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Autore: romandreams    06/02/2012    0 recensioni
Salve a tutti! Avevo pubblicato questo racconto qualche giorno fa, ma devo aver sbagliato qualche cosa, dato che non appariva la storia. Ma adesso ho rimediato.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La via è deserta.
Nessun rumore ci sarebbe per la strada, se a camminarci non ci fossimo io, i miei passi pesanti, il mio respiro affannato e i battiti accelerati del mio cuore.
Strano che nessuno si sia affacciato da qualche finestra, per vedere chi è che fa tutto questo rumore alle quattro di mattina di un martedì qualsiasi, in un paesino sperduto della Brianza.
Come è possibile che non mi sentano?

Mi gira la testa e il rimbombo dei miei passi, non fa che peggiorare la situazione. Devo fermarmi: mi sento svenire.
Mi appoggio al muretto sul ciglio della strada. Sono senza forze: sto per perdere i sensi, lo so.
Conosco fin troppo bene questa sensazione. L’ho avuta praticamente tutte le domeniche fin da bambina, quando a messa il prete passava con l’incenso e io svenivo per quell’odore. E mia madre non voleva darmi retta. Ha continuato a farmi sedere ai primi banchi fino alla cresima, poi mi sono rifiutata, e ho iniziato a seguire la messa dal fondo, pronta ad uscire ai primi giramenti di testa.
È strano poi, come, prima di perdere i sensi, tornino alle volte in mente ricordi che pensavamo di aver dimenticato da tempo ormai.
E così, da una strada deserta e buia, mi ritrovo in una stanza luminosa e piena di bambini.

Che confusione che fanno! La testa mi fa male. Vorrei dirgli di fare silenzio, ma prima che io possa aprir bocca, una voce familiare dall’altra parte della stanza, minaccia di fare silenzio, pena niente succo di frutta a fine lezione.
I bambini subito tacciono.
Mi giro. Riconosco quella donna: è suor Gilda, l’incubo che ha tormentato noi bambini del paesello.
Suor Gilda era il prototipo della suora modello: bassa, grassoccia, baffuta, con gli occhiali a fondo di bottiglia e il nasone a patata. Proprio come quelle suore che si vedono nei film dove la protagonista è un’orfanella, che si ritrova a dover vivere dentro un orfanotrofio brutto e misero, con le suore che la trattano male, specialmente una, e nel nostro caso, quella è suor Gilda.
Mi guardo meglio intorno. Siamo in una stanza arredata solo da un lungo tavolo centrale in legno che occupa gran parte della stanza, delle sedie e alle pareti dei cartelloni dove spiccano scritte tipo “Dio è con noi” o “Il cammino di Gesù”.

Ora so dove sono. Mi trovo nella stanza dove facevo catechismo alle elementari, con suor Gilda come catechista.
Vige il silenzio nell’aula e i bambini si mettono a scrivere sul loro quaderno quello che la suora dice.
Leggo il titolo dal quadernino del bambino più vicino: c’è prima un titolo scritto in grande “I dieci comandamenti”, poi un sottotitolo più piccolo “numero cinque: non uccidere”.
La suora dice il mio nome ad alta voce.
- Maria!
Trasalisco.  Impossibile che la suora mi veda. Questo è un sogno, è la mia coscienza che mi vuole punire di quello che ho fatto, è categoricamente impossibile che lei sia in grado di vedermi. E poi la baffona è andata al creatore prima che avessi 15 anni, e non sarebbe in grado di riconoscermi.
Una bambina che stava chiacchierando con il compagno affianco, si gira di scatto. Ha i capelli lunghi castani, legati in due codini malfatti. La frangetta le arriva all’altezza degli occhi marroni, che apre e chiude fingendo di non sapere perché la suora l’ha appena richiamata.
Certo che da piccola ero proprio una peste. Forse non aveva tutti i torti suor Gilda ad essere dura con noi bambini.
- Uccidere, bambini, non è solo un peccato nei confronti di Dio – spiega la suora, e io mi ritrovo ad ascoltare le sue parole come pietrificata – è un peccato nei confronti dell’uomo e della vita umana. E anche nei confronti di noi stessi. Quando un uomo uccide, qualsiasi sia la sua motivazione, un pezzo della sua anima se ne va con quella che ha appena strappato, e da quel momento per noi niente sarà più lo stesso.
Parole troppo complicate per dei bambini. Guardo l’aula intorno a me. Ad ascoltare siamo io, e due se non al massimo altri tre bambini. Guardo quella me bambina seduta un po’ distante. Non ascolta.
Forse a quella lezione avrebbe dovuto stare più attenta, ascoltare meglio.
Forse se avesse ascoltato, non avrebbe fatto ciò che ha fatto.

La stanza intanto sta diventando sempre più luminosa, eppure dalle finestre si vede che fuori è buio.
Inizia a sbiadire tutto.
Anche questa sensazione, come quella dello svenimento, mi è molto famigliare: è quella del rinvenimento. Apro piano gli occhi, è l’alba. Non c’è ancora nessuno per strada, sono sola.

L’agitazione di qualche ora fa è passata. Ora sono lucida e so cosa fare. Se ieri sera prima di svenire ero confusa, ora ricordo tutto quello che è successo.
Mi alzo in piedi e riprendo a camminare, so dove andare adesso.
Aveva ragione la suora baffuta, sento che mi manca un pezzo di me. Le lacrime mi salgono agli occhi.
Come ho potuto farlo?

Ieri sera quando Peppe è tornato a casa di nuovo ubriaco, quando mi ha di nuovo urlato, quando mi ha messo di nuovo le mani addosso, non ce l’ho più fatta. Mi sono sentita stanca. E quando è salito nella stanza dei bambini, gridando, ho perso il controllo del mio corpo. Ho afferrato le pinze del caminetto e l’ho trapassato da parte a parte.
Mi sono guardata le mani, rosse di sangue. Ho trasportato il corpo di Peppe nella nostra camera.
Come un fantasma sono andata nel bagno, mi sono lavata via il sangue. Ho svegliato i bambini e li ho portati dai miei genitori.
I miei non mi hanno chiesto nulla. Sono uscita da quella casa e ho camminato senza meta fino a poi svenire sul ciglio della strada.
E adesso? Non so ne Peppe sia morto, se stia morendo. Ho rovinato non solo la mia vita, ma anche quella dei miei figli, dei miei genitori. E tutto perché non ho voluto ammettere che il mio matrimonio era stato un fallimento, perché non volevo scandali.
E guarda poi dove mi hanno portato i miei buoni propositi.

Continuo a camminare fino a quando mi ritrovo in piazzetta. La chiesetta e l’oratorio dove ho passato la mia infanzia stanno ancora lì.
Avrei voluto prendere la macchina e andare nel paese vicino dove c’è la stazione di polizia per consegnarmi alle autorità ma una forza misteriosa mi spinge ad entrare nella chiesetta.
Lassù sopra l’altare, quel cristo crocefisso mi sembra di vederlo per la prima volta, eppure sta lì da quando sono nata.
Sento le ginocchia cedere. Nel centro della chiesa mi inginocchio e mi metto a piangere per la prima volta da quando mi sono macchiata di quella colpa.
Non so per quanto tempo rimango lì.

Una mano mi tocca la spalla. Mi volto. È mia madre. Sa quello che è successo, lo so, glielo leggo sul viso.
Ha in mano un golf me lo porge. Mi fa segno di seguirla.
Mi fa salire in macchina e non c’è bisogno che mi dica dove stiamo andando.
Siamo alla stazione di polizia. Faccio un respiro profondo ed entro. Adesso mi prenderò le responsabilità per quello che ho fatto, anche se non sono sicura che per riscattarmi basti solo la prigione.
Forse Dio mi perdonerà, e anche i miei genitori forse addirittura i miei figli. Ma io vivrò per sempre senza un pezzo della mia anima.


Numero cinque: non uccidere.
 
  
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