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Autore: Emily Kingston    05/02/2012    1 recensioni
Elizabeth Clark ha sedici anni ed è incinta. Elizabeth non è diversa da tante altre ragazze che rimangono incinta giovani. E' spaventata, insicura, indecisa.
Questa non è una storia originale, oserei dire che è una storia piuttosto ordinaria, ma spero che possa piacere a qualcuno quanto a me è piaciuto scriverla.
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“Ecco, guarda là,” disse, indicandomi lo schermo alla mia sinistra. “Il tuo bambino è sano come un pesce. Guardalo, si succhia anche il pollice!”
Sorrisi. Nonostante il mio odio per gli ospedali fare le ecografie era una cosa meravigliosa. Vedere il mio bambino che si muoveva, sentire il suo cuore battere, mi dava la certezza che lui c’era, che era lì.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Hope for the hopeless

 
 
Non mi erano mai piaciuti gli ospedali, erano troppo avvilenti e puzzavano di disinfettante. Non mi piacevano le pareti tappezzate di verde, né le scomode sedie di plastica della sala d’aspetto.
Non erano i malati che non mi piacevano, non mi piaceva il fatto che ci fossero posti dove tutta la gente che sta male viene riunita insieme; era come se i malati fossero una categoria separata dal resto del mondo.
Sapevo perfettamente che in ospedale la gente riceveva delle cure specifiche, che non li tenevano lì solo per il gusto di allontanarli dalle famiglie o, comunque, dalle persone a loro care, ma nonostante questo il fatto che negli ospedali ci fossero solo medici e malati mi urtava dentro.
Mi capitava spesso di pensare che gli ospedali americani, per quanto la preparazione dei medici fosse inferiore, fossero migliori dei nostri ospedali.
Ricordo che qualche anno fa, vidi un film che parlava degli ospedali e fu la prima volta che mi piacquero davvero. Parlava di un medico un po’ rivoluzionario il cui scopo era quello di introdurre negli ospedali delle persone che rallegrassero i malati durante il loro ricovero. Credo che fosse una storia vera perché in America ci sono davvero persone del genere. È stato un tizio di nome Patch Adams a introdurli negli ospedali, si tratta di gruppi di volontari che vanno in giro con una nappa rossa da clown sul naso e raccontano barzellette, fanno giocare i bambini, portano un raggio di speranza tra la coltre scura della desolazione. Sono una pasticca di felicità, la migliore di tutte le medicine.
Comunque, depennata l’eccezione degli ospedali americani, gli ospedali a me non piacevano e l’idea di essere in una piccola sala d’aspetto, seduta su una scomoda seggiola di plastica blu, con i raggi del sole che mi scaldavano le gambe, mi irritava.
Mi irritava la signora di quarant’anni seduta accanto a me che, sorridendo, osservava il marito che sussurrava parole incoraggianti al feto che sguazzava nel suo grande pancione. Mi irritava la ragazza terrorizzata che sedeva poche sedie più in là, con un test di gravidanza in una mano e l’altra appoggiata sul ventre. Mi  irritava la coppia in piedi davanti alla segreteria, lei con il ventre rigonfio e lui con un bambino in braccio.
Mi irritava tutto quel puzzle di volte preoccupati, felici e spaventati. Mi irritava l’odore di disinfettante che pizzicava le narici.
Afferrai malamente una rivista di gossip dal tavolino accanto a me ed iniziai a sfogliarla senza interesse, senza soffermarmi a leggere gli articoli o a guardare le immagini.
Per diversi minuti si udirono soltanto i sussurri del signore che parlava con il ventre della compagna poi, con un lieve e fastidioso cigolio, una porta bianca si aprì ed una donnetta bassa e tozza si sistemò gli occhiali sul naso, leggendo sul foglio che teneva tra le mani.
Alzò i piccoli occhi azzurri chiamando un nome, e la coppia seduta al mio fianco si alzò, dirigendosi verso la porta che si richiuse alle loro spalle con un tonfo.
Quando i due se ne furono andati l’altra coppia, che fino a quel momento aveva discusso con l’infermiera della segreteria, occupò il loro posto.
Finsi d’ignorare lo sguardo perplesso che mi lanciò la donna, mentre il marito cercava di spiegare al bambino di non agitarsi sulla sedia della sala d’aspetto.
Ero abituata a quelli sguardi, anzi, a dire la verità, ero abituata a sguardi peggiori. Istintivamente, quando anche l’uomo posò gli occhi su di me e scosse lievemente la testa, appoggiai una mano sul mio ventre, come per rassicurare il mio bambino che andava tutto bene.
Una ragazza di sedici anni incinta, non è propriamente una cosa che passa inosservata; soprattutto non è una cosa che molte persone giudicano morale e giusta. La maggior parte della gente pensa che le ragazze che rimangono incinta giovani siano solo delle sgualdrine che si sono divertite troppo.
Be’, non sempre è così, e finché non ci sei dentro non te ne puoi rendere conto.
Anche io ero solita giudicare le ragazze che a quindici, sedici anni andavano in giro con un ventre così gonfio che i bambini piccoli, se le avessero viste, avrebbero sicuramente chiesto ai genitori se avevano ingoiato un cocomero intero.
Anche io credevo che fossero solo ragazzine stupide che avevano affrettato le cose, che avevano bruciato le tappe e che, soprattutto, erano state così stupide da non prendere precauzioni.
Nel caso specifico di alcune persone era davvero così, ma quando il mio test è diventato blu ho capito che se una part era costituita da sgualdrine, l’altra parte era costituita da ragazze normali a cui capitavano degli inconvenienti.
La porticina bianca si aprì di nuovo e la donnetta di poco prima uscì chiamando un altro nome. La ragazza con il test di gravidanza e l’aria spaurita si alzò in piedi, incerta sulle gambe, e si avviò verso lo studio. Notai che le tremavano le mani.
Ecco, lei era sicuramente una ragazza normale a cui era capitato un inconveniente.
Sospirai, riprendendo a sfogliare la rivista di gossip che avevo appoggiato sulle gambe ed udii, nel silenzio della sala d’aspetto, il bambino che era con la coppia seduta accanto a me sussurrare a suo padre: “Papà, perché quella signorina ha mangiato un cocomero?”
Mi venne da sorridere perché se avessi avuto la sua età e avessi visto una ragazza di sedici anni con una pancia come la mia, me lo sarei chiesto anch’io.
“Non ha mangiato un cocomero, Andy, quella signorina aspetta un bambino. Come la mamma.”
Il bambino spalancò gli occhi e sbatté le palpebre, dischiudendo lievemente le labbra. Lo stavo osservando con la coda dell’occhio, quando si avvicinò a me e mi batté una mano sulla spalla.
“Scusa signorina, ma tu aspetti un bambino, come la mia mamma?” mi chiese.
Io sorrisi, annuendo.
“Sì, tesoro.”
“Ma tu non sei grande come la mia mamma,” osservò, estremamente contrariato. “Sei sicura che sei grande abbastanza per avere un bambino? Magari ti sei sbagliata ed hai mangiato un cocomero.”
Nonostante quel commento mi avesse un po’ ferita, sorrisi al bambino.
“Sai tesoro, sono ragionevolmente sicura che questo non sia un cocomero,” dissi, accarezzandomi il ventre. “Senti qua,” gli afferrai una mano e gliela appoggiai sulla mia pancia e lui sussultò quando il bambino tiro un calcetto.
“Ma allora c’è un bambino vero lì dentro!”
“Andy!” lo rimbrottò la madre, alzandosi e venendo verso di noi. “Non dare fastidio alla signorina.” Il bambino abbassò lo sguardo, mortificato, e la donna si sedette, appoggiandoselo sulle ginocchia. “Mi scusi,” disse poi, rivolgendosi a me.
Io sventolai una mano in aria e scossi il capo, dicendole che il bambino non aveva fatto assolutamente nulla di male.
“Di quanti mesi è?” mi domandò poi, dopo diversi minuti di silenzio.
“Otto,” risposi, continuando a massaggiarmi il ventre rigonfio.
“Sai già – ehm, posso darti del tu?” io annuii. “Sai già il sesso?”
“E’ un maschio.”
La donna sconosciuta annuì, sistemandosi meglio il figlio sulle ginocchia. Notai che lei doveva essere circa al sesto mese, date le dimensioni della pancia.
“Oh, la nostra è una femmina.”
Era la prima volta che una donna adulta, incinta, tentava di instaurare una conversazione con me senza pensare che fossi una sgualdrina o senza sentirsi oltraggiata dal fatto che io, alla mia età, già avessi raggiunto un traguardo che lei, quasi sicuramente, aveva cercato di raggiungere per un’infinità di tempo. Comunque, se anche quella donna pensava questo di me, era brava a non darlo a vedere.
“Avete scelto il nome?”
Andy, il bambino sulle sue ginocchia, scattò come una molla e si voltò verso di me con un sorriso a trentadue denti stampato in volto.
“Verity,” esclamò, battendo le manine paffute. “La mia sorellina la chiamiamo Verity.”
La donna sorrise, passandogli una mano tra i capelli scuri.
“L’ha scelto lui il nome,” mi disse, continuando ad accarezzare il capo del bambino.
Io sorrisi, abbassandogli occhi su Andy che giocava con uno dei braccialetti della madre.
“E tu? Tu e il tuo ragazzo l’avete scelto un nome?”
Il sorriso sul mio volto si affievolì ed io abbassai lo sguardo.
“No, ancora non abbiamo scelto il nome.”
In realtà non c’era nessun noi, c’era un io illuso e basta.
C’ero io che avevo creduto in Danny più di quanto meritava, c’ero io che stavo ancora aspettando lui.
Denny era il mio ragazzo, o meglio, il padre di mio figlio che aveva detto di volere un po’ di tempo per se stesso quando gli avevo detto di essere incinta.
Me la ricordo ancora, la faccia di Danny, quando il test diventò blu.

***

Pioveva a dirotto e la pioggia batteva fastidiosamente contro i vetri del bagno.
Il test di gravidanza, grande quanto un termometro, era appoggiato sul lavandino da più di dieci minuti ormai, ma le mie gambe non ne volevano sapere di alzarsi.
Me ne stavo seduta sul water, con lo sguardo fisso sul test e le mani che tremavano.
E se fosse stato blu?
Come l’avrebbe presa Danny? E mia madre? E mio padre?
Ed io? Come l’avrei presa io se il test fosse stato blu?
Con un sospiro allungai il braccio, dato che i miei piedi sembravano essersi radicati al pavimento, ed afferrai il test, portandomelo davanti al viso.
Chiusi gli occhi e contai alla rovescia da dieci, respirando lentamente.
Tre.
Due.
Uno.
Spalancai di botto le palpebre ed una striscia blu mi abbagliò gli occhi con prepotenza, come per dirmi “Ehilà, sei incinta!”.
Sbattei le palpebre ed allontanai un po’ il test dal mio volto, per guardare meglio, ma per quanto lontano lo portassi e per quanto sbattessi forte le palpebre, la striscia rimaneva blu, di un blu sempre più sfacciato.
Deglutii, stringendo forte il test in una mano ed alzandomi dal water con gambe tremanti.
Aprii la porta e, con passo incerto, tornai in salotto dove Danny stava guardando con mio padre la partita.
Chelsie contro Tottenham Hotspur.
Mia madre era in cucina a preparare il tè e la pioggia batteva sempre più forte, forse a ritmo del mio cuore o forse era il mio cuore che batteva a ritmo della pioggia.
Inspirai, entrando nella stanza.
“Ehm,” mi schiarii la voce e Danny e mio padre si voltarono verso di me, entrambi sorridendo.
“Sono incinta.”
Sentii un rumore di cocci provenire dalla cucina ed i sorrisi sul volto del mio ragazzo e di mio padre si congelarono. Il volto di Danny divenne pallido e per un momento pensai che sarebbe svenuto.
Invece si alzò, incerto sulle gambe, e si avvicinò a me.
“Posso, ehm, posso parlarti in privato, per favore?”
In annuii, notando mia madre che si affacciava dalla cucina e si scambiava uno sguardo perplesso con mio padre, come per chiedergli conferma di ciò che aveva sentito.
Scorsi lui che le annuiva prima che Danny chiudesse alle nostre spalle la porta del corridoio.
“Sei sicura?” domandò, preoccupato.
Io abbassai lo sguardo ed annuii, porgendogli il test.
Lui lo guardò sbattendo gli occhi, ma anche con Danny il blu non divenne rosa.
“Che facciamo adesso?” disse, alzando lo sguardo su di me. “Insomma, non possiamo tenerlo, noi siamo…siamo…”
“Dei ragazzini, Dan, siamo dei ragazzini che hanno giocato a fare i grandi,” risposi, sospirando. “Però non voglio abortire.”
Danny spalancò gli occhi, boccheggiando.
“Vuoi tenerlo?”
“Potremmo darlo in adozione, ma non voglio ucciderlo. È mio figlio e io non…non voglio che muoia.”
Sentii gli occhi inumidirsi. Sapevo di essere madre da neanche cinque minuti e già pensavo come una madre. Mi sentii quasi stupida per questo, come una bambina che a furia di fare sempre lo stesso gioco si immedesima troppo nel personaggio.
Ma forse era così, io e Danny avevamo giocato così tanto spesso a fare i grandi da esserci immedesimati così tanto nei nostri personaggi che adesso non eravamo più capaci di distinguerli da noi stessi. Non sapevamo più chi era chi.
“Io…io ho bisogno di tempo per riflettere.”
“Cosa significa?”
“Devo riordinare un po’ le idee, Liz, devo pensarci.”
“Devi pensare se vuoi questo bambino, o se vuoi me?”
Danny boccheggiò, indietreggiando.
“Devo pensarci.”
Non disse altro, aprì la porta del corridoio, afferrò la giacca appoggiata sullo schienale della poltrona e poi sparì oltre la porta d’ingresso.
Mi lasciò in mezzo al corridoio, con gli occhi umidi, una mano sul ventre e i  tifosi del Tottenham Hotspur che lanciavano urla di giubilo.

***

Non avevo mai pianto per la scomparsa di Danny, pensando che fosse un bene aver capito subito di che pasta era fatto, però mi era sempre mancato.
Nonostante fossi profondamente amareggiata dal suo comportamento, e delusa dalla sua mancanza di maturità, una parte di me aveva sempre sofferto la mancanza di Danny.
Mi capitava spesso di chiedermi, quando la notte il bambino non mi lasciava dormire, dove fosse e cosa stesse facendo.
Si era trovato un’altra ragazza? Aveva cambiato città, vita, amici? Era più felice?
Non avevo mai trovato risposta a nessuna delle mie domande, ma c’è anche da dire che non mi ero neanche presa la briga di impegnarmi per trovare una di quelle risposte.
C’erano dei momenti, però, in cui avevo la strana sensazione che il bambino si rendesse conto che Danny non c’era. Quando sentivo la sua mancanza, avevo l’impressione che il bambino scalciasse con più frequenza del solito.
Come in quel momento, ad esempio. Mentre pensavo a Danny nella puzzolente sala d’aspetto di quell’ospedale, il mio bambino stava tirando al mio ventre tanti piccoli calcetti.
La donnetta tozza uscì di nuovo dalla porta bianca, chiamando un altro nome ancora, ed i genitori di Andy si alzarono, diretti verso di lei.
Io avevo un appuntamento con la ginecologa per le dieci, ma ero arrivata con largo anticipo. Era una cosa assurda, dato che odiavo gli ospedali, ma preferivo essere sommersa dal fastidioso odore del disinfettante piuttosto che dalle continue attenzioni e raccomandazioni di mia madre.
Nonostante tutto, i miei avevano preso la faccenda della gravidanza piuttosto bene. Inizialmente mio padre mi aveva fatto una ramanzina quasi imbarazzante, dato che sembrava voler conoscere ogni particolare del come e del dove il concepimento era avvenuto, fortuna che mia madre aveva avuto il buon senso di fargli notare che conoscere quella parte della storia non gli sarebbe piaciuto affatto. E mio padre si era ritrovato a darle ragione, dato che era arrossito ed aveva immediatamente chiuso bocca, risedendosi sul divano e sbuffando improperi in direzione del televisore.
Riabbassai lo sguardo sulla rivista, mentre Andy e i suoi genitori sparivano dietro alla porta bianca. Pochi secondi dopo, una manina paffuta si appoggiò sul mio ginocchio e, quando alzai gli occhi, trovai il volto sorridente di Andy che mi osservava.
“E tu cosa ci fai qui?” domandai, con un sorriso.
“Be’,” cantilenò, sedendosi accanto a me, “la mamma ha papà, mentre tu sei tutta sola, pensavo che potevo fare finta di essere il papà del tuo bambino, così ti faccio compagnia.”
Sorrisi, accarezzandogli il capo.
“Sai, Andy, se fossi un po’ più grande m’innamorerei di te.”
Andy arrossì, e il rossore sulle sue gote mise in evidenza una schiera di chiare lentiggini.
“Ma io sono grande, sai,” disse, alzandosi in piedi sulla sedia di plastica. “Sono il più alto della mia classe e ormai ho già sette anni,” continuò, alzando il mento.
Io ridacchiai, prendendolo per i fianchi e mettendolo a sedere sulle mie ginocchia.
“Hai proprio ragione, Andy, ormai sei grande.”
Lui sorrise, girandosi verso di me ed appoggiando entrambe le mani sulla mia pancia.
“Quindi vuoi dire che posso essere il papà del tuo bambino?” chiese, con una luce speranzosa negli occhi.
Scoppiai a ridere, divertita, accarezzando le mani del bambino che erano appoggiate sul mio ventre.
“Sì, puoi essere il papà del mio bambino, oggi.”
Andy sorrise, raggiante, ed iniziò a tracciare linee immaginarie sulla mia pancia.
Per la quarta volta quella mattina, la porta bianca si aprì e la donnetta tozza uscì nella sala d’aspetto.
“Elizabeth Clark.”
Io presi Andy in braccio e mi alzai. Il bambino iniziò a giocare con i miei capelli ed insieme varcammo la piccola porta bianca.
Ciò che era al di là della porta era forse peggio della sala d’aspetto.
L’odore di disinfettante era più forte che mai e lo sguardo che l’infermiera rivolse al mio ventre era quasi irritato.
Quando mi lasciò davanti alla porta della ginecologa, appoggiai Andy a terra e gli accarezzai il capo.
“Su, vai dalla tua mamma Andy.”
Il bambino parve contrariato ed alzò lo sguardo verso il fondo del corridoio dove, davanti ad un altro banco della segreteria, i suoi genitori lo stavano aspettando.
“Ma il tuo bambino, come farà senza un papà che gli vuole bene?”
Quelle parole mi colpirono molto più di quanto detti a vedere.
Sorrisi ad Andy e lo spronai a raggiungere alla sua famiglia, rassicurandolo che il mio bambino se la sarebbe cavata alla grande.
“Ci vediamo Andy,” gli dissi, mentre si allontanava, e sventolai la mano in segno di saluto.
Lui mi sorrise, prima di fiondarsi tra le braccia del padre ed uscire all’aria aperta assieme ai suoi genitori.
Sospirai, afflitta, appoggiandomi una mano sul ventre.
Il pensiero che il mio bambino non avrebbe mai potuto godere di una gioia come quella era la cosa che più mi aveva fatto soffrire negli ultimi tempi.
Scacciando via quei pensieri, avvolsi le dita attorno alla maniglia della porta ed entrai nel piccolo studio della dottoressa Clover, la quale mi accolse con un sorriso.
“Allora, Elizabeth, come andiamo?”
Finsi un sorriso tranquillo e mi stesi sul lettino al centro della stanza.
“Le caviglie mi sono gonfiate un po’ e questa piccola peste scalcia di continuo, ma penso che sia una cosa normale.”
La dottoressa sorrise, sollevandomi la maglia e spalmando un po’ di gel sul mio ventre.
“Oh, sì, è tutto più che nella norma. Ormai sei quasi alla fine, è normale che il bambino si faccia sentire un po’ più spesso.”
Iniziò a passarmi la sonda sulla pancia, spargendo il gel fresco sulla mia pelle.
“Sa, nonostante non mi faccia dormire la notte, sono felice.”
La dottoressa Clover abbozzò un sorriso, continuando a muovere la sonda.
“Ecco, guarda là,” disse, indicandomi lo schermo alla mia sinistra. “Il tuo bambino è sano come un pesce. Guardalo, si succhia anche il pollice!”
Sorrisi. Nonostante il mio odio per gli ospedali fare le ecografie era una cosa meravigliosa. Vedere il mio bambino che si muoveva, sentire il suo cuore battere, mi dava la certezza che lui c’era, che era .
Prima di lasciare lo studio, la dottoressa mi diede una cassetta, dicendomi che conteneva il video che l’ecografo mi aveva mostrato durante la visita e, insieme ad esso, mi consegnò anche una serie di fotografie in bianco e nero dove, di un chiaro grigio slavato, spiccava il corpo del bambino.
La ringraziai ed andai al banco della segreteria per fissare il prossimo controllo, l’ultimo prima del mio ricovero in ospedale.
Quando uscii fuori, l’aria fresca di Marzo mi sferzò la pelle ed i timidi raggi del sole non ci misero molto a raggiungermi.
Iniziai a camminare per Londra con passo calmo, una mano appoggiata sul ventre e l’altra che reggeva la cassetta e le fotografie.
La gravidanza mi aveva reso emotivamente imprevedibile ed in quel momento, nonostante tutti i brutti pensieri che mi avevano colta in sala d’aspetto, mi sentivo la persona più felice del mondo.
Camminai per un bel po’ tra la gente, beandomi di quel caldo sole primaverile e delle occasionali folate di vento; nonostante il Marzo Londinese fosse notoriamente freddo, quell’anno le stagioni erano state piuttosto clementi e ci avevano regalato un Marzo piacevolmente accompagnato dai raggi del sole.
Casa dei miei si trovava nella zona di Kensington, era una delle tante villette che si susseguivano lungo le vie di quel quartiere, con giardini ben tenuti ed auto eleganti parcheggiate di fronte ai cancelletti di ferro battuto.
Non mi piaceva il fatto di essere nata nella zona ricca di Londra, un po’ perché i ragazzi del mio quartiere avevano tutti la puzza sotto il naso, un po’ perché sentivo di appartenere più a zone come Soho o Camdem Town.
Preferivo sedermi ai piedi della statua che troneggiava al centro di Trafalgar Square, piuttosto che cibare le anatre nel laghetto di Hyde Park, o osservare la statua di Peter Pan a Kensington Gardens.
Mi piaceva girellare per i negozietti di Soho o tra le bancarelle del mercato di Camdem Town; mi piaceva l’affollata e chiassosa zona di Piccadilly Circus, con i turisti che si muovevano avanti e indietro, quasi emozionati.
Mi piaceva la Londra viva, e la Londra ricca era tutto tranne quello.
Continuai a camminare lungo il marciapiede con una mezza aria trasognata quando, avvicinandomi alla villetta dei miei genitori, individuai una figura seduta per terra davanti al cancelletto di ferro battuto.
Nonostante non lo vedessi da quasi nove mesi, Danny non era diverso da come lo ricordavo. Forse si era fatto crescere un po’ i capelli, leggermente più lunghi rispetto all’ultima volta che l’avevo visto, ma a parte quello, non c’era nulla di diverso in lui.
“Ciao,” abbozzò un sorriso, alzandosi in piedi.
“Ciao,” risposi. Ero tremendamente felice di rivederlo, ma non avevo alcuna intenzione di fingere che la sua fuga non fosse mai avvenuta. “Hai bisogno di qualcosa?”
Lui sembrò quasi ferito dal mio distacco ma, se in un primo momento pensai di essere stata un po’ troppo dura, decisi che meritava di stare male un po’ anche lui.
“Volevo, ehm…volevo sapere come stavi.”
“Io e il bambino stiamo bene, grazie.”
“E’ un maschio?” chiese, avvicinandosi di un passo. Io inarcai le sopracciglia. “Sì, insomma, hai detto bambino, è un maschio?”
Io annuii, appoggiandomi una mano sul ventre.
“Lo so che sono stato un idiota,” disse, dopo un po’. Io alzai lo sguardo su di lui, incrociando le braccia tra il ventre ed il seno ed arricciando le labbra.
“Sono felice che tu te ne sia reso conto.”
“Volevo tornare da te ma non sapevo come fare…cosa dirti...e allora…”
“E allora hai rimandato la cosa a data da destinarsi. Be’, Danny, io non sono un appuntamento dal dottore, non puoi pensare di posticiparlo e trovare posto comunque. Mi hai lasciata quando ti ho detto di essere incinta e sei sparito per otto mesi!”
“Lo so, lo so. Sono un idiota ma..”
“Ma cosa?” esclamai, infervorata. “Ma avevi paura? Non ti sentivi pronto? Be’, se non l’avessi notato sono io l’incubatrice ambulante tra i due! Come pensi che mi sia sentita io tutto questo tempo? Come pensi che mi sia sentita quando sei andato via da casa mia, sconvolto dal fatto che volevo tenere questo bambino? Mi sono sentita uno schifo, ecco come!”
Mi voltai, stringendo gli occhi per impedire alle lacrime di uscire fuori proprio in quel momento, proprio davanti a lui.
Feci per andarmene ma Danny mi afferrò per le spalle e mi fece voltare bruscamente verso di sé, puntando i suoi occhi dentro ai miei.
“Sono stato un bastardo totale, lo so, e in questi mesi non ho fatto altro che pensare a questo. Mi sono sentito una merda e l’unica cosa che sono stato in grado di fare fino ad adesso è stato sentirmi così!” urlò, continuando a tenermi saldamente per le spalle. “Quando sono andato via mi hai chiesto se volessi del tempo per pensare se volevo il bambino o se volevo stare con te. Io avevo bisogno di tempo per capire se ero degno di stare con te e di avere questo bambino. Dovevo capire se me lo meritavo. E non me lo merito, ma lo voglio comunque.”
Inspirò, chiudendo gli occhi per qualche attimo.
“Voglio stare con te e voglio questo bambino,” sussurrò, liberandomi dalla sua presa.
Mi massaggiai leggermente una spalla indolenzita mentre lo scrutavo di sottecchi.
“Tra due settimane ho l’ultima ecografia, puoi accompagnarmi, se vuoi.”
Il volto di Danny si illuminò ed un piccolo sorriso increspò le sue labbra.
“Questo non significa che è tutto apposto, Dan,” precisai, appoggiando una mano sul cancelletto di ferro.
“Significa che c’è una speranza?”
Mi voltai verso di lui, mentre il cancelletto si richiudeva dietro di me.
“C’è sempre una speranza, Danny.”
Gli detti le spalle e mi avviai verso la veranda. Sentii i suoi passi sul marciapiede sempre più lontani e, solo quando fui certa di non udirli più, mi voltai indietro.
Un mezzo sorriso m’increspò le labbra ed una delle mie mani corse sul ventre, ad accarezzare il bambino.
“Per tutto, c’è sempre una speranza.”

 
 
   
 
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