Capitolo diciassette
Il giorno dopo quel pianto irrefrenabile tra le braccia di mio fratello non fu
terribile come lo avevo immaginato. Avevo finito le lacrime, quindi non piansi
più e mi sentii anche meglio. Ero come svuotata; ma non in senso negativo. Mi
ero sfogata e adesso sentivo che potevo tirare un lungo sospiro di sollievo e
andare avanti. Era andata così, e avevo giurato a me stessa che quel lungo,
sofferente capitolo della mia vita si era definitivamente chiuso in quel momento.
Anche se tutte le notti, una volta sola nel mio letto, sentivo l'irrefrenabile
voglia di tornare a casa mia, a Parigi, e di fuggire dal quel posto... Decisi
che non ero ancora pronta e che avrei potuto rimanere ancora per qualche giorno
a godermi la mia famiglia. Scrissi un lungo messaggio ad Eveliss in cui le
dicevo che ero ancora viva e che sarei tornata entro una settimana, e che le
avrei raccontato tutto al mio ritorno. Lei capì e mi scrisse che avrei potuto
prendermi tutto il tempo di cui avevo bisogno. Ero veramente fortunata.
Qualche sera dopo, dopo cena, io Edoardo e mia madre eravamo seduti a guardare
alla televisione uno stupidissimo quiz a premi, e nel frattempo sorseggiavamo
tranquillamente una tazza di thè caldo.
“Secondo me è la A” disse Edoardo.
Io scoppiai a ridere. “Ma cosa ti viene in mente? Ovviamente è la C...”
“Che stupida! Scommettiamo?”
“Sì, scommettiamo, ho ragione io, razza di energumeno!”
“Ragazzi, calma...”
Il campanello squillò. Calò per un attimo il silenzio e tutti e tre ci
guardammo con un'espressione che voleva esattamente dire: chi potrebbe essere a
quest'ora?
“Vado io” dissi. Posai la tazza di thè sul tavolino, inforcai le pantofole e
andai verso l'ingresso.
Mi sistemai leggermente i capelli e osservai dallo spioncino della porta.
Il mio stomaco si contorse poco piacevolmente.
No, non poteva essere, maledizione.
“Vai via” urlai attraverso la porta.
“Adrienne... Per favore.” disse la voce di Alex, che sembrava lontanissima.
“No, ti ho detto di andare via!” urlai ancora, battendo pure un pugno sulla
porta. Come poteva essere così terribilmente sfacciato e irrispettoso nei miei
confronti?
“Per favore, almeno parliamo...”
“Non ho niente da dirti...”
“Almeno senza una porta fra di noi.”
In un gesto rabbioso spalancai la porta d'ingresso e lo affrontai faccia a
faccia. “Come ti permetti di presentarti a casa mia, e per giunta a quest'ora?
Sei un maleducato!” esclamai, sputando veleno come una vipera.
“Adrienne, andiamo fuori cinque minuti, prometto che non ti ruberò più di tanto.”
mi implorò.
“Non...” dissi inizialmente, ma poi chiusi la bocca, riflettendo un attimo. Mia
madre aveva già sicuramente ascoltato quel pezzo di conversazione e non volevo
che ascoltasse e capisse anche il resto, perché sicuramente sarebbero venuti fuori
argomentazioni poco piacevoli sia da parte mia che sua. Anche se non volevo
assolutamente stare accanto a lui, perché la sua presenza mi faceva ribrezzo,
dovevo accettare.
“D'accordo.” mormorai. Mollai le pantofole lì e infilai un paio di stivali di
mia madre, poi dall'appendiabiti dell'ingresso afferrai il mio cappotto e la
sciarpa ed uscii insieme a lui, chiudendo delicatamente la porta alle spalle.
Faceva abbastanza freddo ed incrociai le braccia al petto. Lui si allontanò da
casa mia e io lo seguii, e sapevo già dove ci stavamo dirigendo. L'unico posto
più tranquillo per parlare, e che non fosse troppo lontano da lì, era il
piccolo parco in fondo alla strada. Quello in cui eravamo stati insieme un
Natale di tantissimi anni fa. Quei ricordi mi fecero venire un'altra fitta
dolorosa allo stomaco ma feci finta di nulla, concentrandomi sulla sensazione
del freddo per non sentire altro.
Come previsto, arrivammo lì scavalcando come sempre il piccolo cancelletto di
ferro e ci sedemmo sulle altalene, vuote e gelide. Lui non aveva detto più
nulla, e aveva tenuto le mani nelle tasche dei jeans. Adesso guardava per
terra, come se fosse in imbarazzo.
“Se pensi che questo sia un ritorno al passato... Intendo, noi due, qui, in
questo luogo... Ti sbagli di grosso.” gli dissi, girandomi a guardarlo.
Lui alzò lo sguardo e ricambiò. “Non ti ricordavo così cattiva.”
Risi amaramente. “Tu non sai più nulla di me. Quella ragazzina che conoscevi,
c'è ancora, ovviamente. Ma come mi hai detto tu a Parigi, è cambiata e
maturata, com'è normale che accada nella vita di ogni individuo. Mentre tu
invece, sei sempre il solito ragazzino di quindici, sedici anni che non sa cosa
scegliere, lo stesso egoista che fa le cazzate e ferisce la gente, e
soprattutto ferisce me. E io sono arrivata al punto ormai di essere
stanca di tutto questo. Sono passati anni.”
“Quindi questo significa che non vuoi più rivedermi?”
Mi venne di nuovo voglia di dargli un pugno. La stretta della mano quasi in
ipotermia attorno alla catenella d'acciaio dell'altalena si fece più serrata e
sospirai profondamente. “Perché dovrei volerti rivedere? Il fatto che io ti
abbia incontrato di nuovo a Parigi è stato un segno del destino, d'accordo. Ma
il tuo comportamento nei miei confronti invece è stato il segno che mi ha fatto
capire che io e te non staremo mai insieme, e che non sei e non sei mai stato
quello giusto per me.”
Lui non disse nulla. Presi fiato.
“Dov'eri, Alex? Dove sei stato in questi anni? Dov'eri nei miei ultimi
compleanni? Dov'eri quando avevo bisogno di te? Dov'eri quando piangevo per te?
Dov'eri quando il mio sogno di andarmene da qui si è realizzato? Dov'eri quando
ho preso il mio primo aereo per Parigi? Dov'eri quando baciavo altri ragazzi
sperando di provare con loro quello che provavo con te? Dov'eri quando avevo
paura di non farcela? Dov'eri quando mi svegliavo felice la mattina e avevo
voglia di cantare qualche bella canzone con qualcuno? Dov'eri quando volevo
fumare una sigaretta in compagnia? Dove sei stato tutto questo tempo? Te lo
dico io: Tu non c'eri. Tu stavi vivendo la tua vita, e io la mia. E dato che
non c'eri, e dato che tu non mi hai solo lasciata, ma mi hai abbandonata... Non
una, ma due volte... Tu non puoi esserci più. Io non ti voglio più.” dissi
tutto d'un fiato.
Improvvisamente il mio cuore era leggero come una nuvola.
Alex si alzò dall'altalena e mi venne di fronte.
“Stai scherzando?” chiese, palesemente preso in contropiede.
“Ti sembra che io abbia la faccia di qualcuno che scherza? E' finita, Alex.
Torna alla tua vita.”
“Tu sei la mia vita.” sussurrò lui.
Io risi. “Per favore, non uscirtene con frasi banali e false come questa...”
“E' la verità, Adrienne. Quella ragazza... La ragazza che hai visto. Si chiama
Julia, e okay, è la mia ragazza da un po'. Vivo da lei... Ma quello che ti ho
detto a Parigi, non cambia. Nessuna mi ha più rubato il cuore come hai fatto
tu, e infatti appartiene ancora a te. Io ho sbagliato, lo so... Ma ho avuto
l'ennesima prova che non posso stare senza di te, ancora una volta. Io senza di
te mi sento sempre con un pezzo mancante... E quando sto con te, non mi sento
mai solo. Quando non ci sei, è come se non fossi me stesso. Io sono... Io sono Alex
solo quando sto insieme a te.”
Lo guardai attentamente e poi scossi la testa. “E ti servivano tutte queste
prove per capirlo? Doveva bastarti la prima volta, la prima volta che sei
andato via e poi, dopo avermi fatto del male, sei tornato da me. Ti ho sempre
perdonato... Ma ora devi farmi vivere la mia vita. Ora devi lasciarmi in pace,
e non tormentarmi più, perché ho capito chi sei.”
“E chi sarei? Sentiamo.” disse lui, quasi in tono di sfida.
“Alex, andiamo... Mi hai usata. Come se fossi la prima ragazza che capita nel
tuo letto, e mi hai offesa in maniera irreparabile. Volevi stare con il piede
in due scarpe, come ti è sempre piaciuto. Se davvero quello che hai detto prima
era vero, avresti dovuto dirmi che avevi una ragazza prima di scopare con me e
poi scappare come un coniglio. Forse... Forse le cose sarebbero andate
diversamente, in questo caso. Avrei capito e avrei apprezzato la sincerità e la
maturità.”
“Vuoi dire che c'è una speranza?”
“Non c'è più. Non l'hai fatto. Hai agito d'istinto, e ti sei rivelato per
quello che esattamente sei. Il tuo sbaglio non si può perdonare così, come se
niente fosse. Nel profondo del mio essere, Alex, io...” sospirai profondamente,
guardandolo negli occhi, “io ti amo ancora, credimi. Ma per quanto io possa
tenere a quello che c'è tra noi, se davvero tra noi c'è qualcosa... E' ora di
finirla. Smettila di farmi del male così.”
Alex continuò a guardarmi. Sembrava veramente triste, e sapevo come doveva
sentirsi in quel momento, perché l'avevo provato anche io un sacco di volte. Ma
lui non si era mai preoccupato di come mi sentivo in quelle occasioni orrende,
quindi perché ora avrei dovuto farlo io adesso?
“Immagino che io non possa fare nient'altro.” disse.
“Torna dalla tua ragazza ed amala per come merita.” gli risposi.
“Ci lasceremo.”
“Perché mai dovreste?”
“Perché le racconterò tutto quello che è successo, e ovviamente non vorrà più
vedermi.”
Scrollai le spalle. “Chi semina vento, raccoglie tempesta.”
Mi alzai dall'altalena. Eravamo uno di fronte all'altra. Non potevo credere che
fossi veramente io a dire addio, abituata sempre a veder andare via le persone
da me e non il contrario.
Alex fece qualche passo verso di me e mi abbracciò.
“Ti amerò per sempre.” mi sussurrò ad un orecchio, scostandomi delicatamente i
capelli con una mano.
Rimasi di sasso, indecisa se ricambiare l'abbraccio o meno, ma alla fine decisi
di sì. Non ero cattiva fino a quel punto.
“Non è vero, non dirlo. Non abusare di quella parola. ” sussurrai di
rimando, chiudendo gli occhi.
“Tutto quello che è successo l'altra notte, tutto quello che ti ho detto...
L'ho fatto con amore, e con la più pura sincerità. Non mi pento di niente.”
disse ancora.
Lo strinsi forte per l'ultima volta e poi lo lasciai andare. “Non mi pento
neanche io, di niente. Se tornassi indietro, rifarei tutto allo stesso modo.”
dissi.
“Mi diresti anche addio come hai fatto adesso?” chiese lui.
Lo guardai con tristezza. “No, hai ragione. Lo farei prima di adesso.”
Decisi che era l'ora di andare, in caso avessi cominciato ad avere rimorsi o
sensi di colpa. Ma era così che doveva andare, perché dovevo chiudere per
sempre quello che era stato Alex per me, e soprattutto volevo troppo bene a me
stessa per permettere di essere trattata ancora in quel modo come lui aveva
fatto. Mi aveva già promesso infinite volte di cambiare, e mi aveva già detto
diverse volte “per sempre”. Ma c'era davvero qualcosa tra di noi che fosse
durato per sempre? No.
Avevo la mia dignità, e lui l'aveva calpestata ma io la volevo ancora tutta
integra.
“Quando mi hai rivisto a Parigi, dovevi ricordarti che non avevo più sedici
anni. Le persone cambiano.” mormorai.
“Ora lo so.”
Sospirai e dalla mia bocca uscì una nuvoletta di fumo. Iniziava a fare sempre
più freddo. “Devo andare.”
“Ti accompagno?” chiese.
Feci un sorriso. “No, lascia perdere, fare quattro passi da sola mi farà bene.”
“Bene, allora... Ciao.” mi disse.
“Forse dovresti avere il coraggio di pronunciare la parola addio, Alex.”
Gli tesi la mano. Era il massimo di contatto che potevo concedergli, dopo quel
rimprovero.
Lui la prese immediatamente e prima che potessi accorgermene e reagire, in un
secondo mi attirò a sé con uno strattone e pressò le sue labbra contro le mie,
mentre l'altra sua mano mi afferrava saldamente i capelli dietro la testa, per
non lasciarmi scappare.
Non protestai, mentre mi baciava in maniera appassionata. Chiusi gli occhi,
ripetendomi mentalmente che ero una stupida, ma ormai la frittata era stata
fatta. Ascoltai attentamente il suo respiro e ricambiai il bacio con la stessa
intensità. Alla fine, non mi costava nulla farlo. Era veramente il nostro
ultimo bacio.
Poi lui si staccò per primo. La sua fronte era appoggiata sulla mia e aprii gli
occhi, trovando i suoi.
“Adesso posso dirlo. Addio, Adrienne.” disse in un unico soffio, accompagnato
da una nuvola di vapore.
Mi lasciò andare, mi dedicò un ultimo sguardo e si allontanò. Scavalcò il
cancelletto e percorse la sua strada, con le mani in tasca, e senza voltarsi
indietro a guardarmi, neanche una volta.
Io invece lo guardai andare via, consapevole che in quel momento era veramente
finita, e che ero stata io a deciderlo.
Mi accesi una sigaretta e mi sedetti di nuovo sull'altalena, e per la prima
volta in quei giorni veramente felice. Era come se avessi finalmente portato a
termine un compito che dovevo fare da anni.
Forse avrei dovuto smettere di fumare una volta per tutte.
*
La sera prima della mia partenza, mia madre e mio fratello avevano deciso di
portarmi fuori a cena.
Eravamo in macchina e giravamo in cerca di qualche pizzeria carina e non troppo
costosa.
“Edoardo andiamo, muoviti, io muoio di fame...” mi lamentai, mentre lo stomaco
faceva dei rumori poco gradevoli.
“Stai sempre a protestare, sei una seccatura!” mi fece eco Edoardo, scalando la
marcia.
“Ti voglio bene” gli risposi ridendo e pizzicandogli il braccio che mi era più
vicino.
“Ehi ragazzi, perché non ci fermiamo lì?” buttò lì mia madre, seduta nel sedile
posteriore e indicando fuori dal finestrino con la mano.
Guardai fuori. Una pizzeria, The Guilt. Mi venne un'illuminazione.
“Mamma, ma quella è la pizzeria dove lavoravo io qualche anno fa!” esclamai,
improvvisamente esaltata.
“Davvero? Non lo ricordavo mica...”
“Dai per favore, andiamoci! E' l'unico posto in cui non sono tornata da quando
sono qui.”
“D'accordo” disse Edoardo e mise la freccia per posteggiare lì vicino.
Una volta scesi, avanzai per prima e spinsi la pesante porta di legno.
Il locale non era cambiato. Era carino come allora. Aveva mantenuto il suo
aspetto vintage e i grandi poster alle pareti, ma avevano ridipinto tutto di
verde chiaro. Venni invasa dal piacevole chiacchiericcio dei clienti e dal
calore del posto chiuso e da un'ondata di diversi e numerosi ricordi. Come
avevo potuto dimenticare quel luogo? Avevo passato dei giorni veramente felici,
lì dentro.
Al solito bancone a destra individuai Rosa, la proprietaria, un po' più
invecchiata di come mi ricordavo e con un colore di capelli sul rosso,
chiaramente tinti. Non pensavo proprio che si sarebbe ricordata di me, perché
di tempo ne era passato; io ero cambiata e chissà quante e altre cameriere
erano passate di lì, nel frattempo.
Ci fecero sedere in un tavolo per tre, piuttosto lontano dal bancone e della
porta d'ingresso, e mi tuffai immediatamente nel menù, dato che stavo morendo
di fame. Dopo aver scelto una pizza con mozzarella e crudo, io e i miei
familiari eravamo immersi in una conversazione animata quando arrivò il cameriere
a prendere le ordinazioni.
“Siete pronti per ordinare?” chiese.
Lo guardai. Gli occhi azzurro-grigi, i capelli biondo scuro, quel neo vicino al
labbro e quell'orecchino...
“Eric?” esclamai senza pensarci.
Tutti mi voltarono a guardarmi, compreso lui.
Mi guardò senza capire. “Sì, ci conosciamo?”
“Certo che ci conosciamo! Sono Adrienne!” dissi entusiasta.
Fece un sorriso curioso. Quel sorriso... Come avevo potuto scordarmi
anche di lui?
“Cosa? Sei davvero tu? Sei irriconoscibile!” disse.
Ridacchiai. “Grazie, se è un complimento.” risposi e mi resi conto di essere
leggermente arrossita.
Mi sorrise ancora.
“Adesso non ho tempo per chiacchierare perché ho un sacco di tavoli da fare,
magari dopo scambiamo quattro parole, okay?” disse gentile.
“Certo.” Annuii, senza aggiungere nient'altro, e gli dissi la pizza che volevo.
Una volta che si allontanò, e seguii la sua schiena con lo sguardo, iniziai a
sentirmi veramente strana.
Non l'avevo riconosciuto subito. Erano passati tre anni, e in tre anni i suoi
tratti si erano fatti più maturi, più da uomo. Per il resto, era sempre lo
stesso. E poi quegli occhi, quel sorriso... era impossibile non riconoscerli.
Eric Myers... L'unico ragazzo per cui, escludendo Alex, avessi mai provato
qualcosa. Mi ero presa una cotta terribile, e lui più volte aveva ripetuto di
amarmi. Ma io non lo amavo, almeno non ancora, ed ero troppo accecata da quello
che provavo per Alex per ricambiarlo del tutto. Ricordai i momenti belli che
avevo passato in sua compagnia, come fosse interessante e come mi piacesse
parlare con lui, come mi facesse scordare del resto del mondo. Ricordai i
diversi baci che non ci eravamo mai scambiati, per il mio timore e per i miei
sentimenti contrastanti. Ricordai il suo tenermi per mano, come se fosse una
cosa del tutto normale. Ricordai i battiti del cuore che però acceleravano in
sua presenza, o quando semplicemente mi sfiorava. Le sue mani sotto la mia
maglietta, sul divano di casa sua, la canzone cantata a squarciagola nella sua
macchina... Era perfetto.
Perché me l'ero fatta scappare? E perché soprattutto l'avevo rimosso totalmente
dalla mia testa? Quello che avevo provato per lui era speciale, tanto da
sperare che si dichiarasse, tanto da sperare di averlo con me in un futuro. Poi
tutto era cambiato. Avevo scoperto la verità su sua madre e su mio padre – quello
non l'avevo mai dimenticato – e io, spaventata da tutta quella situazione
ingarbugliata, dai ricordi e dai sentimenti per Alex, avevo cambiato idea e lui
si era sentito usato e sfruttato da me. Ero stata crudele, e ricordavo ancora
in quale modo orrendo gli avessi detto addio, dandogli del bambino e dicendogli
che non lo amavo. Paradossalmente, avevo riservato un addio più dolce e meno
tremendo ad Alex, che non se lo meritava assolutamente. Quello che avevo provato
per Eric, in quel breve periodo, era persino diverso da quello che avevo sempre
provato per Alex. Per Alex avevo provato qualcosa di viscerale, di ossessivo,
di spaventoso. Mentre con Eric tutto sembrava facile e naturale, e non stavo
male quando stavo con lui. Mi rendeva leggera e felice. Ed era stato davvero,
in quel caso, un vero segno del destino esserci incontrati. Le nostre vite
erano sempre state intrecciate, e ci eravamo sempre sfiorati ma mai incontrati.
“Chi era quello?” mi chiese mia madre, svegliandomi dai miei deliri mentali.
“Oh, nessuno... Era il ragazzo che lavorava qui con me, tre anni fa, si chiama
Eric.”
La mia pizza arrivò dopo un quarto d'ora e ancora più velocemente la divorai.
Dopo che tre tutti e tre finimmo, con la pancia piena ci alzammo e andammo
verso il bancone per pagare il conto. Mi guardai attorno: Eric stava ancora
servendo un tavolo. Non ci avrebbe visto andare via, e io l'indomani sarei
partita. Non avremmo mai scambiato quelle quattro parole. Sospirando, mia madre
pagò e mi infilai il cappotto per andarmene.
“Adrienne,” mi sentii toccare la spalla. Era lui.
“Ehi” mormorai. Mio fratello e mia madre ci guardarono e si fermarono davanti
alla porta di legno.
“Finisco tra mezz'ora... Ti andrebbe di aspettarmi?” mi chiese.
Lo guardai indecisa, non aspettandomi assolutamente quella richiesta. Voleva
uscire con me?
“Emh... Veramente domani mattina avrei un aereo da prendere.” dissi.
“Dai, non torniamo tardi, beviamo qualcosa e ti lascio a casa. Però se non ti
va... Ti capisco...” disse comprensivo, alzando le spalle.
Lanciai un'occhiata ai miei familiari ed Edoardo mi fece l'occhiolino. Quasi
scoppiai a ridere.
“Va bene, ti aspetto.”
Le labbra di Eric si sciolsero in un sorriso radioso.
Un grazie a vampiredamon90, BloodyEmily e A_rwen! Un bacio :*
Il prossimo capitolo, il diciottesimo, sarà L'ULTIMO. Non vedo l'ora!