Storie originali > Drammatico
Segui la storia  |       
Autore: _Velvet_    06/02/2012    0 recensioni
"La gente è così priva di senso, a volte. Seguono il gregge, il capogruppo senza nemmeno pensarci. Credono bianco, ma il giorno dopo il capo dice che tutto è stato sempre nero, hanno sempre creduto nel nero.
E loro lo accettano così, senza nemmeno pensarci.
Non lo trovi... spaventoso?"
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Capitolo 5, Side B.
Manchester, 19 aprile 1978
Le giornate passavano tutte uguali, con una monotonia spaventosa e crudele. Il cambiamento non sarebbe stato determinato, né  sarebbe avvenuto grazie a noi. Eravamo troppo deboli per una qualsiasi azione; cercavamo di non darci peso, ma entrambi sapevamo che se non avremmo fatto qualcosa, saremmo lentamente morti dentro quella casa così fredda e impersonale. Eppure non volevamo sopravvivere a noi stessi. Volevamo finire così, insieme, magari nel sonno, senza dolore: ne avevamo già patito troppo.
Ma qualcosa finalmente cambiò. Volevamo andare avanti, volevamo tornare su dal quello che ci pareva il fondo. Ci rendemmo conto che avevamo fame, volevamo finalmente magiare di nuovo qualcosa, volevo tornare a sentire i sapori.
Ero davanti allo specchio a pettinarmi i capelli: mi facevo impressione. La pelle del volto era tirata sugli zigomi e creava una specie di incavo dove di solito avrebbero dovuto esserci le guance, sotto agli occhi una decisa linea nerastra mi faceva assomigliare sempre più ad un teschio; nelle spalle ogni osso si distingueva perfettamente e sulla schiena potevo sentire chiaramente la spina dorsale. Le ossa del bacino spuntavano in fuori nette e definite, le gambe erano così sottili da poterle circondare senza fatica con due mani unite.
Mi vestii velocemente con un vestito nero e una giacca lunga nera, un paio di scarpe basse e la prima cosa vagamente somigliante ad una borsa che vidi.
Scesi dunque in strada per comprare il minimo indispensabile. L’esterno mi colpì in faccia come un pugno. Era quasi un mese che non vedevo il sole. Tutto era diverso: colori, odori... mi era mancato il mondo. Di solito era Ian che scendeva in strada per comprare il minimo indispensabile, ma non mi aveva mai detto che così tante cose erano cambiate. Non mi ricordavo più del canto degli uccellini, né dello stormire delle foglie: l’ambiente naturale mi aveva fatto tornare la voglia di vivere più di qualsiasi altra cosa.
***
Un’ora dopo eravamo entrambi seduti davanti a quel tavolo così piccolo a mangiare una zuppa calda: quello era uno dei tanti piaceri che ci negavamo da tanto tempo, ormai. Erano finiti tutti i dolori, le disperazioni, i tagli. Noi volevamo che così fosse: non ne potevamo più del buio di noi stessi, avevamo bisogno della luce. Ci giurammo che mai e poi mai più saremmo tornati a farci così tanto male inutilmente, male solo per noi stessi. Basta dolore narcisistico, da spiriti dannati. Non potevamo più nemmeno permetterci di soffrire solo perché lo volevamo: non bisogna mai desiderare di aumentare il proprio dolore. Eppure spesso siamo portati a voler soffrire di più per avere qualcosa sui cui focalizzare un arcobaleno di sensazioni diverse e, visto che non tutti nasciamo con la predisposizione per la gioia, ci rifugiamo nel patimento.
 
Ian mi raccontò della sua vita, degli studi brillanti, dei genitori che erano morti quando aveva 15 anni, dei suoi zii che lo avevano preso in affido, e alla fine, dell’eroina.
La sua storia era simile alla mia: si sentiva oppresso dalla realtà e dalla libertà; aveva bisogno di sentirsi vincolato da qualcosa come ne avevo bisogno io.
Ammiro coloro che combattono per la libertà, ma spesso si rivela un’arma a doppio taglio.
Ian aveva iniziato con le droghe a 17 anni, quattro anni fa. Niente gli bastava, aveva dovuto aumentare tutto sempre di più per sentire “lo sballo”, per andarsene. Era diventato totalmente schiavo dell’ero. Era però riuscito a mantenere, non so come, una specie di controllo su sé stesso, aveva potuto continuare a studiare con lucidità, si era diplomato a pieni voti.
Ma durante l’estate, tutto era andato a catafascio. Un’overdose dietro l’altra, una perdita di controllo dietro l’altra. Era sempre più spaventato. Ormai era schiavo di due cose: della droga e della paura.
Paura significa perdita di controllo ed il controllo era tutto. Tutto era rappresentato dal controllo: dovevo controllarti con i tuoi tutori, dovevi controllarti durante gli esami, dovevi controllarti con gli amici, dovevi controllare che l’eroina fosse non troppo pura né troppo tagliata e, soprattutto, dovevi controllare che non fosse mai troppa. Ed era questo senso di oppressione e di fallimento che lo aveva portato sempre più in basso, in quello che lui definiva “un viaggio senza ritorno”, una scala buia da cui non si può più risalire.
-In un certo senso, è bello sapere che non puoi tornare indietro. Non ti viene quell’ipocrita idea di potercela fare a mollare tutto. Io non avrei voluto mollarla, l’ero. Era la mia vita. Eppure quelle due settimane in ospedale mi hanno reso intollerante ai suoi effetti. Devono avermi depurato per bene: ero dentro per coma etilico misto ad una copiosa emorragia ed a un’overdose che in qualsiasi altra circostanza sarebbe stata letale. Avevo bevuto finché non ero lì lì per svenire, mi sono iniettato 15 grammi di eroina e mi sono tagliato le vene, qua sui polsi. Ero certo che non sarei sopravvissuto. Eppure la sorte è strana. Sono qua, come sei qua anche tu. Cosa regola la sopravvivenza di un uomo, Christiane? Forse mezzo grammo in più mi avrebbe ucciso, forse un taglio più netto mi avrebbe stroncato. Ma non dovevo morire così, evidentemente. Nella vita altro mi aspetta, c’è qualcosa in serbo per noi. Fosse anche la più banale delle esistenze, mi andrebbe bene.
Dopo un tentato suicidio, capisci la bellezza della vita, capisci che per le altre persone sei importate. Ho incontrato te, la cosa migliore che mi sia mai capitata.
Però, cosa abbiamo fatto finora io e te, invece di vivere la nostra vita? Ci siamo annientati lentamente, eravamo ancora immaturi e non riuscivamo ad esprimere ciò che sentivamo. Io sto riuscendo a farti capire quello che ho passato solo ora, dopo quasi un mese di nulla, di vuoto.
Mi dispiace di aver lasciato tutto a sé stesso, ma non riuscivo a reagire. Ora ci sto riuscendo.
Promettimi una cosa: mai più, mai più il dolore sarà una forma di sfogo.
Dobbiamo imparare ad elaborare quello che abbiamo, se no sarà sempre peggio. Entreremo in un circolo vizioso, come in questi 20 giorni.
Guardati: sembri morta. Io mi vedo in te, anche io sembro morto. E’ tempo di tornare a vivere. Superiamo tutto, ce la possiamo fare. Ma ce la faremo solo insieme, senza silenzi, senza dolore. Vieni qui.
Mi strinse di nuovo in uno dei suoi abbracci pieni di sollievo e dolore.
I nostri abbracci erano un po’ come il sole che tramonta inondando di rosso un lago: uno spettacolo contraddittorio, ma bello da mozzare il fiato.
Rimanemmo ancora un po’ a guardarci negli occhi senza dire una parola. Ci bastava sentirci di nuovo, di non essere più due fantasmi, ma di nuovo le due persone che eravamo prima.
-Mi dispiace-dissi chinando la testa verso il basso- è stata forse colpa mia? So che non è colpa mia il tutto, però forse ti ho trascinato verso il basso con me. Non è stato un bel periodo, questo. Secondo me non abbiamo voluto reagire alle nostre debolezze. Tu, insomma, senza di me vivevi ed avresti vissuto meglio.
E in quel momento, capii che stavo perdendo il controllo.
-Io, io insomma... Ian, tu sai bene quel che provo per te. E immagino che tu sappia che non riuscirei a farne a meno. Solo che so che staresti meglio senza la mia presenza così perennemente cupa. Io non ti aiuto a stare meglio, lo so.
Non ce la facevo più. Sapevo benissimo che era tutta colpa mia; era una convinzione che mi si era radicata profondamente nel cuore.
Io senza di lui non riuscivo a stare, ma lui? Lui era un’altra persona prima, una persona probabilmente più, se così posso dire, allegra.
Cominciai a piangere tutte le lacrime che mi ero tenuta dentro per mesi, anni. Ed era una strana sensazione: è come se le lacrime che mi sgorgavano calde dal cuore le avessi gelosamente conservate come un tesoro prezioso ed ora qualcuno me ne stesse privando: dolore, dolore. Il fatto di parlare aveva scatenato in me una reazione immensa: ora finalmente riuscivo a liberarmi di tutto il dolore, di tutto il risentimento verso i miei genitori che non mi avevano mai aiutato, verso Karen che mi aveva fatto iniziare qual viaggio oscuro, verso me stessa e le mie debolezze che non sapevo controllare.
Mi liberai di tutto come se avessi avuto finalmente scaricato per terra un carico troppo pesante che mi gravava sulle spalle.
Mi sentivo più leggera, ma ora il mio cuore era vuoto. Quanto di me era racchiuso nelle lacrime che avevo versato?
Le sue mani mi accarezzavano la schiena, ma non mi parlava: sapeva meglio di me che parlare a qualcuno che piange è come non parlare. Aspettò che il crollo finisse e che io cominciassi a respirare affannosamente, smettendo di piangere.
-Scu... scusa. Mi dispiace. Ho.. ho perso il controllo, ancora una volta.
-E’ tutto a posto, tranquilla. E’ tutto a posto. Ora per favore smettila di dire queste cose. Non è vero nulla. Ho bisogno di te quanto tu ne hai di me. Fai silenzio.
 
Mi addormentai così, tra le sue braccia.
   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Drammatico / Vai alla pagina dell'autore: _Velvet_