braccia lo scatole colmo di carta, non prima di essersi appesa al polso un sacco con le bottiglie e i barattoli di vetro.
Uscì di casa carica come un mulo e chiamò l’ascensore con il gomito. Vi si infilò dentro appena lampeggiò il segnale verde sulla pulsantiera collocata sul muro accanto alla porta. Dentro la cabina doveva essere passata un uomo impregnato d’acqua di colonia, Anita storse il naso cercando di non respirare. Aprì la porta con un piede, saltellando fuori con una certa difficoltà.
«Non posso urlare, qua si sente tutto, i vicini sono pettegoli… le orecchie hanno i muri! Cioè, i muri… No, non sto facendo il melodramma, te lo giuro!», protestò una vocina concitata che Anita riconobbe: l’aveva sentita il pomeriggio precedente nell’ingresso dell’appartamento di Anne.
«Alda?», domandò quando vide la riccia bisbigliatrice pararsi di fronte a lei, in cima all’ultima rampa di scale.
«Oh, ciao», sussurrò. Poi si schiarì la voce, ripetendo il saluto ad un tono di voce udibile.
«Buona giornata», le augurò Anita mentre Alda la superava, telefonino stretto in mano e ansia nei movimenti.
«Ehm, anche… anche a te!», poi fuggì di corsa oltre il cortile, spalancando con foga il cancelletto e correndo lungo il marciapiede. Sparì all’angolo con via Cesare Musatti.
Anita rimase alcuni secondi interdetta a riflettere su ciò che aveva appena visto, indecisa se apparire sconvolta o rassegnata. Magari avrebbe atteso il ritorno di Nora e Lucia per andare a rifugiarsi a casa loro, tra paste dolci e tazzine di tè, a lamentarsi della tesi che proprio non voleva saperne di scriversi e a progettare qualcosa di emozionante per il prossimo weekend. Le due ragazze avevano un anno meno di lei, eppure Anita le considerava come madri e si sentiva davvero una bambina capricciosa quando si intrufolava tra loro due sul divano la sera, spaparanzate di fronte ad un film romantico o d’azione. Erano la sua famiglia adottiva.
 
Terribile, si era scordata di comprare l’ortica. Domandandosi dove avesse lasciato la testa quella settimana, controllò di stare indossando abiti presentabili – una paio di pantaloni sportivi e un’anonima maglietta bianca erano meglio di quanto si era aspettata – e poi uscì sul pianerottolo. Suonò il campanello della dirimpettaia, supplicando mentalmente qualcuno affinché facesse in modo che Zoe avesse dell’ortica tenera nella dispensa.
«Chi è?», voce attutita oltre porta.
«Sara», cinguettò la ragazza continuando a sperare intensamente.
«Buongiorno», esalò Zoe e Sara notò immediatamente le borse sotto gli occhi. Stava appunto riflettendo su quanto sarebbe stato irrispettoso farglielo notare che quella la precedette riassumendo una lunga notte di sofferenza in quattro parole. «Bordello del quinto piano».
Sara sospirò scrollando le spalle. Era in quei momenti che ringraziava di trovarsi nella parte destra: dall’appartamento sopra il suo non si sentiva volare una mosca. A volte le veniva il sospetto che fosse disabitato: né un tonfo, né una parola a voce troppo alta. Meglio per lei, dopotutto.
«Hai… sei venuta qua per qualche motivo?»
«Ah, sì, giusto! Ehm… ortica, hai dell’ortica?»
«Eh?!»
«Ortica, altra erba…», ridacchiò Sara.
«Io… so cos’è l’ortica, con tutte le volte che ci son rotolata dentro per sbaglio… Ma tu sei un essere umano o un ruminante con quattro stomaci?». Per l’ilarità di Sara, Zoe era molto perplessa.
«Hai mai sentito parlare del risotto alle ortiche?»
«Ah… ma perché non ti fai una pasta con sugo rosso e tonno?», inquisì nuovamente squadrandola con sospetto.
«Perché non ti fai un risotto alle ortiche?», ribatté Sara incrociando le braccia.
«Perché è già un traguardo se faccio una pasta al pesto, ecco perché».
Sara rise di nuovo. «Perfetto, penso che andrò un momento al supermercato… Allora buona giornata!»
«Fai attenzione a mangiare cose strane, neh… Divertiti!», le augurò Zoe ridendo per poi trincerarsi nuovamente dietro la porta blindata.
Sara rientrò in casa per recuperare il portafoglio, sperando che contesse anche qualche banconota oltre agli abitudinari ragni con rispettive tele. Quando fecero capolino dieci euro, la ragazza esultò per la soddisfazione, poi si fiondò giù per le scale troppo iperattiva per attendere l’arrivo di quello stupido ascensore che ultimamente non faceva altro che bloccarsi all’ottavo piano.
«Buongiorno!», cinguettò felice ad una ragazza dai corti capelli scuri che incrociò al terzo piano.
«Salve», replicò quella sorpresa da tanto buonumore.
Premette il pulsante d’apertura della porta d’ingresso, pregustando l’aria fresca del mattino. Uscì respirando a pieni polmoni e stava per chiudersi la porta alle spalle quando un colorito richiamo la fece desistere dall’intento.
«Porco cazzo, no!», una ragazza con una spessa frangia castana, i lunghi e lisci capelli della medesima tonalità erano raccolti in una coda di cavallo.
«Ti lascio…», Sara non poté nemmeno terminare la frase che venne travolta da quell’uragano in jeans e camicetta svolazzante.
«Prego, eh!», le ringhiò dietro ma quella pareva non averla nemmeno sentita. «Fuori di testa, assolutamente fuori di testa».
 
Anne constatò con orrore che l’ascensore era occupato. Augurando ad ogni condomino un viaggio di sola andata nei più disparati gironi infernali, iniziò a salire le scale, quelle maledettissime scale. Aveva dimenticato gli assorbenti di ricambio sul mobile del bagno e senza di essi i suoi jeans si sarebbero trasformati presto in bersagli da cento punti per freccette, o in calamite per tori.
«’Giorno», borbottò incarognita alle due ragazze che incrociò al secondo piano. Stavano confabulando circa lo zerbino.
«Io pretendo di averne uno con i gatti», stava dicendo una delle due.
«Nemmeno per sogno, ci deve essere qualche frase crudele scritta sopra». Non lo disse, ma lei avrebbe preferito una pacchianata natalizia da esporre con particolare orgoglio, soprattutto a Ferragosto.
«Ciao!», esclamarono quelle in coro seguendola con lo sguardo. «Senti, abbiamo bisogno di un parere», le disse improvvisamente la ragazza dagli occhi verdi.
«Ehm… ditemi, ma in fretta perché sono in ritardo per la lezione», concesse tentando di nascondere l’irritazione dietro un sorriso di plastica.
«Non stai andando dalla parte sbagliata?», domandò l’altra ragazza con aria perplessa.
«Prego?», chiese chiarimenti Anne oltremodo scocciata.
«Se stai andando a lezione perché sali le scale?»
Anne aprì bocca per mandarla al diavolo, poi la richiuse. La riaprì solo per rispondere nella maniera più cortese che la sua insofferenza le concedeva. «Mi sono accorta di aver dimenticato una cosa in casa dopo aver percorso con il pullman parte del tragitto».
«Ah…»
«Allora non ti facciamo perdere altro tempo, saremo rapide. Lo zerbino, insomma lo specchio dell’anima: gatti o frase sarcasticamente crudele?»
«Perché non una bella frase scabrosa? È molto più divertente».
«Mmh, ottimo», annuì la ragazza delle domande esistenziali, mentre la tizia con gli occhi verdi annuiva.
«Be’, grata di esservi stata d’aiuto, ora devo proprio scappare», tentò di liquidarle con grazia.
«Certo, certo… è stato un piacere…», intuì che le stava chiedendo il suo nome.
«Anne, io sono Anne».
«Sei straniera?! Ci deve essere anche un tedesco perché ho visto un cognome strano sul…»
«Mia mamma è inglese, mio papà decisamente italiano dato che di cognome faccio Quaglia».
«Perdonala, averla intorno è come dover gestire una bambina di tre anni. Io comunque sono Irene, l’infante è Tallia», presentò se stessa e l’amica la ragazza dagli occhi chiari.
«Scusate ma devo davvero fuggire. Irene, Tallia, alla prossima», e con quella frase voltò loro le spalle e riprese la scalata seguita dai loro saluti e auguri di buona giornata.
«Ci mancavano solo le due mogliettine e il zerbino», ringhiò aggrappandosi al corrimano.
 
Filippo rientrò in casa quella sera all’una di notte passata: era reduce da uno spossante torneo di Munchkin disputato a casa di amici, dal quale era uscito vincitore assoluto nonché marchiato come giocatore più culato della serata. Stava salendo le scale – abitando al secondo piano riteneva ridicolo prendere l’ascensore, nonostante quello ammiccasse la sua presenza al pianterreno tramite la luce verde –quando udì dei rumori a lui familiari ma decisamente fuori luogo considerando dove si trovava. Perplesso s’avventurò in punta di piedi  finché notò con un misto d’orrore ed eccitazione due ragazze che amoreggiavano coricate sulle scale senza alcun ritegno. Erano entrambe innegabilmente attraenti, specialmente la ragazza più minuta, dotata di una enorme massa di fitti ricci scuri; i capelli dell’altra tendevano al ramato ed erano lisci come spaghetti. Avrebbe dovuto scavalcarle per raggiungere il suo appartamento. Scavalcarle. Si avvicinò tossicchiando. Non era certo che le due l’avessero ignorato di proposito, eppure parevano non essersi nemmeno accorte della sua presenza. Decise dunque, il palmo di una mano contro il muro per non rischiare di perdere l’equilibrio e rovinare sulle due amoreggiatrici, di aggirarle con circospezione. Un passo dopo l’altro le superò, lasciandosele alle spalle.
Che fosse la fantomatica inquilina del quinto piano?
Raggiunto finalmente il pianerottolo notò che Irene e Tallia, le sue dirimpettaie, avevano uno zerbino nuovo di zecca che recitava: Tits or GTFO[1]. Iniziò a nascere in lui la forte sensazione d’essere circondato.



[1] Cioè Tits or get the fuck out, ovvero “tette o fuori dalle scatole” è un invito a mostrare il seno o ad andarsene! Molto, molto grazioso. 
   
 
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