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Autore: _hurricane    04/02/2012    10 recensioni
Quando Blaine viene assunto da un ricco signore per dare ripetizioni a suo figlio, non sa ancora che la sua vita cambierà.
Non sa ancora che conoscerà un ragazzo misterioso e bellissimo, la pelle bianca come la neve e troppo fragile per sopportare i raggi del sole. Non sa ancora che si innamorerà di tutti i segreti nascosti nell'abisso dei suoi occhi azzurri.
Questa è la storia di Kurt e Blaine, e di come si sono amati.
"Preoccuparsi della vita di Kurt, del dolore che si nascondeva dentro i suoi occhi, lo aveva fatto sentire per la prima volta come se avesse una missione, un motivo per cui svegliarsi ogni mattina. Ma allo stesso tempo, gli aveva fatto capire chiaramente che prima questo motivo non c’era, e non era un bene.
Non era forse un rischio, un rischio inutile, quando poteva benissimo vivere sereno tra le mura accoglienti della Dalton e lasciare quel ragazzo allergico al calore del sole ai suoi problemi, alla sua vita? Lasciare che passasse il resto dei suoi giorni nel buio, ma quello del cuore e dell’anima?"
Genere: Angst, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri | Coppie: Blaine/Kurt
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Per chi ama, il sole non tramonta mai; per chi soffre, mai spunta.

- Anonimo

 


“Kurt?”

Blaine si richiuse la porta alle spalle, trovandosi ancora una volta avvolto dall’oscurità.

“Perché stai sempre al buio?” chiese, certo che Kurt fosse lì da qualche parte e potesse sentirlo. E infatti, poco dopo, la solita piccola luce nell’angolo si accese e il ragazzo apparve, seduto sul davanzale di pietra, stavolta con lo sguardo già rivolto verso di lui.

“Preferisco fare finta che sia sempre notte, piuttosto che sapere che non lo è. Lo so che è una cosa stupida” disse, mordendosi lievemente il labbro inferiore e stringendosi le ginocchia con le mani.

“Non è stupido” rispose Blaine senza esitazione, le labbra increspate in un sorriso incerto. Ingenuamente, sperava che bastassero cose così piccole per far sorridere Kurt a sua volta. Ma non funzionò. Non aveva funzionato, in quella prima settimana di studio che avevano passato insieme. Al contrario, vide lo sguardo di Kurt farsi subito più intenso e duro, quasi severo.

“Non farlo” gli disse il ragazzo dagli occhi chiari, mentre scendeva con grazia dal davanzale. Blaine sbattè le palpebre e ritrasse leggermente il viso, colto di sorpresa.

“Non fare cosa?”

“Non comportarti come se capissi” rispose seccamente Kurt, mentre si risistemava i pantaloni lievemente sgualciti lungo le gambe snelle. Aveva un tono autoritario, ma Blaine non riuscì ugualmente a sentirsi offeso. Perché in fondo, anche se era scortese dirlo ad alta voce, Kurt aveva ragione: lui non capiva. Forse nessuno capiva.

Ma non sapeva cos’altro fare per avvicinarsi a lui, se non mostrarsi comprensivo. Purtroppo, il confine tra comprensione e compassione poteva essere molto labile, e a quanto pareva era una cosa che infastidiva molto Kurt.

“Scusami” disse quindi, non sapendo che altro dire e sperando che bastasse, che Kurt capisse che era sincero. Kurt sembrò addolcirsi all’istante, forse rendendosi conto di aver esagerato, i suoi lineamenti delicati un po’ più rilassati di prima. Blaine colse l’occasione per cambiare prontamente discorso: “Allora, oggi matematica. Sei pronto?”

Kurt non rispose, rimanendo in piedi a fissarlo in quel modo che riusciva a farlo sentire terribilmente scoperto, come se stesse cercando di decifrare un codice segreto dentro di lui, di leggere i suoi pensieri. Blaine lo fissò di rimando, deglutendo, aspettando che Kurt dicesse qualcosa.

“Sembri diverso” disse infine, una leggera enfasi sulla seconda parola. Allora stava davvero cercando di decifrarlo. Blaine non seppe bene se esserne felice o meno, visto che la consapevolezza di essere così trasparente lo faceva sentire molto vulnerabile; ma almeno, l’esito era stato positivo. Diverso era un bene, giusto?

“Diverso… da chi?” chiese curioso, togliendosi distrattamente la tracolla dalla spalla e avvicinandosi al tavolo che li separava. La poggiò su una sedia e tornò a guardare Kurt, che sembrava dotato di una specie di capacità soprannaturale di non sbattere le palpebre per almeno un minuto buono. Ma sembrava esitante, in quel momento; come se stesse pesando attentamente le parole.

“Dagli altri” rispose semplicemente, come se fosse ovvio, ma con una strana incertezza che lasciò domande inespresse fluttuanti nell’aria intorno a loro. Dopo un po’, Kurt decise di rispondere almeno ad alcune di loro: “Non… non fai domande. A parte quella del buio, intendo. Non sei curioso.”

“Beh, preferisco conoscere una persona a poco a poco, invece che tempestarla di domande. Così è tutto più naturale” rispose Blaine alzando le spalle, pur sapendo che Kurt non parlava esattamente di quello. Anzi, in un certo senso volle risparmiargli la fatica di specificare di cosa stesse parlando, chiudendo l’argomento. Ma Kurt non aveva paura di farlo, sembrava voler condurre il discorso in una precisa direzione.

“Non parlo di quello, di conoscerci. Lo sai.”

“Io invece sì” rispose Blaine, un accenno di sicurezza nella sua voce. “Mi rifiuto di credere che una malattia definisca una persona. Perché dovrei fare domande?”

Kurt fece un piccolo sbuffo, come se Blaine avesse appena fatto una domanda ovvia, e alzò le spalle, roteando gli occhi.

“Perché è una cosa talmente rara, particolare. Rende le persone curiose.”

“Io sono curioso… di conoscerti” disse Blaine, alzando le spalle a sua volta. “Tutto qui.”

Se avesse detto a Kurt che voleva aiutarlo, forse sarebbe stato frainteso. Forse Kurt avrebbe pensato che ci fosse qualcosa di sbagliato in lui, che Blaine lo guardasse con occhi diversi, allo stesso tempo uguali a quelli di tutte le altre persone che tanto disprezzava. E non poteva bruciare così quell’occasione, gettare al vento quell’accenno di fiducia che Kurt sembrava nutrire per lui, forse per istinto o forse per un’attenta analisi che soltanto lui poteva realmente capire.

“Allora sei davvero diverso” rispose Kurt, gli occhi un po’ più luminosi. Un piccolo bagliore, quasi incerto, capace di estinguersi in qualsiasi momento; quello tipico che ha nello sguardo chi sta per sorridere. Blaine si chiese se volesse farlo, senza riuscirci, o se ne fosse perfettamente in grado ma non volesse, come se nessuno al mondo lo meritasse. Si chiese cosa fosse peggiore, e si chiese se, nel secondo caso, lui avrebbe mai potuto meritarlo.

“Diverso è un bene, giusto?” disse, prendendo posto alla sua sedia e tirando fuori un libro dalla sua tracolla. Kurt si sedette dall’altro lato del tavolo, facendo scomparire le sue mani al di sotto.

“Sì. Direi di sì” rispose. E quando alzò lo sguardo verso Blaine, quel piccolo bagliore c’era ancora.

 


 

Quando finirono di studiare, Blaine si apprestò a sistemare tutte le sue cose nella tracolla per andarsene, ignorando silenzioso il modo in cui Kurt lo stava guardando. Sembrava sul punto di dire qualcosa da almeno un minuto ormai, ed era chiaro che aveva bisogno del suo tempo. Così, con misurata lentezza, Blaine ripose l’ultimo foglio in borsa e fece per alzarsi.

“Blaine?” disse finalmente Kurt, la voce più debole di quanto l’avesse mai sentita.

“Sì?” rispose Blaine, alzando la testa quasi con fare distratto, come se non sapesse che doveva trattarsi di qualcosa di importante.

“Puoi…” – Kurt deglutì, abbassando lo sguardo per un secondo – “…puoi farmi domande. Se- se vuoi.”

Blaine rimase a mezz’aria, né seduto né in piedi del tutto, e lo fissò. Perché sì, era vero, aveva delle domande. Chi non le avrebbe avute? L’idea che Kurt fosse pronto, anzi desideroso, di aprirsi a lui in così poco tempo, lo rese quasi euforico e scombussolato allo stesso tempo, facendogli girare la testa. All’improvviso, turbinarono nella sua mente così tante frasi da poter dire che non seppe da quale iniziare, per paura di sembrare troppo entusiasta davanti a quella concessione.

E se Kurt avesse pensato che non aspettava altro? Se avesse pensato che non era diverso affatto?

Eppure, stava continuando a guardarlo con aria quasi speranzosa, come se avesse paura di essere rifiutato. Come se Blaine avesse il potere di deluderlo, dicendogli che non era interessato abbastanza da fare domande.

“Va bene” rispose, tornando nuovamente a sedersi e appoggiando la tracolla allo schienale della sedia. Distolse lo sguardo, il tempo necessario per riordinare le idee.

Ti senti solo, Kurt? Sei infelice?

Perché lo sono anch’io, lo sai?

Si rese conto che era quello che avrebbe voluto chiedere, perché era la verità. Il fatto che gli piacesse la sua vita non lo rendeva automaticamente felice. Appagato, forse, e soddisfatto di quello che aveva, ma non come qualcuno che aveva tutto ciò che poteva desiderare: come qualcuno che sapeva di avere abbastanza. Abbastanza da sorridere con facilità, abbastanza da trovare il tempo di interessarsi dei problemi degli altri, come in quel momento; abbastanza da vivere serenamente.

Ma ciò che aveva sempre cercato di ignorare, ciò che giaceva sepolto dentro di lui come un ronzio in attesa di venire allo scoperto e travolgerlo, gli era apparso chiaro quando aveva visto Kurt per la prima volta: non era felice. Non viveva di intense emozioni, che fossero gioie o che fossero dolori; viveva e basta, e per cosa? Non lo sapeva.

Non lo sapeva ed era così frustrante non saperlo. Così snervante, sapere che un senso doveva pur esserci, doveva per forza, perché altrimenti qual era il punto?

Preoccuparsi della vita di Kurt, del dolore che si nascondeva dentro i suoi occhi, lo aveva fatto sentire per la prima volta come se avesse una missione, un motivo per cui svegliarsi ogni mattina. Ma allo stesso tempo, gli aveva fatto capire chiaramente che prima questo motivo non c’era, e non era un bene. Perché Kurt era praticamente uno sconosciuto, e poteva davvero affidare a tal punto la sua vita ad uno sconosciuto, per giunta ignaro dell’importanza che aveva improvvisamente assunto, ignaro di quanto valore avessero le sue parole e di quanto contasse per Blaine il sorriso che non voleva concedergli?

Ignaro del fatto che da qualche giorno a quella parte, Blaine si svegliava sperando di poterlo vedere sul suo viso e scoprire che sapore avrebbe avuto il mondo l’attimo dopo?

Non era forse un rischio, un rischio inutile, quando poteva benissimo vivere sereno tra le mura accoglienti della Dalton e lasciare quel ragazzo allergico al calore del sole ai suoi problemi, alla sua vita? Lasciare che passasse il resto dei suoi giorni nel buio, ma quello del cuore e dell’anima?

Sì, Blaine aveva tante, troppe domande. E nessuna, nessuna aveva a che fare con la malattia di Kurt. Avevano a che fare con Kurt, quale fosse il suo colore preferito, quali fiori preferisse dipingere – e gli piaceva dipingere fiori? – e quali canzoni preferisse suonare, e se avesse mai sorriso prima di incontrarlo, se avesse iniziato e poi smesso, e chi era che ci era riuscito? Chi l’aveva fatto smettere? Chi gli aveva fatto credere che non ci fosse luce nel mondo, all’infuori di quella di uno stupido astro del cielo?

E a Kurt era mai battuto il cuore per qualcuno? E gli si erano mai illuminati gli occhi, come qualche ora prima, per qualcuno che non era lui?

Ma alla fine, Blaine sapeva benissimo di non poter fare nessuna di quelle domande; sia perché erano fuori luogo, sia perché lui stesso non voleva farle, sapendo che una volta avute le prime risposte ne avrebbe voluto altre, e altre, e poi altre ancora. Forse era meglio lasciarle inespresse, lì dov’erano, nella sua mente.

Lasciare che vorticassero l’una intorno all’altra come foglie giallastre cadute dagli alberi in autunno, prima di accasciarsi sull’asfalto, ammassate e confusionarie, e poi appassire e raggrinzirsi. Scomparire. Fondersi con il terreno come se non fossero mai esistite aspettando che la neve dell’inverno le ricoprisse, soffocandole del tutto e mettendo a tacere ciò che ancora, pur sepolto, potevano cercare di gridare dalla terra.

E poi, in primavera, foglie nuove, fresche e verdi sarebbero nate dai rami degli alberi, diverse per aspetto, forma e colore. E forse quelle non sarebbero nate per Kurt. Forse l’inverno ormai alle porte avrebbe messo a tacere tutte quelle voci, troppo affrettate, troppo insensate, troppo tutto.

Era quello il problema: mentre la sua vita gli era sembrata fino a quel momento monotona, sì, ma accettabile, all’improvviso, in pochi giorni, stava smettendo di esserlo. Guardare Kurt… era troppo. Era strano, era diverso, era… dio, era intenso e niente lo era mai stato, non così. Niente, nella sua vita, era riuscito a stregarlo a tal punto.

E non si trattava solo di quando i loro sguardi si incontravano; quello, Blaine avrebbe potuto anche capirlo.

Era intenso anche solo guardarlo. Kurt era di un altro mondo.

E quell’intensità, quel calore, quell’emozione terrificante lo fecero pietrificare lì, in quel preciso istante, e domandarsi Blaine, cosa stai facendo?

Così, fece tutte le domande sbagliate. Giuste, perché erano a modo, avevano senso e coerenza ed erano forse ciò che Kurt voleva che lui chiedesse. Ma sbagliate, così sbagliate.

“Sei… sei così da sempre?” fu quella con cui iniziò.

“Sì, da quando sono nato” rispose Kurt, picchiettando distrattamente sul legno del tavolo con le dita mentre sosteneva il suo sguardo. Blaine si chiese se riuscisse a leggergli dentro anche in quel momento, sapendo esattamente che quella era l’ultima domanda che avrebbe voluto fargli.

“Quindi non sei mai uscito da questa casa di giorno?” continuò, imperterrito.

A quella domanda, Kurt esitò. Fu un fremito, un brivido quasi impercettibile, ma si ricompose subito.

“No” rispose seccamente, la mascella più rigida. Blaine deglutì, chiedendosi se quella conversazione potesse davvero fare bene all’amicizia che stavano lentamente creando dal nulla, invece di peggiorare la situazione e allontanare Kurt ancora di più. Ma decise di continuare, almeno per un po’. Fiondarsi in quel discorso perché aveva senso, ed era reale, poteva gestirlo perché era reale e normale provare quel tipo di curiosità. Kurt glielo stava permettendo.

“E non hai mai parlato con qualcuno come te?” gli chiese d’istinto. Pensò che potesse essere una domanda innocua, forse la più irrilevante fatta fino a quel momento; ma si sbagliava. Kurt si irrigidì all’istante, diventando leggermente più pallido del solito.

Il suo sguardo quasi trasparente, dentro il quale avrebbe voluto annegare, vacillò per un attimo come se fosse davvero fatto d’acqua, come se potesse davvero incresparsi per la brezza della sera come quella del lago accanto al quale Blaine lo aveva visto per la prima volta. Come se Blaine, passandoci sopra la mano con delicatezza, avesse potuto delinearvi piccoli cerchi concentrici per poi vederli svanire pigramente sotto le sue dita.

Quando tornò ad essere immobile, fisso su di lui, era tagliente come ghiaccio e gli strinse il cuore in una morsa.

“Mia madre era come me.”

Blaine sgranò gli occhi. Era.

Perché non si era chiesto prima il motivo dell’assenza di una donna in casa? Kurt poteva avere dei genitori separati, era vero, ma dannazione. Troppo preso dal senso di colpa, intento a formulare qualcosa di sensato da dire, non si concentrò molto sulla seconda parte della frase, anche se ugualmente importante. La malattia era genetica, aveva senso.

Ma la madre di Kurt era morta e lui aveva fatto una domanda così stupida, portandolo esattamente a quella risposta e facendo in modo che ricordasse, e lo sguardo di Kurt era già lontano, inafferrabile, poteva sentirlo scorrere tra le dita come gocce di pioggia scrosciante che non avrebbe potuto trattenere e custodire.

“Mi dispiace” disse, prendendosi mentalmente a schiaffi per la risposta. Il trionfo della banalità, la sua voce mortificata e piena di compassione, a Kurt non avrebbe fatto piacere. Ma a quanto pareva, Kurt aveva la mente troppo distante ormai, persa chissà dove, e non sembrò curarsi molto del suo tono. Blaine si chiese a cosa stesse pensando; anzi, lo sapeva: a sua madre.

Così si chiese come e quando fosse morta, se fosse quello il motivo della sua tristezza, il principale almeno. Che tipo di persona fosse, se gli somigliasse almeno un po’. Se fosse bella da far piangere, in modo così intenso e straziante da essere allo stesso tempo meraviglioso, incomprensibile e spaventoso.

All’improvviso, Kurt sbattè le palpebre, come se fosse appena tornato alla realtà da un’allucinazione.

“Sono io che ti ho dato il permesso di chiedere” disse, ma sembrava distratto, come se la questione non importasse più e avesse qualcosa di impellente da fare. “Non importa.”

Blaine aprì la bocca per dire qualcosa, pur non sapendo cosa, ma Kurt riprese: “Ora è meglio che vada. Ci… ci vediamo domani.”

E senza guardarlo negli occhi, si alzò, girò i tacchi e raggiunse a grandi passi la sala hobby. Blaine lo osservò mentre apriva la porta e se la richiudeva frettolosamente alle spalle, restando lì, fermo, senza sapere bene cosa fare né cosa pensare.

Non era riuscito nemmeno a cogliere il suo sguardo mentre si girava per chiudere la porta. Era scorso via, come la pioggia.

Forse aveva rovinato tutto, tirando troppo la corda. Forse Kurt si sarebbe chiuso di nuovo in se stesso, a causa di brutti ricordi che lui aveva risvegliato con le sue stupide domande.

Stupide, stupide, stupide, ma lo erano più di quelle che avrebbe davvero voluto fare?

Mordendosi il labbro e frenando l’impulso di raggiungere la porta e bussare, Blaine si alzò e lasciò la stanza, sapendo benissimo, e tristemente, dove sarebbe andato per non doverle più sentire.

 


 

Baci, e lingue, e morsi, e “Oh, Blaine” mentre respiri affannati si sovrapponevano l’uno all’altro nel silenzio.

Ti prego, più forte, più forte, riesco ancora a sentirle, a sentirlo.

Non bastava. Non più. Più Blaine cercava di aggrapparvisi, più si rendeva conto che non era niente, che non serviva a niente, e mentre il suo nome lasciava quelle labbra ora premute sul suo collo, macchiato dall’estasi del momento e dall’odore sbagliato con il quale avevano impregnato la stanza, si chiese che suono avrebbe avuto sulle labbra di Kurt, intonato dalla sua voce perfetta come fosse una canzone mentre le sue dita danzavano sui tasti bianchi di un pianoforte.

Faceva così paura, provare così tanto e tutto insieme. Non gli era mai successo ed era terrorizzato, e fino a quel giorno, fino a quel momento, la sola intensità che aveva provato era quella di un corpo caldo sopra il suo e mani che lo esploravano cariche di desiderio, quelle stesse che gli tenevano i fianchi stretti in una morsa ancorandolo ad una realtà, un presente, che non contavano più niente.

“Blaine…”

Smettila, smettila di parlare, di baciare, di toccare, smettila.

Come se l’avesse detto ad alta voce e fosse stato magicamente ascoltato, Blaine si rese conto che era finita, era finito tutto e non si era neanche accorto del suo stesso piacere. Perché era vuoto, come tutto il resto.

Dio, ma come aveva fatto? Come aveva fatto a dare ad un’altra persona così tanto potere? Kurt non aveva neanche idea di quello che gli passava per la testa, era sicuramente l’ultima delle sue preoccupazioni, e lui era ridotto ad un ammasso di niente, su lenzuola disordinate, sporche, calde eppure fredde, a domandarsi se in quel momento lo stesse pensando almeno un po’, immobile con il pennello a mezz’aria davanti ad una tela bianca tutta da inventare, magari senza idee, senza ispirazione, oppure con un’immagine in testa che non riusciva a mettere a fuoco.

E allora si sarebbe concentrato per pensare a come fare, mordendosi leggermente il labbro inferiore come aveva fatto due giorni prima per quell’equazione, una ciocca che cadeva silenziosa sulla sua guancia per poi essere distrattamente messa a posto; poi si sarebbe accorto di essere guardato, arrossendo leggermente ma senza sorridere, nemmeno un po’, neanche un accenno, e poi –

“Blaine?”

Blaine guardò quegli occhi chiari che aveva a pochi centimetri dai suoi, domandandosi perché il loro sguardo non fluttuasse come acqua mossa dal vento. Domandandosi che accidenti ci facesse ancora lì.

Domandandosi se, alla fine, Kurt fosse riuscito a tingere la tela di colori intensi e vivi senza rendersene conto, proprio come aveva fatto con il suo cuore.

 


 

Kurt si chiuse la porta alle spalle, accasciandosi su di essa con la schiena e chiudendo gli occhi. Inspirò profondamente, aspettando di sentire una sedia muoversi nell’altra stanza, strisciando sulla dura pietra, e la porta della sua camera aprirsi e poi richiudersi. Quando accadde, riaprì gli occhi e si diresse a grandi passi verso la tela centrale, il desiderio di dipingere che si impossessava di lui come faceva sempre quando qualcosa non andava, quando si sentiva sopraffatto dalla solitudine, dalla rabbia o dal ricordo, come in quel momento.

Prese un pennello e la tavolozza con i colori più scuri e freddi dalla sua scrivania disordinata, per poi posizionarsi davanti alla tela. Solitamente, quando si ritrovava a pensare a sua madre, dipingeva paesaggi tinti di azzurro e blu, come quegli occhi che aveva ereditato insieme alla sua pelle, alla sua condanna.

Colline simili ad onde di un mare in tempesta, alberi spogli ed essenziali come quelli di navi sballottate qua e là nella burrasca, i tratti netti e frettolosi, dettati dall’istinto.

Spesso, troppo spesso, i quadri smettevano di avere una consistenza precisa trasformandosi in ammassi di sensazioni e pensieri; il giorno seguente, riguardandoli, Kurt finiva per buttarli nell’immondizia la maggior parte delle volte soltanto per non doverli più vedere, perché per quanto fossero confusionari e privi di senso, mettevano tutto a nudo in un modo in cui solo l’arte poteva fare, senza bisogno di parole e persino di immagini, a quel punto. Gli mostravano con sconcertante chiarezza il caos che aveva dentro da quando lei se n’era andata, lasciandolo solo in un mondo che non lo capiva e che lui non capiva, un mondo che girava senza sapere neanche della sua esistenza perché era come se Kurt non esistesse.

Perché chi lo avrebbe ricordato, quando anche suo padre sarebbe morto? Il suo maggiordomo? La sua casa? I prati del suo giardino, le stelle del cielo che non gli somigliavano, non lo avevano mai fatto, oppure i fogli privi di senso sparsi sul pavimento e i colori incrostati sul manico dei suoi pennelli?

Kurt era nato nel buio e nel buio sarebbe tornato, era fatto di buio e non voleva più vederlo, non su quella tela. Non quando, almeno per una volta, poteva gettarlo via e fingere di non averlo mai dipinto e mai conosciuto.

Eppure, in quel momento, si ritrovò senza sapere cosa dipingere. Abbassò lo sguardo sui colori e si rese conto che non andavano bene. Così, senza pensare, posò la tavolozza e ne prese un’altra.

Rosso, arancione, tinte di ocra e giallo intenso fino ad arrivare ad accenni di marrone chiaro. Kurt le guardò e si chiese cosa stesse facendo. Si chiese perché le stesse usando.

Soltanto dopo aver finito, facendo un passo indietro e guardando con attenzione le linee contorte che aveva dipinto con quei colori, si rese conto di aver provato a combinarli per creare quello di due occhi chiari, luminosi e belli come il sole che non gli era concesso di vedere, senza esserci riuscito.

 

 

 


 

 

Se Blaine vi sembra troppo paranoico, è semplicemente perchè io lo sono, e in qualche modo finisico sempre per trasmettergli qualcosa di mio quando scrivo. So che può sembrare tutto affrettato da parte sua ma è proprio questo il punto: lo è, ed è per questo che fa paura.


Nel prossimo capitolo:

Mentre Blaine affronta il peso dei suoi sentimenti, Kurt affronta quello dei ricordi.

 

 

 

   
 
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