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Autore: Sylphs    05/02/2012    5 recensioni
Sei mesi dopo la notte del don Juan, una giovane pianista un po' inopportuna arriva al teatro dell'Opera per seguire delle lezioni...ma un misterioso e ambiguo incidente capitato durante una rappresentazione la porterà ben presto a indagare sull'esistenza del temibile Fantasma dell'Opera e una domanda opprime l'animo di tutta la compagnia: è realmente scomparso, oppure la loro era solo una speranza vana?
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Dove una sinfonia solitaria si trasforma in un accordo conveniente
 

 
 
 
 
La tenda color porpora ricadde alle spalle di Vivian con un fruscio, occultando il salone principale della Dimora sul Lago, e l’imponente letto a baldacchino protetto dalla riproduzione del cigno in volo la accolse nel suo morbido abbraccio, proteggendola dal freddo. Si avvolse nelle coperte come in un bozzolo e tirò la cordicella che pendeva alla sua destra, lasciando che le cortine nere si srotolassero intorno a lei.
Che cosa l’aveva tanto colpita del volto del Fantasma dell’Opera?
Non riusciva a togliersi dalla testa l’immagine di quelle piaghe che gli deturpavano orribilmente la parte destra del viso, partendo dalla mascella e arrampicandosi come una tenace edera avvizzita fino all’ampia fronte, dove crescevano le ondulate ciocche castane. Non aveva mai contemplato, prima d’ora, dei lineamenti così sciaguratamente segnati dal fato, e una deformità a tal punto crudele e bizzarra: su di lui faceva l’effetto di un tumore maligno che gli aveva corrotto soltanto un lato di una faccia che, se fosse stata integra e sana, sarebbe apparsa avvenente, distinta e fiera. Egli aveva un fisico alto e muscoloso, occhi che sembravano di zaffiro e una pelle che, laddove non era contaminata dall’orrore, risultava liscia e morbida, senza un solo accenno di ruga. Sarebbe stato bellissimo, se solo il malevolo difetto non l’avesse oppresso.
Ecco dunque svelato l’arcano, il motivo per cui compariva in pubblico con l’onnipresente maschera bianca a coprirgli le orrende cicatrici: non la indossava per incutere paura, per rendere più netta la sua somiglianza con un essere soprannaturale o per completare il suo travestimento…egli si vergognava di mostrare al mondo il proprio aspetto demoniaco. E aveva tutte le ragioni per farlo, in effetti, poiché la maggior parte della società si sarebbe convinta che una tale mostruosità, peraltro radicata in lui dalla nascita, fosse un marchio che il Diavolo aveva voluto lasciare a quell’uomo per farne un suo discepolo. Tutto, in lui, sembrava suggerire un’origine diabolica: quelle piaghe, l’inumana bravura nel mescere le note e creare meravigliose sinfonie, la voce d’angelo che toccava i recessi più profondi dell’anima, le iridi scintillanti pari a quelle dei gatti…al volgo sarebbe bastato questo per linciarlo e bruciare sul rogo lui e le sue ardenti composizioni.
Tuttavia Vivian, suo malgrado, pensava che uccidendolo il mondo avrebbe perduto più di quanto avrebbe guadagnato. Egli era sì un genio folle e una creatura che si nutriva dell’oscurità e della solitudine di quella caverna sotterranea per sopravvivere, ma non era Satana colui che gli aveva fatto dono di quella voce celestiale e di quella destrezza innata nel musicare i sentimenti più profondi e potenti. Esse erano troppo intense, commoventi e trascinanti per non rivelarsi un’opera di Dio.
Se la sua faccia fosse stata tutta quanta sana e orgogliosamente affascinante, nessuno l’avrebbe mai chiamato “Figlio del Diavolo”, ma sarebbero accorsi da ogni parte del mondo, dall’Italia, patria delle belle arti e dall’Oriente, terra delle spezie e del caldo perenne, per ascoltare il suo canto e godere del suo dono divino. Il suo nome, che la ragazza neanche conosceva, sarebbe stato motivo di reverenza e di ammirazione, avrebbe fatto il giro del pianeta e sarebbe stato sulla bocca di re, ministri e aristocratici…ed era sicura che lui, in quel caso, non si sarebbe mai trasformato in un crudele ed efferato assassino, non sarebbe ricorso alla sua falsa identità di fantasma per vendicarsi dei torti subiti…sarebbe stato un uomo ricco e normale, con un bel palazzo, una schiera di servitori e magari una moglie graziosa e soddisfatta a cui avrebbe dedicato il frutto della sua mente geniale. Non sarebbe stato costretto a rapire una bellissima cantante e a trascinarla là sotto con la forza per ottenere da lei un minimo di considerazione, non si sarebbe ridotto a tenere in casa una sua perfetta riproduzione in cera, in assenza della Christine in carne ed ossa. Sarebbe stato un’artista di fama internazionale e un uomo felicemente sposato, con dei principi, se la Natura incomprensibile l’avesse ricoperto di bellezza completa, anziché di putredine.
Ma perché si scervellava ad immaginare ciò che sarebbe potuto essere, ma che non era stato? A cosa serviva indulgere in ipotesi che non si sarebbero mai potute verificare? Il Fantasma dell’Opera era sì infelice e sventurato a causa della sua deformità, ma questo non lo assolveva certo dai suoi crimini. Credeva d’avere il diritto di uccidere tutti coloro che lo intralciavano o che disprezzava, solo per l’aspetto della sua faccia? Vivian detestava ammetterlo, ma averlo veduto com’era realmente aveva sbollito parte della rabbia e dell’astio che gli portava, però non doveva dimenticare che restava comunque un assassino, e che un assassino meritava d’essere punito. I motivi per cui aveva compiuto i suoi delitti non erano importanti; le sue vittime non avevano alcuna colpa di ciò che gli era accaduto. E lei avrebbe portato a termine l’obiettivo che si era prefissata senza lasciarsi rammollire da sciocca compassione.
Lo scroscio dell’acqua del lago che veniva smossa dal remo e il cigolio della gondola che si staccava dal molo l’avvertirono che il Fantasma dell’Opera aveva appena abbandonato la sua dimora sfruttando la via meno intricata. Era sola in quel luogo oscuro per la prima volta da quando vi si era stabilita e credeva di intuire il motivo per cui il suo ospite aveva deciso di allontanarsi per qualche tempo: senza dubbio, quella di poco prima era stata un’esperienza nuova anche per lui. Doveva interpretarlo come un segno di fiducia, come un passo avanti nella buona riuscita del suo piano? Forse no. Forse era assai più plausibile che egli le avesse mostrato il suo volto per sfidarla e vedere come avrebbe reagito. In quel caso, si era comportata bene? Lo aveva colpito positivamente? Un mistero. L’uomo per lei restava tuttora un enigma, i suoi modi controllati e folli allo stesso tempo la confondevano e le rendevano arduo farsi un’idea concreta su di lui.
Ad Annecy le era capitato più di una volta d’incontrare uno storpio o un individuo oppresso da menomazioni fisiche, ma nessuno di loro assomigliava solo vagamente al Fantasma dell’Opera. Per lo più si trattava di disperati senza casa né denaro, di mendicanti tutt’ossa che chiedevano la carità agli angoli delle strade e bruciavano il guadagno giornaliero alla taverna locale, e non si curavano minimamente di loro stessi e di come apparivano. Il geniale musicista era tutto il contrario: malgrado la condanna delle piaghe, si indovinava perfettamente, osservandolo, che teneva al proprio aspetto. I suoi capelli erano quasi sempre pettinati e acconciati, il suo abbigliamento era costoso e ricercato e si sbarbava con cura ogni giorno. Quando le si era avvicinato molto, ormai quattro giorni prima, aveva perfino avvertito su di lui una fragranza assai piacevole, non eccessiva e pacchiana come certi profumi di cui si cospargevano pomposi gentiluomini, ma discreta e ammaliante. Senza esagerare nella cura di se stesso, l’uomo riusciva a sembrare elegante in maniera affascinante e ricercata.
Forse s’era persuaso a voler diventare del tutto un mostro, ma tale mostruosità non risiedeva all’esterno. E questo era un punto a suo favore: se per disgrazia Vivian si fosse rovinata il viso allo stesso modo, molto probabilmente si sarebbe lasciata andare del tutto. Quella del Fantasma dell’Opera era una maniera come un’altra di affrontare la cosa. E la gran quantità di libri che affollava la sua dimora, unita agli splendidi strumenti che egli aveva costruito di suo pugno e ai rotoli di pergamena per scrivere, le faceva supporre che con quei pochi averi aveva cercato di crearsi un suo piccolo, notevole mondo privato.
Sarebbe stato un individuo degno di ogni ammirazione, se solo non avesse permesso all’odio e alla sete di vendetta di corrompergli l’animo.
Appesantita dalle proprie elucubrazioni e congetture, la ragazza si alzò dal letto e tirò fuori dal cassetto interno del suo tavolino da lavoro le pagine che aveva riempito con la sua prima vera composizione. Leggendo distrattamente il loro contenuto, uscì dalla sua stanza senza timore, rassicurata dall’assenza del Fantasma dell’Opera (doveva assolutamente scoprire il suo nome) e si mise a passeggiare nell’ampio salone principale, i piedi nudi e infreddoliti che si appoggiavano sulla pietra umida e liscia e la gonna dell’abito verde che la seguiva frusciando. Era contenta di potersi aggirare liberamente per la Dimora sul Lago senza incappare nell’ira del suo proprietario, inghiottito insieme alla gondola dalla fitta cortina di nebbia che aleggiava sulle acque oscure.
“Mi farei volentieri un bagno, se solo la temperatura non rasentasse l’ipotermia” pensò con rammarico. Malgrado ciò, discese sulla riva di quello che il suo ospite chiamava “lago Averno” (aveva notato che si riferiva più volte al regno di Satana e a tutto quello che vi era legato) e sollevò la gonna di appena qualche centimetro, immergendo i piedi. Il freddo artico le bloccò la circolazione e le sollecitò un lungo brivido simile alla puntura di uno spillo, ma gradualmente si abituò alla morsa dell’acqua e smise di soffrirne tanto. Anzi, il gelo che essa le trasmetteva alle ossa irrigidite la aiutava a ridefinire la realtà in tutte le sue sfumature e a scacciare la confusione che la vista del volto dell’uomo aveva scatenato in lei.
Chiuse gli occhi, senza smettere di camminare con l’acqua che le lambiva le caviglie e le inzuppava l’orlo del vestito, e si rammentò con una morsa di nostalgia del fiume che scorreva nei pressi di Annecy e delle tante gite che insieme al padre aveva fatto nei paraggi. Avrebbe voluto averlo vicino, ora più che mai. Domandargli cosa avrebbe fatto al suo posto, e come sarebbe venuto a capo di quell’impiccio senza che si tramutasse in un’arma a doppio taglio. In quei giorni le era spesso accaduto di cadere preda di improvvise crisi di sconforto e di perdere fiducia in ciò che stava facendo; come poteva una semplice ragazza di campagna come lei riuscire a ingannare il Fantasma dell’Opera? E se lui l’avesse smascherata, cosa le avrebbe fatto? Non aveva dimenticato il divino furore con cui l’uomo aveva cantato l’ira di Otello e il sentimento che aveva messo in quei lamenti mentre il moro si avventava sull’indifesa Desdemona, e non aveva dubbi sul fatto che avrebbe potuto facilmente dirigere quella stessa furia su di lei, se si fosse scoperto tradito… il ricordo dei suoi ardenti occhi stravolti di rabbia e delle sue eleganti mani che laceravano la bambola con le sembianze di Christine era più vivido che mai.
Per quanto si mostrasse in ogni situazione padrone di se stesso e delle sue azioni, le aveva dimostrato che quell’apparente freddezza poteva mutarsi, sotto l’influsso del dolore e della rabbia, in una bestialità da predatore.
Doveva muoversi con cautela scrupolosa e impedire con ogni risorsa di trasformarsi nella sua preda inerme. In caso contrario, la sua fine sarebbe stata analoga a quella dell’infelice Desdemona e del pupazzo di Christine.
Riaprì gli occhi, passandosi una mano sulla fronte per allontanare quelle paure, e vide il pianoforte.
Non l’aveva mai notato in precedenza, il che era insolito. Ma forse, camminando sulla riva del lago con le palpebre abbassate, era penetrata in quella sezione del salone in cui le candele scarseggiavano e in cui l’oscurità era più profonda. Era collocato su di una pedana rialzata, di modo che l’acqua non potesse sfiorarlo, ed era notevole quanto e più dell’organo, con tasti di avorio che sembravano attendere unicamente il tocco di abili dita e pedali dallo scintillante colore dorato. Uno sgabello foderato di velluto rosso era accostato alla tastiera e il leggio non presentava alcuno spartito.
Vivian si fermò nei pressi, titubante, e toccò il legno verniciato di nero di cui era fatto con timore reverenziale. In mano teneva ancora, ben stretti, i fogli su cui aveva scritto note balenatele alla mente in seguito agli insoliti avvenimenti di quei giorni. Sarebbe stato tanto brutto, se avesse…
…ma d’altronde il Fantasma dell’Opera se n’era andato, quindi non si sarebbe potuto né arrabbiare né indispettire se lei avesse utilizzato per qualche minuto il suo strumento. Non si sarebbe trattenuta più di un quarto d’ora, e se ne sarebbe tornata in camera subito dopo. Che c’era di male, in fondo? Erano più di quattro giorni che non toccava più un tasto; le mancava la sensazione di piacere che accompagnava le sue suonate e la lieve pressione del piede sul pedale quando voleva enfatizzare alcuni passaggi. E sarebbe stato interessante suonare per la prima volta la sua composizione e vedere cosa ne sarebbe venuto fuori.
Rompendo gli ultimi indugi, appoggiò i fogli ricoperti della sua disordinata calligrafia sul leggio e sedette sul morbido velluto dello sgabello, sistemandosi la gonna nella maniera più comoda per lei e facendo scorrere le dita con timore sulla tastiera, senza indugiare su alcuna nota. Il contesto, c’era da dirlo, era il migliore che si potesse immaginare per un’esibizione importante: intorno a lei regnava il silenzio più assoluto, ogni cosa pareva congelata nell’attesa che la musica s’insinuasse nell’aria e gli archi di luce delle candele rilucevano sulle pareti e sull’acqua del lago, riempiendola di riflessi. Poteva perfino immaginare d’essere una pianista di gran fama e d’avere dinnanzi, poiché non distingueva quasi nulla, una platea gremita di volti rapiti e di sguardi assorti. Sarebbe stato un sogno, nulla più, dal momento che l’unica vera artista in famiglia era stata sua madre, ma perché non comportarsi infantilmente, per una volta, e concedersi di assaporarlo proprio perché era tale? Non era forse, tutta quell’assurda situazione, una sorta di sogno?
Godiamocelo, quindi. Lei era la più celebre pianista mai esistita al mondo, Vivian Genévieve Leroix (era quello il suo vero cognome, quello ereditato da suo padre, ma a Parigi s’era stabilito che dovesse chiamarsi Carré come Amélie per sfruttarne l’antica fama), non aveva alcuna rinomata cantante in famiglia e stava per esibirsi in un pezzo inventato di fresco, uno dei suoi ultimi successi. Era arrivata gente da tutto il mondo, nobili, borghesi, politici ed ecclesiastici per avere l’onore di ascoltarlo per la prima volta ed era della massima importanza non commettere alcun errore e non sfigurare davanti a loro. Avevano grandi aspettative circa la sua esibizione; Vivian li sentiva bisbigliare nell’oscura platea ed elogiarla per il suo glorioso passato, per la sua stupefacente bellezza e per le sue onorevoli origini. Già, perché suo padre, Vincent Leroix, nativo di Annecy, aveva sposato una ricca contessa e ne aveva ereditato il titolo, e dalla loro felice unione era nata lei, pupilla di entrambi i genitori e talento naturale per tutto ciò che riguardava la musica. Il Marchesino Antoine Baptiste Rappenau aveva speso una fortuna per poterla ascoltare quella sera, ma lei aveva fatto sapere con sdegno che non avrebbe suonato se il giovane si fosse trovato nel pubblico, ed era stato rimandato bruscamente al mittente.
Le risultò più facile di ogni previsione calarsi in quel ruolo da sogno e persuadersi d’essere davvero una famosa pianista. Non che una parte di lei non avvertisse un pizzico di vergogna, e persino pena per quella specie di gioco, ma aveva deciso di metterla a tacere per qualche tempo e aveva lasciato campo libero all’immaginazione.
Arrivò al punto di alzarsi con un radioso sorriso dipinto sulle labbra e di accennare una riverenza in direzione del lago oscuro, nel punto in cui aveva stabilito dovesse esser collocato il pubblico. Le rispose lo scroscio dell’acqua, un applauso entusiastico e impaziente, e s’affrettò a tornare al piano, ansiosa di compiacere i suoi trepidanti spettatori. Diede un’occhiata alle note che lei stessa aveva tracciato sul pentagramma e posò le dita sui tasti giusti, preparando la punta del piede sul pedale di destra e assumendo quell’espressione serena, sicura e placida che aveva veduto sui volti degli orchestrali la sera del “Re degli Elfi”. Attese che un cardinale in terza fila avesse tossito, poi incominciò.
In effetti fu qualcosa di…molto stimolante. Le sue dita allenate danzavano sulla tastiera d’avorio con grazia e tempismo perfetti, diffondendo nel salone sotterraneo l’aria che aveva composto alcuni giorni prima, e la consapevolezza delle aspettative che il pubblico aveva su di lei faceva sì che mettesse nelle note tutto il sentimento e l’impegno di cui era capace, affannando e sudando in un parossismo di concentrazione e di esaltazione. Il pezzo prevedeva un accompagnamento canoro, ma sfortunatamente il tenore che avrebbe dovuto fare coppia con lei s’era ammalato all’ultimo momento e non era stato possibile sostituirlo. Per questo era della massima importanza suonare al meglio delle sue capacità: il compito di rendere speciale la romanza gravava unicamente sulle sue spalle. Dipendeva tutto da lei, e se fosse riuscita a conquistare la platea, sarebbe diventata sul serio la più grande pianista del diciannovesimo secolo.
Era una visione alquanto curiosa quella della ragazza seduta al magnifico pianoforte a coda, vestita di verde e con i riccioli scuri disordinatamente raccolti sulla nuca da alcune forcine, paonazza e ansimante come se si stesse dilettando in una corsa, che pestava a tutto andare i tasti d’avorio e accompagnava i passaggi particolarmente intensi con aggraziati movimenti del capo e dondolii del busto, gli occhi socchiusi in un’espressione di concentrata estasi e il sudore che le scorreva dalle tempie fino al seno ansante. Era troppo presa a suonare per giudicare oggettivamente se la sua composizione fosse buona o meno, ma senza dubbio aveva ripreso la sua passione senza che il periodo di inattività appena trascorso la danneggiasse in alcun modo. Le sue dita trovavano le note con facilità e il fatto che lei stessa avesse composto la canzone faceva sì che non incontrasse particolari ostacoli nell’esecuzione. Tutto intorno a lei era svanito, la Dimora sul Lago, quella storia assurda e senza senso, le preoccupazioni e le angosce, per lasciare spazio unicamente allo strumento e alla melodia che ne scaturiva potente e furiosa.
Più di una volta, monsieur Brochet l’aveva rimproverata dicendole che suonava in maniera troppo violenta e sonora e che non era capace di affievolire le note e spargere delicatezza su un brano. Vivian non condivideva il suo pensiero: era il suo stile, il suo marchio di fabbrica, perché avrebbe dovuto cambiarlo solo per adeguarsi agli altri? Lei non era né mite, né delicata, né tantomeno dolce, di conseguenza non avrebbe mai potuto esprimere con la musica sensazioni di tal genere. Era irruenta, focosa ed energica, impulsiva ma capace di guardare le cose in faccia e di chiamarle col loro nome. Poco importava che il suo antico insegnante considerasse il suo modo di suonare “indigeribile”.
D’altro canto, aveva sempre coltivato la convinzione che con quell’aggettivo non volesse definire soltanto il suo stile, ma lei in generale. Strinse le labbra e aumentò ulteriormente la potenza delle note, gridando, con ciascuna di esse, i vincoli che la trattenevano, le angosce che la tormentavano, i desideri irrealizzabili…
Do: Sarò sempre la brutta copia di mia madre…
Re: Nessuno potrà mai apprezzarmi per quello che sono…
Mi: Forse morirò in questo sotterraneo…
Fa: Perché mi sto autocommiserando?
Sol: Vorrei uccidere Antoine Baptiste Rappenau…
La: Se solo mio padre tornasse in vita…
Si: Vorrei che il Fantasma dell’Opera si fidasse di me…

Aveva appena cessato di indugiare nell’ultima nota e nel suo inaspettato significato, che una voce emerse dalle tenebre del lago, proprio nel punto in cui era collocato il suo pubblico immaginario, e domandò, con evidente stupore: “Voi suonate il pianoforte?”
Vivian sobbalzò come se le avessero sparato un colpo e per lo spavento rovesciò a terra i fogli con sopra la sua canzone, portandosi una mano al cuore e girandosi di scatto in direzione del suo molesto ascoltatore, il viso pieno di diffidenza e di imbarazzo e le guance che avvampavano pari a quelle di una pudica damigella. Suonare il piano era senz’altro un’attività più normale e consona del fare a pezzi una statua di cera, ma la vergogna che provò fu analoga a quella del suo ospite poco tempo prima, poiché per lei tale momento era ugualmente intimo e importante.
Il Fantasma dell’Opera, ritto sulla prua della gondola che galleggiava oscillando sulla riva del lago, il remo in pugno e l’ampio mantello che lo rivestiva come un sudario, la scrutava con un misto di sbalordimento e di prudente interesse dalla zona d’ombra in cui aveva scelto di fermarsi e i suoi brillanti occhi azzurro scuro passavano da lei allo strumento a intervalli regolari, quasi dovessero conciliare due immagini completamente diverse. La sua abilità nel dissimulare qualsiasi tipo di emozione non lasciava intravedere nulla dietro alla posa composta del suo viso mascherato, tuttavia qualcosa, nella sua postura, rivelava ch’era rimasto colpito dall’esibizione di Vivian.
Lei si chinò subito a raccogliere i fogli sparpagliati a terra e se li strinse al petto in un istintivo gesto di autodifesa, gli occhi bassi e le orecchie bollenti per il modo in cui era stata sorpresa. Da quanto tempo la ascoltava mentre diffondeva nell’aria la sua romanza goffa e dilettantesca? Dall’alto della sua celestiale bravura, doveva considerarla senz’altro una mediocre novellina da quattro soldi, un affronto alla divina arte della musica.
“Perché non avete palesato la vostra presenza?” le uscì un tono vagamente accusatorio, e non poté che rimanere divertita da quel sorprendente scambio di ruoli. Finse di dover riordinare le carte sul leggio per avere il pretesto di voltargli le spalle.
La risposta che arrivò da lui era asciutta: “Anche voi non l’avete fatto, poco fa”.
Il rossore sul volto di Vivian aumentò: “Era diverso”.
“Davvero? In cosa?”
Aprì la bocca, ma la richiuse senza dir nulla. In effetti non vi era alcuna differenza tra le due situazioni. Entrambi, se avessero saputo che l’altro li stava osservando, non si sarebbero lasciati andare alle emozioni in quel modo, e adesso era il suo turno di pagarne le conseguenze. Rimase in un silenzio imbarazzato, detestandosi per non mostrare l’abituale prontezza di spirito in quella situazione di svantaggio. Era lei a doverlo analizzare, non il contrario.
L’uomo scese dall’imbarcazione con quei movimenti sicuri, agili ed eleganti che lo contraddistinguevano da tanti suoi simili e la legò alla riva senza staccarle di dosso lo sguardo intenso e penetrante: “Non avevo idea che sapeste suonare il piano” scelse le parole con cura, ben attento a non lasciar trapelare un interesse eccessivo, dal momento che era la prima volta che gliene mostrava: “Perché non lo avete detto?”
Vivian continuò a non guardarlo, sentendosi sgradevolmente indagata. Le succedeva sempre, quando si trattava di lei e del suo talento. Era troppo disincantata per credere di essere davvero dotata: “Voi non l’avete chiesto, monsieur” disse a bassa voce: “E non volevo…ecco, non volevo sembrare presuntuosa vantandomi di qualcosa che faccio per puro e banale divertimento”.
Lui sollevò un sopracciglio: “Non si direbbe proprio che suoniate per divertimento, mademoiselle Carré. Anzi…”
“Leroix” lei lo disse d’impulso.
“Come?”
“I-io sono mademoiselle Leroix” un attimo dopo averlo rivelato, se ne pentì. Mai, mai entrare in confidenza con l’oggetto della propria indagine. Essere gentili sì, compiacerlo sì, ma evitare qualsiasi riferimento alla propria vita e ai propri segreti. Significava abbassare la guardia, tracciare confini meno netti, assumere un atteggiamento confidenziale che avrebbe potuto ritorcerle contro il suo stesso giochino e tramutare lei nella vittima e lui nel carnefice. Il suo avversario era pur sempre il Fantasma dell’Opera, era un maestro dell’inganno e del camuffamento, nonché un uomo di gran lunga più maturo ed esperto di lei, se gli avesse aperto la propria anima si sarebbe consegnata da sola nelle sue mani, e non dubitava che lui l’avrebbe spezzata seduta stante. Se fosse stata una brava spia, si sarebbe dovuta limitare a sorridere e ad essere carina.
Ma non era abile in nessuna delle due cose, e il fatto che lui le avesse mostrato il suo volto, che avesse messo a nudo la sua deformità…magari aveva agito in tal modo al solo scopo di terrorizzarla, ma era stata comunque una mossa audace, e sentiva di doverla ricambiare. E poi, a parte tutto, ormai il danno era fatto.
Sulle labbra del suo ospite danzò un sorriso obliquo e stranamente divertito, e un luccichio gli illuminò le iridi feline: “Mademoiselle Leroix, eh?” si rigirò il nome in bocca con palese godimento, trapassandola con uno sguardo beffardo: “Dunque non sono solo io ad avere segreti qui, dico bene?”
Vivian girò il capo di lato, sforzandosi di recuperare il manico del coltello: “Non ho nessun segreto, monsieur” la frase le uscì disgraziatamente esitante e poco convinta: “Mio padre si chiamava Vincent Leroix e ne ho ovviamente ereditato il cognome. Sono mademoiselle Leroix. Beh, a dire il vero non sono neanche una mademoiselle” rise, amara: “Sono solo Vivian” fece eco a parole già pronunziate in precedenza, ma con un significato meno profondo.
“Posso azzardare una domanda?” l’uomo non aveva abbandonato il suo atteggiamento beffardo e sardonico e le si avvicinava lentamente, come un leone che s’accosta all’ignara gazzella, senza che lei se ne rendesse conto: “Perché allora avete detto a tutti di chiamarvi Vivian Carré?”
La ragazza si sostenne al pianoforte come per cercarvi un soccorso. Era evidente quanto più debole fosse di lui: qualcosa la obbligava a rispondere, qualcosa di invisibile ma di potente che invece non aveva rappresentato un ostacolo per il fantasma quando era stata lei a porgli delle domande. Avrebbe potuto emularlo ed esortarlo a farsi gli affari suoi, ma il modo in cui la esaminava con quei grandi occhi azzurro scuro e il genuino interesse che per una volta sembrava nutrire per lei bastavano a sconfiggerla. Si era messa in trappola.
“Conoscete…” prese un profondo respiro, tirando fuori quel nome come se fosse stato un getto di bile: “Conoscete Amélie Carré?”
Lui aggrottò l’ampia fronte e si aggrondò in viso, poi scosse il capo: “Mai sentita nominare”.
“Davvero?!” senza volerlo le uscì un mezzo grido. Si premette una mano sulla bocca, avvampando, e recuperò una parvenza di normalità: “Dite sul serio, monsieur Fantòme?”
“Certamente” l’uomo aveva un tono a metà tra il perplesso e il contrariato: “Cosa c’è di strano?”
“Niente, ma…vent’anni fa è stata la cantante più rinomata di Parigi, e dato che voi eravate probabilmente un adolescente a quei tempi, immaginavo che ne aveste sentito parlare”.
“Mademoiselle, molte dive si sono contese il titolo di primadonna qui all’Opera e la metà di loro non valeva più del mio lucido da scarpe” commentò il fantasma con elegante disprezzo: “L’ultima, Carlotta Giudicelli, assomigliava più ad un baccalà che ad un essere umano. Non spenderei neppure un minuto del mio tempo ad ascoltarne i gracidii, e presumo che se non sono a conoscenza della donna di cui parlate, era probabilmente dello stesso stampo di questa, perché se avesse avuto talento per come lo valuto io, sarei stato ben lieto di assistere alle sue esibizioni dal palco numero cinque”.
Gli angoli della bocca di Vivian si curvarono all’insù e nel suo petto si levò un grido di vittoria che quasi la assordò. Era la prima volta, la prima, che qualcuno osava criticare e addirittura insultare la grande Amélie Carré. E non si trattava d’un critico qualunque o di un ecclesiastico pomposo, era il Fantasma dell’Opera in persona, indiscusso genio della musica e dotato di una voce formidabile, a metterne in discussione il talento! Avendone udito le splendide melodie, aveva ragione di fidarsi dei suoi giudizi, e non riusciva a dare nome all’intima esultanza che danzava dentro di lei. Era un comportamento orribile e indegno di una brava figlia, ma non riusciva a impedirselo.
“Sembrate alquanto soddisfatta, mademoiselle Leroix” Erik l’aveva studiata attentamente mentre un tumulto di gioia prorompeva nelle sue vene e l’aveva raggiunta accanto al piano: “Chi è questa Carré di cui parlate?”
“Mia madre” mormorò lei tra sé e sé. Era troppo assorta dalla propria reazione alla critica rivolta a quella maledetta donna che evidentemente ancora la tormentava dall’oltretomba per notare il lieve sorriso sorpreso dell’uomo che con tanta leggerezza l’aveva criticata: “Vostra madre” le fece eco, divertito: “È per questo che vi siete appropriata del suo cognome? Per avere delle raccomandazioni?”
Fu una pugnalata inaspettata e dolorosa. Si irrigidì da capo a piedi, l’esultanza e la gratitudine che svanivano nella calda incandescenza della rabbia, e si volse a guardarlo con un movimento rapido, ritrovandosi con il volto vicinissimo al suo e con il corpo che quasi toccava quello di lui. Ma a differenza della prima volta in cui si era verificato un evento simile, non palesò alcun tipo di disagio o imbarazzo e lo guardò dritto negli occhi penetranti, i lineamenti distorti in una smorfia d’ira: “Non ho bisogno di alcuna raccomandazione” sibilò: “Io sono un fantasma, come voi. Lo spettro di una musicista di gran lunga più dotata di me. Quando mi guardo nello specchio, è lei che vedo…lei, con meno bellezza e talento” allungò una mano a sfiorare la liscia superficie della maschera che copriva le piaghe sul volto di Erik e sorrise vedendo che s’irrigidiva a sua volta: “E voi che cosa vedete nello specchio, monsieur Fantòme, qualsiasi sia il vostro, di nome?”
L’uomo arretrò leggermente, stringendo le labbra, gli occhi che si muovevano a scatti dentro ai suoi come se fosse lui, per una volta, a non riuscire a staccarsene. Le prese il polso, allontanandole la mano e accompagnandola delicatamente fino al fianco, e parlò in un sussurro freddo e malsicuro: “Non sapete rispondervi da sola?”
La bocca di lei prese una piega torva: “Non vi conosco quasi per niente, monsieur. Non so nulla di voi, neanche come vi chiamate. Come potrei decretare chi siete veramente? E come voi potete giudicarmi, dal momento che non sapete nulla di me? Non mi stimate neanche”.
S’aspettava che il fantasma si ritraesse come era solito fare o che ribattesse a tono, invece rimase immobile accanto a lei, tenendole il polso in una stretta ferrea e indugiando nel suo sguardo franco con le mosse di qualcuno che aveva scoperto qualcosa che credeva inesistente. Da parte sua, Vivian non tentò di divincolarsi e non finse un pudore che non le apparteneva. Christine Daaé era povera quanto lei, ma si sarebbe senz’altro scostata con le gote paonazze e il bellissimo viso scandalizzato e avrebbe trovato repellente il contatto di quella mano guantata che le stringeva il polso e di quegli occhi intensi che esploravano i suoi.
Trasalì, accorgendosi di ciò che aveva appena pensato. Perché si era messa a far paragoni con l’antica musa del suo ospite?
Lui la lasciò andare all’improvviso, staccandole la mano dal polso come se si fosse scottato e volgendo altrove il suo fiammeggiante sguardo, e mise tra loro una prudente distanza di sicurezza, indietreggiando di almeno tre ampie falcate. Appariva a disagio, vacillante sotto il fardello di una nuova ed inaspettata insicurezza, o forse quel qualcosa che aveva scorto negli occhi di Vivian l’aveva turbato più di quanto volesse ammettere. Indugiò sul pianoforte, soffermandosi sui fogli che lei aveva appoggiato sul leggio e dando una rapida scorsa alle note, e tornò alla questione che aveva affrontato per prima con la fretta di chi è imbarazzato: “Dunque sapete suonare il piano. E neanche troppo male, oserei dire”.
Lei sollevò entrambe le sopracciglia e piegò il capo di lato in una perfetta rappresentazione di scetticismo, ma non colse alcun segno di menzogna o di canzonatura nella fisionomia del fantasma: “Voi vi burlate di me, monsieur” sussurrò, con un’esitazione che tradiva la sorprendente speranza di aver impressionato favorevolmente il più grande musicista mai esistito al mondo (dopo averlo sentito, non aveva avuto dubbi nel definirlo così). Possibile che proprio lui la apprezzasse? Che la reputasse brava, quando né sua madre, né monsieur Brochet, né madame Lefevre lo avevano fatto? Se la stava prendendo in giro, l’avrebbe ucciso.
Lui fece un sorriso sghembo: “Che motivo avrei di burlarmi di voi, mademoiselle?”
“Lo avete già fatto molte volte”.
“Vero, ma non è mia abitudine scherzare quando si tratta di musica, credetemi” c’era del sincero buonumore sulle sue labbra: “Ho udito soltanto la conclusione della vostra esibizione, ma direi che siete…molto intensa e passionale. Ovviamente avete ancora molto da imparare e si sente, in alcuni passaggi, la vostra inesperienza, però…avete già un vostro stile. Ed è questo che fa la differenza tra un banale musicista e un vero artista”.
Vivian scosse la testa con stolida ottusità, come per negare quelle parole che le giungevano totalmente inaspettate, dalla persona che in passato aveva dimostrato di disprezzarla pienamente. No, la stava ingannando, voleva solo farle del male con false illusioni, si rifiutava di credere che un genio di quel calibro pensasse davvero che lei aveva del talento. Aveva deciso di apprendere a suonare il piano soltanto perché, considerata la storia di sua madre, era l’unica strada percorribile per lei, ma sapeva fin dall’inizio che non avrebbe fatto la differenza…di non essere speciale in nulla. Una “speciale” come Amélie non lasciava spazio ad altri.
“Smettetela di prendermi in giro!” prima che potesse trattenersi, le sgorgò dalla gola un grido rabbioso e rimase sinceramente inorridita dalla scarsa capacità di autocontrollo che aveva appena dimostrato. Non si sarebbe dovuta comportare così. Non avrebbe dovuto lasciarsi andare alle emozioni e all’angoscia con l’uomo che voleva consegnare alla giustizia. Che cosa diavolo le saltava in mente?! Gli volse le spalle, non sopportando di mostrargli la propria debolezza, e strinse forte le palpebre, respirando pesantemente per recuperare la calma.
Dietro di sé avvertì lo sconcerto di lui, la lunga pausa carica di perplessità che riempiva lo spazio che li separava. L’uomo tese una mano, lasciandola sospesa sopra la sua spalla nelle mosse di appoggiarvisi, poi la ritrasse, guardandosela contrariato, come se avesse agito con volontà propria, e finì per infilarsela goffamente dentro al mantello: “Ma…mademoiselle Leroix?” la chiamò con cautela, addolcendo la voce solitamente fredda e aspra: “Ho detto qualcosa che vi ha offeso?”
A lei scappò quasi una risata isterica: “No, non questa volta, monsieur Fantòme”.
“E allora…” esitò, trattandola con curioso riguardo: “Allora cosa avete?”
Sarebbe stato troppo complicato spiegarglielo, e non voleva dare a quell’uomo la capacità di farle del male. C’erano alcuni segreti che custodiva nel fondo della sua anima da anni, piaghe interne orribili e marce come quelle che lui aveva sul viso di cui non voleva svelare l’orrore, e aveva nascosto la chiave che li teneva imprigionati ormai da tanto tempo che non ricordava più dove fosse. Aveva costruito la sua intera esistenza sulla base della determinazione, dell’impudenza e dell’orgoglio, poiché erano cose che nessuno avrebbe potuto portarle via o biasimare, e non intendeva farseli demolire dalla voce suadente del Fantasma dell’Opera per mettere a nudo l’insicurezza, l’odio e il rancore sepolti sotto di essi. La vera Vivian era mostruosa assai più del suo volto sfigurato.
Si assicurò che sui suoi lineamenti ci fosse la solita espressione calma e irriverente prima di girarsi a guardarlo. Vacillò appena quando s’accorse che la freddezza, il disprezzo e l’arroganza lo avevano temporaneamente abbandonato, per lasciare spazio ad una sincera mortificazione, di cui forse lui stesso era inconsapevole. I suoi occhi…i suoi bellissimi occhi azzurro cupo… erano ancora più luminosi quando non si scurivano di rabbia, dolore e risentimento. A Vivian parve di annegarci dentro, e senza volerlo gli barcollò più vicina, cercando una fermezza che stentava a trovare.
“Mademoiselle…” Erik parve misurare le parole: “Voi avete del talento”.
“Non è così!” avrebbe voluto girare il capo di lato con sdegno, ma era intrappolata nelle sue iridi scintillanti. La mortificazione sui tratti di lui si incrinò un poco, mescolandosi al fastidio d’essere così ostinatamente corretto in un ambito in cui peraltro non aveva rivali: “No, mademoiselle, sono serissimo. Quello che ho sentito…era buono. Lo avete composto voi?”
La giovane digrignò i denti. Era adirata con lui senza alcun motivo razionale, perché si incaponiva nel rimarcare una cosa assolutamente falsa e illusoria. E perché una parte di lei desiderava credergli con tutte le forze e riconoscere che in fondo non era soltanto una poveretta di media bellezza, di origini campagnole, con una mediocre attitudine per la musica e nessuna dote da offrire, ma una persona che aveva qualcosa da dare, che nella sostanza contava quanto tanti altri più ricchi di lei.
Il problema era che questa era la realtà, e aveva cessato da tempo di credere nelle favole. Poteva sognare d’essere una grande pianista, ma ciò non si sarebbe mai verificato. Ed era scorretto da parte del fantasma mentirle, dicendo che era qualcosa che non era affatto.
“Una volta” sussurrò: “Avevo composto una piccola ballata in chiave di sol. Ci avevo lavorato giorno e notte, mettendoci tutto l’impegno possibile. L’avevo dedicata a mia madre…ma quando gliel’ho fatta sentire, ha detto che l’unico luogo in cui me l’avrebbero lasciata suonare era un bordello e che era buona solo per fare da sottofondo alle danze delle sgualdrine”.
Erik ne prese atto in silenzio. Vivian, al contrario, ascoltò stupefatta il suono di quelle parole che non aveva mai rivelato a nessuno che indugiava nell’aria intorno a loro. Era un fatto stupido e puerile, ma era stata l’umiliazione più tremenda della sua vita. L’espressione di benevolo compatimento di sua madre e il tono di elegante disprezzo con cui aveva liquidato la sua ballata a volte la torturavano ancora, infliggendole staffilate di dolore nel petto. Eppure averlo raccontato, aver buttato fuori quell’evento la faceva sentire adesso più leggera e meno oppressa, come se si fosse liberata di un fardello pesantissimo che da tempo le gravava sulle spalle e lo avesse gettato in un dirupo, disfacendosene. Poco importava che si fosse mostrata debole.
“Mademoiselle” disse l’uomo al termine di una lunga pausa muta: “Non avete mai pensato che vostra madre si sia comportata così perché era invidiosa di voi?”
La ragazza trasalì, alzando su di lui uno sguardo sinceramente sbalordito: “Cosa?! Mia madre invidiosa di me? Siete pazzo?”
Lui sorrise, come se quella frase concitata avesse dato conferma a certe sue supposizioni. Le prese con delicatezza il mento volitivo tra le eleganti dita guantate, strappandole un piccolo sussulto per quell’improvviso contatto, e le alzò il capo finché non ebbero gli sguardi perfettamente allineati. Per la prima volta da quando lo conosceva, Vivian si sentì in balia di lui, sommersa dal suo profumo selvaggio, dalle sue iridi brillanti, dall’aura di percepibile sicurezza che sempre gli gravitava attorno, e quella sconvolgente miscela di sensazioni le inculcò la paura d’essere diventata improvvisamente inerme e indifesa, e che se lui avesse continuato a guardarla negli occhi in quel modo, gli avrebbe rivelato tutto quanto, il suo piano, i suoi propositi, il reale motivo per cui si era insediata nella Dimora sul Lago, e si sarebbe condannata con le sue stesse mani. Era prigioniera come il serpente che esce dal suo nascondiglio irretito dalle note dell’incantatore.
“Non sono niente in confronto a lui” si trovò a pensare: “Ha sempre avuto tutto quanto sotto controllo”.
Erik si avvicinò ancora di più e il cuore della ragazza aumentò i battiti in modo vertiginoso, pompandole sangue nelle vene ad un ritmo forsennato e tramutandole il corpo in un ammasso tremante, malsicuro e instabile. Che cosa le stava succedendo? Cos’era quel fiotto caldo che s’irradiava dal ventre e allungava mille propaggini nel petto, nelle gambe e nel cervello? Una semplice reazione a quella posizione fin troppo intima? Eppure aveva veduto il suo volto appena poche ore prima, sapeva quale orrore si celava dietro la liscia superficie della maschera…avrebbe dovuto provare disgusto, raccapriccio per la vicinanza di quella faccia deturpata. Invece…
“Voi siete una brava pianista, mademoiselle Leroix” quelle parole fluirono dalle labbra affilate di Erik con la massima calma e tranquillità, evidenziando il maggiore autocontrollo del fantasma a fronte di quella ambigua prossimità, e le indirizzò tale complimento con freddezza sincera, senza scomporsi: “Non permettete ad uno spettro di dire il contrario”.
Si scostò da lei con un movimento fluido, prendendo i fogli dal pianoforte, e fece scorrere le pagine con attenzione mentre i suoi occhi leggevano interessati le note scarabocchiate nella disordinata calligrafia della ragazza: “È notevole. Anzi…molto notevole. Dove avete trovato l’ispirazione?”
Vivian si circondò il busto con le braccia e batté le palpebre con aria allibita e confusa. Era naturale per lui ignorare completamente l’altrui fisicità e comportarsi poi in maniera del tutto normale, come se niente fosse accaduto? Oppure era lei ad avere qualcosa di sbagliato, a custodire senza saperlo una vena di follia? Egli era un assassino e un mostro…non un aristocratico avvenente e fiero come Antoine. Perché aveva provato soltanto un ribrezzo totale e completo quando il secondo l’aveva inchiodata alla vetrata dell’angelo, ed aveva reagito in quella maniera assurda alla vicinanza del primo?
Per tutti gli angeli del paradiso, adesso non poteva fidarsi neppure di se stessa? Si lasciava ritorcere contro le sue trame come una qualsiasi novellina, mutando il suo piano in un’arma a doppio taglio? No, se l’avesse permesso, avrebbe perso quella poca autostima racimolata finora! L’aveva capito perfettamente, il bastardo: voleva sedurla, farle abbassare la guardia e impadronirsi della sua anima come un tempo aveva tentato di fare con Christine. L’unica differenza stava nel fatto che la talentuosa cantante l’aveva amata, mentre nei suoi confronti nutriva soltanto un vago interesse. Maledetto!
Gli si rivolse con tono freddo e duro, nascondendo abilmente il tumulto che infuriava dentro di lei: “Potete arrivarci anche da solo. Ultimamente la mia vita è stata alquanto…movimentata. È naturale che queste note mi siano balenate alla mente”.
“È un lavoro…interessante” non poté fare a meno di notare quanto elegantemente si muovesse Erik mentre poggiava sul leggio i fogli e indugiava sulla tastiera in un’amorevole carezza, e come gli fluttuava intorno il mantello ad ogni scossone: “Desidererei che lo suonaste una seconda volta, se non vi è di troppo disturbo”.
Vivian indietreggiò, sulla difensiva: “Come?”
“Mi avete sentito. Penso che lavorandoci potrebbe venir fuori qualcosa di davvero buono” egli era già lanciato in quel nuovo progetto musicale e, benché la composizione fosse opera della sua ospite, ne parlava come se se ne fosse appropriato, vista la sua maggiore esperienza e il suo talento di gran lunga migliore: “Poiché dovete rimanere qui ancora qualche giorno, forse sarebbe il caso di impiegarlo in qualcosa di costruttivo. Potrei darvi qualche lezione e aiutarvi a perfezionare lo scheletro della vostra canzone”.
Lei non era certa di aver sentito bene: “Voi volete farmi da insegnante?”
“In un certo senso. Voglio ripulirvi dalle imperfezioni che vi portate appresso e tramutare il vostro talento naturale in qualcosa di completo. Qualche giorno è un periodo decisamente troppo esiguo per trasformarvi in una vera musicista, ma vi permetterà di sicuro di affinare la vostra tecnica. Cosa ne dite, mademoiselle?”
Vivian temeva una trappola. Perché aveva cambiato idea così improvvisamente? Fino al giorno prima le aveva ordinato di restare in camera sua e non infastidirlo con la sua presenza, e adesso si dichiarava pronto a darle lezioni di piano? Lo studiò attentamente nell’inutile tentativo di decifrare qualcosa dietro alla sua espressione impassibile, ma captò soltanto, forse, un accenno di confusione e un pizzico di sbalordimento, come se egli stesso fosse sorpreso dal proprio invito. E in effetti l’aveva pronunciato d’impulso, sull’onda di un entusiasmo nuovo e inaspettato, sorprendendo tanto lei quanto se stesso. Insegnare ad una giovane allieva…aveva fatto la stessa cosa con Christine Daaé tempo prima, e Vivian sperava con tutta se stessa che non le avesse proposto di usufruire del suo sapere sotto l’influenza del passato e dei ricordi. L’odio con cui aveva fatto a pezzi la sosia della sua amata era stato atavico e assoluto…l’ultima cosa che desiderava era trasformarsi nella sua immagine, sebbene non si assomigliassero affatto.
Però qualcosa sul suo viso, nel suo sguardo, le suggeriva che ciò non sarebbe successo. Egli non aveva pensato a lei neppure una volta come ad un’immagine di Christine. E poi, aveva forse scelta? Se voleva portare a termine il suo piano, rifiutare la sua gentilissima offerta sarebbe stata la mossa peggiore da farsi. Era tenuta ad accettare, e a confidare nel proprio raziocinio e nelle motivazioni che la spingevano a consegnarlo. Doveva fidarsi di se stessa…altrimenti sarebbe stato tutto vano.
“D’accordo, monsieur” mormorò, stupita dal proprio tono di resa: “Ne sarò molto lieta”.

 
  
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