Disclaimer: i personaggi presenti in questa storia appartengono a Tolkien e a chi ne detiene i diritti. Non scrivo a scopro di lucro e nessuna violazione del copyright è intesa. Per citare/riprendere/tradurre questa storia in toto o in parte dovete avere il mio esplicito permesso.
Quenta Silmarillion
La storia dei Silmaril
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Capitolo I
Dell’inizio dei giorni
ovvero: se il buongiorno
si vede dal mattino…
In
quel tempo i Valar diedero ordine alla Terra; "ordine", tuttavia,
è una parola non dico grossa, ma quantomeno colossale se
riferita al macello che esisteva ai tempi in Arda.
E del resto come avrebbe
potuto essere altrimenti, in un regno che aveva Manwë al
comando?
Il
sovrano dei Valar, difatti, era solito dedicare tutte le sue energie ad
attività quanto mai sane e costruttive, alle quali abbiamo
già accennato in precedenza: bere, fumare, giocare
d’azzardo e organizzare festini. Poteva mai, povera stella,
badare alle regolari questioni amministrative presenti in ogni stato?
Ovviamente no; di conseguenza Arda era abbandonata allo sfacelo totale.
E, no, se ve lo state
chiedendo, non era affatto colpa di Melkor.
…D'accordo, d’accordo, diciamoci la verità: il diabolico fratello di Manwë ci metteva pure la sua candida manina, distruggendo quelle quattro cose buone che i Valar riuscivano a tirare su, ma gran parte del "merito" era da attribuire proprio ai Valar.
La
permanenza in Arda non li aveva migliorati di una virgola, come
audacemente sperato da Ilúvatar…
tutt’altro.
Ottusi, ripiccosi e
bastardi da fare schifo, i Valar impiegavano le loro giornate in
continui tentativi di ingannarsi a vicenda: in particolare, la frode di
territori era ormai all’ordine del giorno.
Ah, le prime gioie della proprietà privata…!
Gli
oceani di Ulmo si espandevano clandestinamente sopra le pianure di
Aulë; le piantagioni di Yavanna erano insediate dai pascoli
dei cavalli di Oromë; Manwë spazzava via con i suoi
venti dozzine delle odiatissime stelle di Varda… perfino
Mandos e Lórien, che erano fratelli e in teoria si dovevano
volere tanto bene, spintonavano di continuo i limiti dei rispettivi
possedimenti, che confinavano fra di loro.
‹‹Mi
serve spazio, Mandos, il mio circolo ricreativo per tossicomani ha
bisogno di grandi prati e tanta aria; non posso ammucchiarli tutti come
in un hotel giapponese! Hai presente quanti ne arrivano ogni
giorno?›› si lagnava Lórien.
‹‹Aulë la deve finire di far coltivare
tutte quelle piantine a sua moglie, non si può vivere
così…››.
‹‹Sì,
a te serve spazio›› rispondeva Mandos,
‹‹ma a me ne serve di più. Non hai
idea di quanti morti ci dovranno stare, qui dentro… Aaaah,
Alqualondë! Il Doriath! La Nirnaeth
Arnoediad!›› profetizzava con la
bavetta alla bocca e gli occhi iniettati di sangue.
‹‹Che
fa, la finiamo con tutta questa cagnara?››*
borbottava irritato Manwë. ‹‹Qua
c’è gente che cerca di
lavorare!››. Tuttavia mentiva spudoratamente: in
giro non c’era l’ombra di un lavoratore nemmeno a
pagarla oro, e lui non faceva di certo eccezione.
Sì, in teoria Manwë era Re… ma in realtà il vero Sovrano di Arda era il Caos assoluto.
In tutto questo, l’unico che non causava problemi era il buon Melkor. Nel momento stesso in cui Manwë era salito al trono, lui - avendo forse fiutato le disgrazie che ne sarebbero venute - prese armi, bagagli e servi e se ne andò in un luogo remoto chiamato Utumno. Lì costruì una cupa fortezza, vi si rifugiò e se ne rimase buono buono con i suoi uomini di fiducia a rimuginare su piani visionari di conquista del mondo, e usciva soltanto qualche volta per rovinare le fatiche dei Valar (e quindi, poveraccio, non usciva praticamente mai…).
***
Nel regno dei Valar, intanto, la situazione degenerava.
Dal momento che nessuno era intervenuto a
placare la disputa territoriale dei fratelli Morte&Miraggio,
questa aveva cominciato ad assumere proporzioni sempre più
vaste. Manwë, precursore di tanti futuri capi di governo, se
ne sbatteva alla grande, lasciando che fossero gli stessi interessati
ad arrangiarsi.
E gli interessati si
arrangiarono: di necessità virtù!
Gradualmente si armarono
di lupare, scacciacani, sfollagente e cecchini, rivendicando i loro
confini più o meno civilmente. A quel punto molti dei Valar
si allarmarono e divennero inquieti; all’unanimità
decisero di inviare un portavoce a Manwë, affinché
la situazione non sfociasse nell’irrimediabile.
‹‹Ok…››
disse allora Aulë, rivolto agli altri Valar
‹‹…chi va da
Manwë?››. Tutti deglutirono alla
prospettiva di un incontro ravvicinato con il loro poco amato Re, che
ultimamente - forse anche a causa dell’abuso di sostanze
strane - era caduto preda di qualcosa che assomigliava tremendamente
alla demenza senile (o alla demenza e basta).
‹‹Beh,
mandiamo un Maia, no?›› propose saggiamente
Yavanna.
E manco a dirlo, tutti i
Maiar presenti nel raggio di dieci chilometri si eclissarono
all’istante.
‹‹Vigliacchi…
sempre pronti a leccare, ma per una volta che c’è
davvero bisogno di loro…››
sibilò Oromë, sdegnato.
‹‹E
dai, compatiscili… a me fanno pena, mandiamo sempre loro!
Beh, allora…›› Aulë si
voltò verso i compagni
‹‹…dovrà andare uno di noi.
Il volontario faccia un passo avanti››.
Nel mezzo secondo che
seguì, i Valar si guardarono con aria complice e fecero
tutti un saltello all’indietro. Aulë alzò
le sopracciglia e si guardò intorno con aria prima basita,
dopo sospettosa, infine esasperata.
‹‹E
che strazio, mi fate ‘sto giochetto del passo indietro da
millenni, non sarebbe ora di crescere un
po’?!›› gemette.
‹‹Non
è colpa di nessuno di noi se sei fesso,
Aulë›› rispose Oromë cercando
in tutti i modi di mantenere un brandello di serietà,
sebbene si stesse spezzando le costole nel tentativo di non ridergli in
faccia. ‹‹E poi, dai, lo sai… tu sei
il più saggio e il più diplomatico, e ci vai
così d’accordo con Manwë, quale
ambasciatore migliore di te?›› si
affrettò ad aggiungere, seminando con precisione
millimetrica piccole dosi della ruffianeria delle origini.
Aulë non
sembrò pienamente soddisfatto dalla spiegazione, tuttavia,
rassegnato, si volse in direzione del Palazzo di Manwë,
lasciando finalmente i suoi (presunti) amici liberi di sghignazzare di
tanta irrimediabile ingenuità.
***
In quel momento il Re dei Valar si trovava nelle sue stanze, intento ad ultimare la sua beauty-routine quotidiana.
‹‹Specchio,
servo delle mie brame… chi è il Re più
bello del Reame?›› chiese ammiccando al proprio
riflesso nello specchio.
‹‹Eeeh,
ci fosse tutta ‘sta gran varietà di
scelta…›› sospirò lo
specchio.
‹‹Eh?››.
‹‹Ho
detto che sei l’unico babbeo dotato di corona in tutto il
mondo... Ci fosse un altro Re stai certo che parteggerei per lui,
così, soltanto per farti dispetto››
sogghignò lo specchio.
‹‹Ah…
eh?››.
‹‹Lascia
stare, rinuncio perfino a sfotterti, non
c’è gusto››.
‹‹…Comunque
non mi hai risposto. Ti rifaccio la domanda: specchio, servo delle mie
brame, chi è il Re più bello del
Reame?››.
A quel punto, se avesse
potuto, lo specchio avrebbe alzato le spalle e scosso la testa,
sospirando esasperato.
È ingiusto che agli specchi siano preclusi certi diritti,
soprattutto agli specchi che hanno a che fare con Re megalomani che non
si stancano di fare la stessa domanda tutto il giorno, tutti i giorni.
Lo specchio mise da parte quel poco di dignità che gli
restava e rispose:
‹‹Ma
sei tu il Re più bello del Reame,
Manwë…››.
‹‹Ah!
Lo sapevo! Nessuno mi può resistere, nemmeno gli
specchi!›› gongolò lo stupidissimo Re,
mentre lo specchio si appuntava mentalmente di tentare il suicidio il
prima possibile. ‹‹E ora dimmi: mirror, mirror on
the wall… true hope lies behind the
coast?››*.
‹‹Sì,
sì, come vuoi tu, guarda…››
rispose lo specchio, con una pazienza invidiabile.
‹‹Ma ora fammi la carità, piantala di
citare i Blind Guardian, che probabilmente nemmeno sai chi
sono… Piuttosto, alleggeriscimi la sofferenza: hai un
brufolo sul naso››.
‹‹Oh››
disse Manwë, avvedutosi della pustola.
Si stava appunto
preparando a giustiziarla come si conviene, quando un orripilato
Aulë tossì leggermente per segnalare la sua
presenza. No, non aveva proprio lo stomaco necessario a sopportare
tutto questo.
Seguì un breve silenzio imbarazzato, durante il quale Manwë dovette lottare contro se stesso per assimilare la figura di merda; Aulë dovette trattenersi per non vomitare; mentre lo specchio dovette farsi forza per non scoppiare a ridere.
‹‹Emh…
Aulë, amico mio!›› borbottò
infine Manwë alzandosi e andando incontro all’
"amico" (che dal canto suo in quel momento rinnegava qualsisi legame di
amicizia col Re). ‹‹Qual buon vento ti porta
qui?››.
‹‹…il
vento non è MAI buono: lo
governi tu!›› precisò lo specchio.
Manwë decise di ignorarlo, mentre Aulë indietreggiava
quanto più discretamente possibile dalla mano tesa del Re.
‹‹Oh…
Eh, ambasciata, Manwë››
riferì nervosamente.
‹‹Ambasciata?
E da chi, scusa?››.
‹‹Dai
Valar…›› rispose Aulë,
pregando che l’altro non chiedesse delucidazioni.
‹‹Ah…
sì, capito…››.
‹‹Oh,
bene, allo – ››
‹‹…ma
in genere non mandate i Maiar per queste cose?››
inquisì il Re. Aulë imprecò mentalmente.
‹‹Ehr…
i Maiar… hanno detto che andavano un attimo a comprare le
sigarette, ma non sono ancora tornati!››.
‹‹Oh,
capisco, capisco... e quindi hanno mandato te››
annuì Manwë, apparentemente soddisfatto della
spiegazione. Aulë non proferì verbo, non potendo
capacitarsi di tanta imbecillità: gli aveva rifilato la
stessa scusa che Manwë stesso usava da millenni per scappare
da Varda, e quello non aveva dubitato nemmeno un momento per
errore! Vergognoso, semplicemente vergognoso.
‹‹E
dunque? Che notizie mi porti?››.
‹‹Mandos
e Lórien si ammazzano, Re››.
‹‹Eh››.
‹‹E…?››.
‹‹E
allora?››.
‹‹Come
"e allora"?›› sbottò Aulë.
‹‹Lo
fanno sempre, mi sarei aspettato qualche
novità…››.
‹‹Sì…
stavolta usano anche i kalashnikov!››
ironizzò il Vala.
‹‹Oh!
Vedere! Vedere!›› esclamò tuttavia
Manwë correndo ad affacciarsi alla finestra, speranzoso.
Aulë rimase
fermo a fissarlo, indeciso se spingerlo fuori dalla finestra;
accoltellarlo ora che non guardava o aprirgli il cranio per controllare
cosa c’era dentro, se mai ci fosse stato qualcosa. Lo
specchio espresse la sua preferenza per la terza opzione; tuttavia il
buon Vala, che forse in tutto il regno era l’unico con una
briciolina di giudizio, fece appello a tutta la sua forza e
andò a riprendere il Re.
Questi, tuttavia, non
sembrava intenzionato a mettere in azione il misterioso contenuto della
sua scatola cranica, cosicché il povero Aulë, come
risorsa ultima, invocò il nome di Ilúvatar.
Ma così,
tanto per abitudine, mica perché ci sperava veramente...
E
allora Ilúvatar, che fino a quel momento se ne era stato
tranquillo a spiare col cannocchiale le disavventure dei Valar,
parlò.
Attenzione,
però: non lo fece né per pietà
né per amore paterno. In realtà ci godeva da
morire a vedere Aulë che sprecava la sua voglia di vivere
appresso a quel babbeo… ma ci sono dei casi in cui
è necessario l’intervento della Divina
Provvidenza, e mettere Manwë in condizione di pensare
è uno di quei casi.
L’Onnipotente
si schiarì la gola. La sua voce tuonò
all’improvviso nelle orecchie dei due Valar.
‹‹Manwë!››.
‹‹Eh?
Chi è?››.
‹‹Sono
io, Eru, Ilúvatar!››.
‹‹Oh…
Eh… Ilúv… Ah!
Padre! Che meraviglia!›› replicò
Manwë quasi istintivamente.
‹‹Padre!››
urlò invece Aulë, alzando le mani e il volto al
cielo, quasi in lacrime, sinceramente commosso.
‹‹Ma allora esisti davvero! Ti giuro che da
quando Manwë è Re non ci credevo
più… Oh, Ilúvatar, Eru, Yaveh, Buddah,
Allah, Tizio, Lenin o come vuoi essere chiamato, grazie,
grazie!››.
Tuttavia
Ilúvatar lo ignorò quasi del tutto, preferendo
dedicarsi al difficile miracolo di mettere in moto il criceto che
abitava la mente di Manwë.
‹‹Manwë,
figlio mio, ora ascoltami›› gli disse con tutta
la pazienza possibile. ‹‹Con attenzione,
però, eh? Non al solito tuo che fingi di ascoltare e invece
pensi al Fantacalcio!››.
‹‹Uh-uh››
bofonchiò il re, ferito nell’orgoglio.
‹‹Ecco…
bravo. Dunque, hai presente Mandos?››.
‹‹Mandos?
Mandos chi?››.
‹‹Manwë…››.
‹‹Ok,
scherzavo, ce l’ho
presente…››
‹‹Eh.
Che Vala è Mandos?››.
‹‹Il
Vala dei Morti…››
‹‹Eh.
E qual è la sua parola preferita da ancora prima che
mettesse il suo primo dentino?››.
‹‹Ehr…
"sangue"?››.
‹‹Bravo.
E se gli si lascia uno sfollagente, un kalashinkov o un’arma
qualsiasi in mano, che cosa succede?››.
‹‹…››.
‹‹Dai,
te lo dico io: l’ecatombe, succede››.
‹‹Oh››.
‹‹"Oh"
non corrisponde nemmeno lontanamente a quella che dovrebbe essere la
risposta adeguata alla mia affermazione,
Manwë›› commentò stizzito
Ilúvatar.
‹‹Ma…››.
‹‹No,
tappa la fogna e lasciami finire, se mi interrompi non ti do la
paghetta.›› Manwë tappò la
fogna immediatamente. ‹‹Bravo, gioia di
papà. Allora… io sono l’Onnipotente e
tutto il resto, giusto?››.
‹‹Emh…
giusto?›› chiese il Vala voltandosi verso
Aulë in cerca di suggerimento.
‹‹Era
una domanda retorica…››
sospirò Ilúvatar, mentre lo specchio gli offriva
tutto il suo sostegno ("Pensa a me, io ci ho a che fare ogni
giorno…").
‹‹Comunque…
sì, sono l’Onnipotente. La sai tutta quella
tiritera sul mio disegno imperscrutabile e tutto il resto, no? Te
l’hanno insegnata a catechismo, la devi sapere per forza.
Ecco. Siccome io ho deciso che in questa storia il ruolo del pazzo
sterminatore fratricida spetta a *qualcuno* che nascerà fra
circa un paio di millenni…››
cominciò, ma a quel punto anche Aulë lo interruppe.
‹‹Chi?
Chi è?›› chiese curioso.
‹‹Non
te lo posso dire… il disegno è
imperscrutabile!›› nicchiò
Ilúvatar.
‹‹Ma
io lo voglio sapere!›› si intromise
Manwë.
‹‹Ecco,
bravo! Ora non ce lo dice per dispetto!››.
‹‹Esatto…
dai, mi fate pena, però…››
disse l’Onnipotente, che in fondo in fondo aveva pur sempre
un cuore di padre. ‹‹E va bene, vi anticipo
qualcosa, però poi tacete e mi fate finire il
discorso››, concesse. I Valar esultarono.
‹‹Dunque…
Il pazzo sterminatore fratricida avrà un’infanzia
così tragica che pure Remì, Georgie, Lovely
Sarah, Candy Candy, Heidi, Harry Potter, la Piccola Fiammiferaia e
tutti i personaggi di Dickens lo guardano, scuotono la testa e dicono: "Che
ragazzo sfortunato". Sarà di carattere gentile,
solare e disponibile come un’ulcera particolarmente violenta;
e nel tempo libero farà figli come un coniglio, salvo poi
portare tanta di quella sfiga da farne morire sei su sette. Ho
detto››.
Aulë e
Manwë si guardarono poco convinti. Ilúvatar
tornò allo scopo principale del suo intervento divino.
‹‹Dicevo…
Manwë, capisci bene che, essendo il ruolo
dell’assetato di sangue già occupato, Mandos non
può usurparlo come invece brama follemente, con tanto di
rivoletto di bava all’angolo della bocca. E considerato che
tu sei il Re, tocca a te impedire che questo accada. Ora ti metti la
corona sul tuo capoccione vuoto, vai là e fai sì
che Morte & Miraggio la piantino di scannarsi per quei due
pugnetti di terra. Altrimenti…››.
‹‹…mi
tagli la paghetta?››.
‹‹No.
Ti stacco Sky›› tuonò
Ilúvatar, e non parlò più, lasciando
il silenzio nella stanza e nel cuore di Manwë.
…Che
obbedì.
***
‹‹Eh?››
Aulë aveva ascoltato le richieste di Manwë con
crescente incredulità. ‹‹Scusa, puoi
ripetere? Vuoi due pali alti tremila metri e pesanti seicento
tonnellate l’uno… e li vuoi con le lucette
in cima? Manwë…›› disse il
Vala con appena un filo di voce
‹‹…capisco l’idea di
delimitare in modo definitivo i confini delle Aule di Mandos e dei
Giardini di Lórien, d’accordo. Ma lasciatelo dire:
ci sono almeno altre due dozzine di modi per farlo! Che so, una
staccionata, un cancello, le transenne, del filo spinato, un
muro… e tu no! Tu te ne esci con i pali
luminosi! Ma posso sapere da dove
ti è uscita quest’idea?!... Oddio, per la
verità ce l’avrei un’ipotesi, ma siamo
in prima serata…››.
Manwë,
stravaccato in poltrona intento ad arrotolare erbe di dubbia origine,
guardò l’amico con una faccia che sottintendeva
qualcosa tipo "io-sono-un-genio-e-tu-sei-scemo".
‹‹Ah,
Aulë, Aulë… mio buon
Aulë…›› esordì,
costringendo l’altro a farsi forza per non azzannarlo al
collo ‹‹…possibile che ti debba
spiegare tutto io? Come si vede che non sei Re! Beh, ma
dimmi… hai parlato di staccionate e cancelli. Ma ai costi di
manutenzione ci hai pensato?›› chiese, e a quel
punto Aulë sgranò gli occhi.
‹‹I
costi di manut – ››.
‹‹Sì…
e il pensiero di aprire cantieri per tutti quei chilometri di confine
mi fa stare male, non puoi capire›› concluse il
Re con tono teatrale e l’espressione criptica alla Elijah
Wood. ‹‹Naaah, naah, molto meglio i pali! Uno a
nord e uno a sud: solidi, visibili, luminosi anche al
buio…››.
‹‹…e
in vendita nei migliori negozi di giocattoli››.
‹‹Cosa?››.
‹‹Niente.
Piuttosto, scusa se ti ribadisco il concetto, Manwë, ma vorrei
ricordarti che io sono l’unico
artigiano di Arda. Non è che ti passa per la testa che
l’impresa vada un po’ oltre le mie
possibilità?››.
‹‹Uff.
Stai sempre a lagnarti, sei una piaga. Cosa vuoi che ti dica? Fatti
aiutare da Tulkas, no?››.
Aulë
aprì la bocca per ribattere, ma non ne aveva nemmeno la
forza.
Dire "Fatti
aiutare da Tulkas" equivaleva più o meno a "Legati
una pietra al collo e gettati da un ponte": quale, quale
aiuto avrebbe mai potuto fornire l’Idiota che Ride Sempre? Al
pensiero di quest’eventuale collaborazione, i nervi di
Aulë sussultarono in segno di protesta.
Tuttavia, prima che
Manwë se ne potesse uscire con qualche altra stronzata, il
Vala si volse all’opera.
Quelli, per Aulë, sarebbero stati i giorni in cui avrebbe rischiato maggiormente di diventare un serial killer.
‹‹Duemilanovecentonovantanove…
duemilanovecentonovantanove e mezzo… tremila!
Finito il primo! Tulkas, passami le luci››.
‹‹Ah
ah, ah ah ah!››.
‹‹…Tulkas,
le lucette, per favore››.
‹‹Ah
ah ah ah ah, oddio, ah ah ah!››.
‹‹T-Tulkas…››.
‹‹Mppphh….
Eh eh eh eh!››
‹‹…Tulkas?
♪ ››.
‹‹Mpphh…
Sì?››.
‹‹Vaffanculo››.
‹‹…Ahahahah!!!››
‹‹Oooh!
Finito? Era ora, finalmente!››.
Manwë e i Valar
erano giunti ad osservare l’opera di Aulë completa.
Questi aveva la faccia di uno che desidera davvero, davvero morire.
Sì, aveva
finito… ma i rimasugli del suo sistema nervoso non ne erano
entusiasti.
Non
è tanto per il lavoro in sé e per sé, considerò Aulë,
è più che altro la frustrazione di avere
assecondato i deliri di Manwë. Oddio, anche Tulkas tanto bene
non mi ha fatto, lui e la sua perenne risata…
E avrebbe
continuato così ancora per molto, diventando sempre
più pericolosamente simile a Mandos, se la voce di
Manwë non lo avesse riscosso da queste riflessioni.
‹‹…sì,
insomma, io dico che si poteva fare di meglio, ma alla fine non
è malaccio. Bene, popolo, ora sapete cosa vi
dico?››.
I Valar lo guardarono
speranzosi; tutti tranne Aulë che tremò,
impallidì e cominciò a sudare freddo. No,
no, ti prego, sono stanco morto, fa che Manwë non se ne esca
con la sua ennesima, interminabile…
‹‹…FESTAZZA!!!››.
‹‹WOOOHOOOO!!!››
***
Così accadde che Manwë diede un festin… ehr, una grande festa sull’isola di Almaren. Tutti i Valar furono entusiasti e si affrettarono ad accorrere con le loro schiere, portando tutto il necessario: cibo, alcolici, erbe, travestiti, luci psichedeliche e, cosa fondamentale, gli ultimi successi dei loro cantanti preferiti, quali Lady Gaga, Britney Spears, Eminem e tutto il panorama musicale dal pop più tristemente commerciale in giù, fino alla musica house.
E la festa cominciò, fra grandi risate e grandi vaccate.
Ad
Utumno, però, la pace stava per essere rovinata.
Melkor, fedele alle sue
abitudini, stava giustappunto esaminando l’ennesimo delirante
schemino di conquista del mondo, quando qualcosa turbò il
suo superudito.
‹‹Sauron?››
disse.
‹‹Comandi,
patrone…››.
‹‹Sauron,
dimmi… non senti anche tu un terribile
suono?››.
Il Maia alzò
le sopracciglia, si guardò attorno e spalancò i
padiglioni auricolari.
‹‹Ebbene?››.
…No, per la
verità lui non sentiva proprio niente. Era tuttavia nel suo
interesse essere d’accordo col "patrone".
‹‹Certo,
patrone, un suono veramente orrib – ››.
‹‹Sauron…
questo- questo è
l’ultimo cd del Festivalbar!››
sputacchiò Melkor, cominciando ad alterarsi.
‹‹E io non avevo forse dato disposizione che
nella mia reggia si ascoltasse solo musica dal rock in
su?››.
‹‹Patrone,
vero è! Mi pare strano forte. Volete che faccio un giro di
ricognizione? Ho il vostro permesso di sistemare personalmente il
colpevole?›› rispose Sauron cominciando ad
imbracciare la fedele lupara.
‹‹…Sauron?››.
‹‹Patrone?››.
‹‹Quante
volte te lo devo ripetere che qua le tue origini mafiose non sono
gradite?›› tuonò Melkor alzandosi in
piedi e sovrastando Sauron di un paio di metri.
‹‹Fammi la cortesia, sopprimi le radici sicule e
togliti questo cappello ridicolo!››.
‹‹La
coppola fa molto "signore Oscuro", patrone. E anche i
baffetti…›› ribatté Sauron
lisciandosi i baffi con aria trasognata.
‹‹Sauron,
levati da davanti i miei occhi,
và…›› bofonchiò
Melkor crollando esausto su una sedia. I muri della
sicilianità di Sauron erano difficili da abbattere persino
per lui. ‹‹Comunque no, non hai licenza: ci
penserò io al colpevole o ai colpevoli. Ora
vai››.
‹‹Come
comanda vossignoria. Baciamo le mani!››.
Il luogotenente di Melkor si recò sulla torre più alta di Utumno. Scrutò l’orizzonte per un po’… e alla fine pensò che questo al "patrone" non sarebbe piaciuto proprio per niente.
‹‹Allora,
Sauron?››.
‹‹Patrone,
veramente, ve lo dico da figlio: sedetevi››.
‹‹Sono
seduto, Sauron››.
‹‹Allora
alzatevi, patrone››.
Melkor fu fortemente
tentato di tirare una capata alla parete. Ma qual era, qual era la
cattiva azione che aveva fatto per meritarsi il luogotenente mafioso e
tardo?
Si fece un veloce esame
di coscienza: ok la sua fedina penale non era proprio immacolata, ma
essere punito con una piaga come Sauron, francamente, gli sembrava un
po’ eccessivo. Gemette e fece segno al sottoposto di
proseguire.
‹‹Allora,
patrone, io ve lo dico, però ricordatevi che io non
c’entro niente, ah››.
‹‹Sì,
ma a me sta venendo l’ulcera solo ad ascoltarti, se continui
ancora un po’ non avrò nemmeno la forza di
incazzarmi, credimi…››.
‹‹Patrone,
il terribile suono non viene dalla reggia››.
‹‹E
fin qua c’ero arrivato anche io… nessuno ad Utumno
è tanto idiota da ascoltare quelle porcherie e sperare di
passarla liscia. Da dove viene allora?››.
‹‹Viene
precisamente da quel posto in cui ci vive quello che voi non volete che
nominiamo, patrone››.
‹‹Chi,
Lord Voldemort?›› ironizzò Melkor.
‹‹Sauron, fammi la carità, parla
potabile!››.
Sauron
mugugnò qualcosa, a disagio.
‹‹Eh?››.
‹‹Ci
vivono… quelli come voi che però voi siete meglio
assai!››.
‹‹Cosa
vai blaterando, Sauron?›› indagò
Melkor, troppo esaurito perfino per mettersi a decifrare i deliri del
suo sottoposto. Tuttavia il Maia si rifiutò di dire altro,
così l’inevitabile risposta prese forma nella
mente di Melkor.
Era evidente:
Manwë e i Valar si stavano dando alla pazza gioia nel bel
mezzo dell’ennesimo festino. In genere Melkor se ne sarebbe
fregato alla grande, ma era inaccettabile che quell’orribile
musica penetrasse fin dentro le torri di Utumno!
Così Melkor,
che in fondo era un animo candido, decise di andare a salvare il mondo
da quello scempio. A modo suo…
Manwë era molto soddisfatto: la
festa procedeva alla grande!
Si guardò
attorno e fece una rapida stima: metà dei partecipanti erano
già avvinazzati che era una meraviglia; un po’
tutti erano già alla loro ventesima canna; i travestiti
stavano riscuotendo enorme successo… per finire, il tutto
era accompagnato dalle soavi note dell’house più
scadente in circolazione.
Mentre i Valar davano
sfogo al loro entusiasmo nei modi più fantasiosi e
disparati, il solo Aulë se ne stava seduto in solitudine, in
un luogo relativamente riparato. Era riuscito a strisciare via dai
meandri del festino e adesso desiderava solamente un po’ di
pace e di silenzio per il bene del suo sistema nervoso
sull’orlo della crisi. Stava per l’appunto cercando
di isolare la sua mente dagli echi del casino poco distante, quando una
nera figura gli passò di fronte.
Il Vala, preoccupato, si
fece piccolo piccolo e tentò di non farsi vedere: non si sa
mai che Manwë avesse mandato qualcuno a cercarlo!
Tuttavia si
stupì quando sentì la nera figura scandire
chiaramente: ‹‹Che musica di
merda!››.
Il buon Aulë,
che in cuor suo era sempre stato d’accordo con quel parere,
fu colto da sorpresa. La nera figura ne udì il sussulto e si
voltò, rivelando il proprio volto.
‹‹Melkor?
Tu qua?›› chiese Aulë, con gli occhi a
palla.
‹‹Purtroppo…››
rispose l’altro. ‹‹Ti trovo male,
Aulë››. Il Vala chiuse gli occhi e
scosse le spalle, come a dire ‹‹Vorrei
vedere te…››.
Melkor tornò
a puntare lo sguardo verso le luci del festino con aria profondamente
disgustata. Il Vala era preda di sentimenti contrastanti: era in
presenza di Melkor, il pericolo pubblico numero uno al mondo,
nonché suo personale rivale, arcipuffolina! A rigor di
logica avrebbe dovuto assalirlo oppure chiamare i soccorsi, o alla
peggio scappare. Tuttavia un sentimento di speranza di
impossessò di lui.
‹‹Ti
prego…›› disse
‹‹…fa’ qualcosa, fermali!
Non posso sopportare questa musica ancora a
lungo!›› biascicò gettandosi ai piedi
di Melkor. Questi lo guardò stupefatto e incredulo: a che
cosa porta la disperazione! Si divincolò poco gentilmente
dalla presa di Aulë e si diresse con passo minaccioso verso il
luogo della festa, deciso più che mai a fermare quello
scempio.
Sbarazzatosi in un batter d'occhio del Maia
addetto alla musica, Melkor staccò lo stereo. Guardò gli altri per un
attimo… e quell’attimo fu sufficiente a scatenare
il panico.
Tutti i Maiar scapparono
all’istante, gran parte dei Valar, nella confusione,
rovesciò tavoli, mobili, cibo e casse; Manwë,
improvvisamente conscio del suo ruolo di Re, cercò di
mantenere la calma, ma nessuno lo stette a sentire; Nienna piangeva e
con lei tutte le Valiër; Tulkas rideva (ma quello sempre),
Mandos ne approfittò per tirare fuori la scacciacani e
sparare a salve; Yavanna cercava disperatamente di mettere in salvo
tutte le piantine che poteva; Oromë non trovò di
meglio da fare che suonare il suo corno…
Melkor
continuò a guardarli, chiedendosi seriamente se fossero
scemi o cosa. Lui non aveva mosso un dito: si era limitato a staccare
la musica, in fondo era quella che gli dava fastidio! Scosse le spalle
e fece per andarsene, abbastanza schifato, ma la voce di Manwë
lo trattenne.
‹‹Beh?
Tu spunti qui, fai tutto sto casino e ora pensi di andartene come se
nulla fosse? In guardia!››.
Melkor lo
guardò, appuntandosi mentalmente di non dubitare mai
più della cretinaggine dei Valar.
‹‹A
parte il fatto che il casino lo state facendo tutto da
soli…›› rispose accennando con la
testa ai Valar in preda alla follia
‹‹…comunque sono di fretta. Ho
lasciato Utumno in mano a Sauron e non sono tanto
tranquillo…››.
Ad Utumno…
‹‹Allora,
ripetete con me, d’accordo? Uno, due
tre…››.
‹‹…Questa
è una proposta che non si può
rifiutaaare!››.
Sauron
guardò gli Orchetti che stava istruendo, sinceramente
commosso. Oh, il "patrone" al ritorno sarebbe stato così
contento!
‹‹…Ho una
pessima sensazione›› disse fra sé e
sé Melkor. ‹‹Me ne vado, alla
prossima!››.
‹‹M-ma
come?›› chiese Manwë non potendosi
capacitare di tanta fortuna. ‹‹Te ne vai
così, senza distruggere niente, senza fare del male a
nessuno, senza spargimenti di sangue,
senza…››.
‹‹Mi
sembra che vi facciate già abbastanza male da
soli›› obiettò Melkor alzando un
sopracciglio. ‹‹In ogni caso, che ti devo dire?
Se ci tieni così tanto non ho il cuore di
rifiutare…››.
Detto ciò, il
Vala oscuro estrasse un mazzo di chiavi e cominciò a
graffiare tutti i cd. Il panico dei Valar raddoppiò. A quel
punto però Melkor, genio del male, ci prese gusto. Si
voltò verso giganteschi i pali luminosi.
‹‹E
questi che vaccata sono? Bah, non mi piacciono, troppa
luce…›› e con uno schiocco delle dita
i pali caddero rovinosamente al suolo. Soddisfatto se ne
tornò in Utumno, lasciando grande rovina dietro di
sé.
Ebbe così termine la Primavera di Arda. La dimora dei Valar su Almaren venne completamente distrutta ed essi non avevano luogo in cui stare sulla faccia della Terra. Lasciarono quindi la Terra di Mezzo e si recarono nella Terra di Aman, la più occidentale di tutte le regioni ai confini del mondo.
Le
leggende e i racconti degli Elfi (di cui io, ribadisco, non
mi fido. N.d.A.) narrano che nella terra chiamata Aman i
Valar costruirono la propria città, che chiamarono Valinor.
Essa, stando alla leggenda, era la più beata e la
più splendente fra tutte le città mai costruite
in Arda… però, considerato chi ci
abitava e chi l’aveva
costruita, tutti noi abbiamo il sacrosanto diritto di dubitarne
fortemente.
Uno dei più antichi miti trasmessi attraverso i racconti
degli Elfi è quello che narra la creazione dei due Alberi
Sacri di Valinor.
‹‹Sì,››
raccontavano le mamme ai piccoli elfini prima di metterli a letto
‹‹e allora Yavanna cantò e sul colle
Corollairë nacquero due grandi alberi, uno d’oro ed
uno d’argento…››.
Tuttavia i piccoli
elfini, pignoli, giustamente chiedevano: ‹‹Mamma,
come fanno due alberi a nascere da un canto? Non si può! Lo
dice pure la filastrocca: per fare l’albero ci
vuole il seme, per fare il seme, ci vuole il frutto…››.
‹‹Oh,
che strazio: dormi!›› rispondevano le mamme, e
così sia gli elfini sia il legittimo dilemma restavano senza
risposta.
Ora, è vero che sul colle Corollairë c’erano due alberi d’oro e d’argento, ma la verità sulla loro creazione è ben meno poetica della versione ufficiale. Ve la racconteremo.
Varda Elentári e Yavanna
Kementári erano, come sappiamo, grandi amiche e strettissime
comari. Avevano una piaga in comune: i loro mariti erano sempre nei
sobborghi di Valinor ad ubriacarsi e a scommettere. Così,
per ingannare le ore di solitudine, le due Valiër usavano
trascorrere molti pomeriggi assieme.
Un dì che
Yavanna era andata a far visita a Varda alle sue Aule sul Taniquetil,
le due amiche decisero di andare in terrazza.
Erano per
l’appunto immerse in uno dei loro discorsi su quanto fossero
zotici e villani i rispettivi mariti; su come non ci fossero
più le mezze stagioni; su come fosse noiosa la vita a
Valinor; sullo smalto che si scheggia e sulle doppie punte che spuntano
sempre, quando Yavanna – forse istigata dal marito, forse
proprio fine di natura sua – voltò il capo e
sputò i semi del frutto che stava mangiando giù
dalla terrazza.
Quei semi, pregni del potere di Yavanna, precipitarono intatti lungo
tutti i quattromila metri del Taniquetil e andarono a schiantarsi sul
colle Corollairë, alzando un gran polverone. Quando la nube si
diradò, al suo posto c’erano due alberi
meravigliosi.
Uno, maschio (e devo capire da cosa i
Valar ne hanno dedotto il sesso. N.d.A.), aveva foglie
verde scuro sopra e argento sotto e da ognuno dei suoi innumerevoli
fiori cadeva incessantemente una rugiada di luce argentea.
L’altro,
femmina (e anche
qui, il mistero… N.d.A.) esibiva
foglie di un verde delicato come quello del faggio appena intagliato
(eh?); i loro bordi erano di oro luccicante e dai suoi rami dondolavano
i fiori in grappoli di fiamma gialla, ognuno a forma di corno
scintillante che versava sul terreno una pioggia dorata. Essi vennero
chiamati Telperion e Laurelin (in
realtà avevano altri cinquemila nomi ciascuno, un
po’ come Aragorn, ma noi li chiameremo convenzionalmente
così. N.d.A.).
Tutti i Valar furono profondamente affascinati e ammirati da queste
meraviglie; Yavanna stessa non poteva capacitarsi di come avesse fatto
a creare tanta beltà sputando dei semi. Tuttavia in giro
raccontò che gli Alberi erano nati alla melodia del suo
magico canto e Varda, la sola a conoscere la verità,
custodì gelosamente il segreto, sobillata anche dalla
fornitura mensile gratuita di una cassa della magiche piantine di
Yavanna.
Note:
Voi
non potete capire quanti problemi mi ha dato questo capitolo. Ci ho
messo secoli a finirlo e tutt'ora non ne sono molto soddisfatta, ma non
sarei davero riuscita a fare di meglio. Passiamo ai credits:
*‹‹Che
fa, la finiamo con tutta questa cagnara?›› --> Si ringrazia Attilio La Rosa, il
mio professore di matematica, per questa perla di
comicità... XD
*‹‹E
ora dimmi: mirror, mirror on the wall… true hope lies behind
the coast?››-->
citazione da "Mirror Mirror" dei Blind Guardian.
*‹‹Dunque…
Il pazzo sterminatore fratricida avrà un’infanzia
così tragica che pure Remì, Georgie, Lovely
Sarah, Candy Candy, Heidi, Harry Potter, la Piccola Fiammiferaia e
tutti i personaggi di Dickens lo guardano, scuotono la testa e dicono:
"Che ragazzo sfortunato".›› --> questa battuta, che io adoro,
viene da http://dialetticamente.splinder.com, ad opera di Dama Gilraen.
Mi auguro che non mi si accusi di plagio: non avrei saputo come
esprimere meglio l'idea... ;_;
Mi premuro di rendere
grazie a Hikari, la mia sorellina/beta-reader personale/Supporto
Morale, che si sta sorbendo tutti i miei deliri e le mie paranoie
riguardo a questa parodia ^*^.
Una bacione grande a tutti quelli che mi hanno recensito finora ^^
Milako.