Fanfic su attori > Robert Pattinson
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Autore: Giulls    07/02/2012    5 recensioni
Michelle Waldorf è all'apparenza una ragazza normale: ha 18 anni, vive con la madre a Los Angeles, sta per diplomarsi ed è il capitano della squadra di pallavolo della scuola. Eppure la sua vita viene presto sconvolta da due avvenimenti: il fantasma del suo passato e lui, il suo nuovo vicino di casa. Robert Pattinson.
< Ti va di ricominciare? > propose porgendomi la mano, < ciao, mi chiamo Robert Pattinson >
< Piacere, Michelle Waldorf >
< Waldorf? > ripeté sgranando gli occhi, < come Blair Waldorf in Gossip Girl? Cavolo, puoi farmi un autografo? Non capita tutti i giorni di conoscere una ragazza che faccia di cognome Waldorf >
< Va bene, ma tu devi promettermi di mordermi sul collo > risposi a tono e entrambi incominciammo a ridere.
[...]
< Io avrei ancora un paio di scatoloni da sistemare… okay, più di un paio e avrei bisogno di qualche buon'anima che mi dia una mano. Ti andrebbe? >
< Certo, perché no? > risposi alzandomi in piedi, < ma mi offri la colazione >
< Va bene, > asserì, posando una banconota da dieci dollari sul tavolo, < andiamo? >
< Andiamo > dissi mente prendevo la mia borsa e uscii dal bar insieme a Robert. Chissà, questo potrebbe essere l'inizio di una nuova amicizia.
Genere: Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Stella, questo capitolo è tutto per te, per aver fatto le nottate a leggere questa storia (pazza!!!!)

Ci vediamo giù, okay?

I missed you so badly, mum

Muta. Come un pesce.
Erano trascorse quattro ore da quando ero tornata a casa e non avevo ancora rivolto la parola a Robert. Tutto questo perché il signorino aveva fatto di testa sua e aveva avvisato Bianca di quello che mi era successo: incidente e gravidanza.
La cosa sorprendente era che a lei sembrava importare davvero. Non appena avevo messo il piede fuori dal taxi lei aveva spalancato la porta di casa e mi era corsa incontro, abbracciandomi. Mi aveva aiutato a camminare verso casa di Robert, come se non fossi in grado di camminare, e poco carinamente le avevo detto che volevo riposare e che quindi doveva andarsene.
E da quando se ne era andata io non avevo fatto altro che incenerire Robert con il mio sguardo. Esattamente come quello di Lily Aldrin della sit-com How I met Your Mother, quello che significava “tu per me sei morto”.
Ogni volta che mi guardava, sospirava. Forse si era reso conto di aver fatto una cazzata, ma siccome era orgoglioso non aveva il coraggio di scusarsi.
< Non mi scuserò > disse ad un certo punto.
< Cosa? > replicai inviperita.
Si avvicinò e si inginocchiò davanti a me, poi mi prese le mani.
< Michelle, è tua madre. Come potevi pretendere che non potesse sapere niente? >
< Mi ha cacciato di casa > gli feci notare.
< Ma le manchi > replicò e a quell'affermazione scoppiai a ridere.
< Sì, certo, le manco. E tu come lo sai? >
< Mi chiede sempre di te >
< Poteva chiamarmi, ma non l'ha mai fatto >
< E come avrebbe potuto farlo? Hai disattivato il tuo vecchio numero >
Sbuffai e incrociai le braccia al petto senza sapere cosa dirgli.
< Scemo babbione > borbottai piano.
< Come? > domandò e lo ripetei una seconda volta < E questo chi te l'ha insegnato? > continuò ridendo.
< Kelly >
Si alzò in piedi, si sedette accanto a me e mi prese sulle sue ginocchia. Mi accarezzò la schiena come solo lui sapeva fare e mi sciolsi, maledicendomi per il mio inesistente pugno di ferro.
< Lo scemo babbione ha fame > disse soffiando tra i miei capelli < ti va di mangiare? >
< Voglio le ali di pollo > ribattei guardandolo sorridendo e lui imitò il mio gesto, poi mi baciò la fronte e mi risistemò sul divano prima di avviarsi verso la porta < ma voglio quelle di Wallie's! > continuai specificando il luogo, che era dall'altra parte di dove abitavamo. Aveva osato sfidarmi chiamando Bianca, ora gliela avrei fatta pagare.
< E io dovrei farmi tutta quella strada solo per un tuo capriccio? Neanche avessi le voglie come una donna incinta >. Gli era scappato, ma ormai non c'era più niente da fare. L'aveva detto e ormai era troppo tardi. Lui si pietrificò, io mi rabbuiai…ero ancora troppo suscettibile all'argomento. < Scusami > sussurrò, ma lo sentii chiaramente < sono un coglione >
< Non importa >
< Michelle, mi dispiace >
< Non è niente > ribattei e sperai che non sentisse la mia voce incrinata < non l'hai fatto di proposito >
Intorno a noi calò un silenzio estremamente pesante, ma tirai un sospiro di sollievo non appena Robert mi lasciò sola in casa. Ignorai il groppo alla gola che mi si era formato, indossai le scarpe che avevo lasciato alla destra del divano, presi la mia copia delle chiavi di casa e uscii. L'aria fresca di Los Angeles mi fece venire i brividi, sicuramente di lì a poco sarebbe scoppiato un temporale.
Chiusi la porta a chiave e mi incamminai fino alla casa accanto, ormai certa che fosse impossibile nascondere le lacrime.
Voleva una seconda possibilità ed io gliela avrei concessa. Dopotutto eravamo umani e non volevo rimanere sola…ma nemmeno stare con lui. Suonai il campanello, aspettai qualche secondo e poi la vidi comparire: la mia mamma, che per tutti questi mesi mi era mancata.
< Mamma > la chiamai singhiozzante e lei mi abbracciò.
Strano a dirsi, ma profumava di casa.
Mi fece entrare dentro, mi accomodai sul divano e mi diede un bicchiere d'acqua.
Robert avrebbe impiegato come minimo quaranta minuti per raggiungere quella rosticceria, aspettare il cibo e tornare a casa, quindi avevo tutto il tempo per poter parlare con lei.
Le raccontai dell'università, di come mi piaceva stare lì, di Kelly che si era presa una colossale cotta per Jeremy, del mio migliore amico che a sua volta sembrava essersi preso una sbandata per la mia compagna di stanza ma nessuno dei due aveva intenzione di fare la prima mossa, e di Liam che stava diventando matto per i troppi esami.
Ma soprattutto le raccontai di come mi sentissi costantemente morire dentro per quell'aborto.
Lei, a sua volta, mi consolò come solo una mamma sapeva fare, mi raccontò di essersi stancata di fare la bella vita e di aver venduto la sua linea di moda, di aver lasciato Mike e di essere felice così. Ora lavorava presso una lavanderia come sarta e quel lavoro l'appagava.
Solo in quel momento mi resi conto di quanto mia madre fosse dimagrita, tanto ormai da rasentare l'anoressia, e dei capelli cortissimi che le incorniciavano il volto, quando prima portava rigorosamente i capelli lunghi.
Stavo iniziando a pensare che qualcosa non andasse, ma non le chiesi niente perché volevo che fosse lei a parlarmene. Insomma, se ci fosse stato qualcosa di grave me l'avrebbe detto, no?
Un'ora dopo Robert era venuto a prendermi e potevo leggergli negli occhi uno sguardo che chiedeva perdono, così mi alzai dal divano e mi avvicinai a lui, baciandolo sulle labbra.
< Volete fermarvi a cena qui? > ci chiese mia madre e annuimmo.
< Ho preso da mangiare per un reggimento > rispose Robert poggiando la sporta sulla tavola < vuole favorire, signora Waldorf? >
< Ti ringrazio, ma io ho già la mia cena pronta > disse e si preparò il piatto con le verdure bollite e un hamburger di pollo.
< Mamma…perché mangi quella roba? Stai male? >
< No, tesoro…sto solo seguendo una dieta >
< Dieta? Sei dimagrita tantissimo! Potresti ammalarti sul serio, dovresti mangiare di più >
< Ah, la nostra dottoressa! > ribatté ridendo e mi passò una mano sulla spalla < Non preoccuparti per me, tesoro. Sto bene > disse, ma i suoi occhi sostenevano l'esatto opposto.

 

Si rivelò una cena davvero piacevole.
Ridemmo, scherzammo e quasi ci ubriacammo con il vino che mamma aveva tirato fuori per noi.
E che bevemmo solo noi due.
Era passata la mezzanotte quando ci salutammo per tornare a casa.
< Ci vediamo domani, allora? > domandò mia madre speranzosa.
< Certo! > esclamai annuendo < Abbiamo detto shopping, no? >
Il sorriso che fece le illuminò il volto ormai troppo magro.
< A domani, bambina > mi salutò posandomi una mano sulla guancia.
Rientrai in casa sfinita, buttai le scarpe per terra e mi stesi sul divano, mentre Robert scomparì in cucina. Chiusi gli occhi e inspirai a pieni polmoni l'aria che mi circondava e quando li riaprii lo vidi fissarmi appoggiato allo spigolo della cucina con una Heineken in mano.
Gli sorrisi, riscaldata dall'alcol che circolava ancora nel corpo e gli feci segno di avvicinarsi a me, così lui posò la bottiglia sul tavolino e si inginocchiò ai miei piedi.
< Mitchie, io… >
Non lo feci finire di parlare. Allungai le braccia dietro il suo collo, lo spinsi verso di me e lo baciai. Non se lo aspettava e lo percepì perché diventò improvvisamente rigido, eppure non mi fermò né si scansò. Mi baciò e basta, mentre con una mano mi accarezzava la schiena.
Lo feci stendere sul tappeto e mi sedetti a cavalcioni su di lui.
Quella notte facemmo l'amore per tre volte.
< Sei bellissima > mi sussurrò alle prime luci dell'alba.
Sorrisi e gli baciai la punta del naso, illuminato dal sole che stava nascendo. Ero stesa sopra di lui sul divano dove ci eravamo stesi, sfiniti, dopo l'esserci amati per tutta la notte.
< Hai qualcosa da fare oggi? >
< Emma vuole parlarmi di un copione, quindi sono impegnato per la mattina. Tu a che ora hai il controllo? >
< Alle undici > risposi e mi guardò pietrificato.
< Ero convinto fosse di pomeriggio! Chiamo Emma e le dico di spostare tutto > disse prendendo il cellulare dal tavolino, ma glielo sfilai di mano.
< Sono le sei del mattino > gli ricordai mostrandogli l'orario sul display < e non preoccuparti per me, posso anche andare da sola >
< Ma… >
< Sul serio, Rob >
Gli accarezzai la mascella, quella che tanto mi piaceva toccare, e gli sorrisi.
< Per qualsiasi problema… >
< Ho il tuo numero > annuii e finii la frase per lui.
< Ti amo > sussurrò al mio orecchio e rabbrividii come tutte le volte.
< Io di più >
Facemmo l'amore per la quarta volta e poi ci addormentammo, sfiniti.
Erano le nove e mezza quando Robert aveva risposto al telefono, dopo la ventesima chiamata di Emma, che era nera dalla rabbia.
< Devo andare > mi disse a malincuore mentre mi baciava sulla porta di casa, ma eravamo ancora dentro le mura per non essere disturbati dai paparazzi che si erano appostati lì davanti da ieri.
< Vai tranquillo >
< Mi chiami non appena avrai finito? >
< Prometto > risposi soffiando sulle sue labbra < ora vai a lavorare > gli dissi, omettendo il fatto che stesse già perdendo troppo tempo con me, visto che tecnicamente doveva trovarsi a girare un film lontano migliaia di chilometri da qui.
Scosse la testa e mi baciò la punta del naso.
< Ti ho mai detto che sei un libro aperto? > domandò e negai < Mi hanno dato dei giorni di pausa, così nel frattempo filmano le parti dove io non compaio >
Roteai gli occhi. Non avevo detto niente, eppure lui aveva capito. Ero un libro schifosamente aperto.
< Ci vediamo nel pomeriggio > risposi aprendo la porta e lo cacciai poco carinamente dalla sua abitazione, ma non prima di avergli fatto l'occhiolino.
Una volta rimasta sola mi feci un bagno caldo, mi vestii, misi nuovamente la fascia per sorreggere il braccio, speranzosa di poterla togliere il prima possibile, e dopo aver visto che il mio taxi era arrivato uscii di casa.
I paparazzi non appena mi videro mi si avvicinarono.
< Michelle, Michelle, guarda qua! > esclamò uno mentre mi accecava con i flash.
Ero praticamente arrivata ad aprire lo sportello quando un altro mi si affiancò.
< È vero che eri incinta e hai perso il bambino? Ora cosa contate di fare? > domandò.
Mi pietrificai.
Come poteva saperlo?
Non potei ignorarlo e mi voltai furibonda.
< Cosa diavolo ne sapete voi? > ringhiai a denti stretti, ma non rispose, continuò a fotografarmi e basta < Rispondi! > urlai a pieni polmoni, ma siccome dalle sue labbra non si udivano suoni afferrai la sua reflex e con tutta la forza che avevo del mio braccio sano la gettai a terra, spinsi quel paparazzo ed entrai dentro il taxi.
Gli diedi l'indirizzo dell'ospedale di Santa Monica e scoppiai a piangere, mentre l'odio verso l'ospedale di New York e tutti i suoi dipendenti mi nasceva nel cuore.

 

< Signorina Waldorf, come sta? > mi domandò il dottor Moseby, colui che era diventato il mio dottore da quando avevo detto addio al pediatra.
< Bene > risposi vaga. Non potevo fidarmi di nessuno, e se avesse cantato come i dottori di New York?
< Il braccio va meglio? Riesce a muoverlo? >
< Sì > replicai freddamente.
Il mio atteggiamento ostile lo colpì molto, potevo vederlo bene, specialmente perché non mi ero mai comportata così con lui, per cui mi visitò senza dire un'altra parola.
< Bene, direi che si sta riprendendo in fretta > constatò < le consiglio di stare senza fascia per un paio di ore al giorno per due giorni, poi gradualmente può cominciare a toglierla per un tempo maggiore >
Annuii e lo ringraziai.
< Beh, allora arrivederci, dottore >
< Signorina Waldorf? > mi chiamò prima che varcassi la soglia < Potrebbe portare queste a sua madre? Così può iniziare subito la terapia >
< Terapia per cosa? > domandai senza capire e lo vidi pietrificarsi per mezzo secondo.
< L'altro giorno è venuta da me per parlarmi di uno sfogo sulla pelle e questa è la ricetta per andare a prendere le medicine > mentì e annuii, presi le ricette e le riposi in borsa.
< Sto studiando medicina, sa, dottore? > gli dissi guardandolo fissa negli occhi < E so bene che le medicine che si somministrano per chi viene colpito con sfoghi sulla pelle non hanno bisogno di una ricetta, e sa il perché? Perché ora si vende solo roba omeopatica, le medicine come il cleutirox o affini sono state bandite. Allora, ho fatto bene i compiti? > chiesi con tono di sfida e lo vidi deglutire.
< Dottore? > lo chiamò un'infermiera interrompendoci < C'è un'emergenza, abbiamo bisogno di lei >
< Arrivo > rispose riprendendosi < signorina Waldorf, devo chiederle di andarsene ora >
Uscii dal suo studio e mi chiusi la porta alle spalle. Ero sola in quell'ala del corridoio.
Mi diressi in bagno e socchiusi la porta, vedendo il dottore e l'infermiera andarsene mezzo minuto dopo.
Il dottor Moseby non aveva chiuso la porta a chiave.
Io ero sola.
E la mia adrenalina era a mille.
Uscii dal bagno, mi accertai di essere che non ci fosse nessuno e riaprii la porta dello studio. La mia cartellina era la prima della pila, ma accanto ce n'era un'altra aperta.
E il nome in grassetto mi colpì. “Bianca Nichole Carrell”. Carrell era il nobile da nubile di mia madre. Guardai la data di nascita, tanto per essere sicura, e constatai che era la stessa.
La chiusi, ringraziai il fato di avermi fatto prendere la borsa grande e infilai dentro la cartellina, poi lasciai la stanza. Solo dopo aver girato l'angolo mi resi conto che stavo commettendo un furto e che se mi avessero scoperta sarei finiti in guai seri, così mi infilai nella sala fotocopie, sfilai tutto il fascicolo dalla sua cartellina e lo fotocopiai. Impiegai cinque minuti di orologio, poi misi tutte le copie dentro la mia borsa, risistemai le originali dentro la cartellina e tornai indietro per rimetterla al proprio posto per non destare sospetti.
Ma prima ancora di entrare nell'ufficio qualcuno mi afferrò il braccio.
< Cosa ci fai qui? > domandò Mark, il fratello maggiore di Sarah.
< Devo vedere il dottore >
< È in sala operatoria ora > disse guardandomi sospetto e vide cosa tenevo in mano < che cos'è? > chiese strappandomela dalle mani e mi guardò stupito < Ti metti a rubare ora? >
< Non stavo rubando > mi lamentai dimenandomi < ho solamente fotocopiato una cartellina >
< Il dottor Moseby lo sa? > chiese e abbassai lo sguardo < Dovrei denunciarti, lo sai? >
< Non farlo > lo implorai con le lacrime agli occhi < Mark, tu mi conosci, sai come sono >
< Lo sapevo > ribatté freddo usando il tempo passato < insomma, non potevo sapere che ti mettessi a rubare informazioni riservate >
< Quella > dissi indicando la cartellina < è mia madre. E siccome il dottore mi ha mentito, io voglio sapere cosa ha >
< Non ti bastava chiederlo a lei? >
< Se me l'avesse detto ti pare che sarei qui ora? >
Mark sospirò e si passò una mano sulla faccia.
< La sistemo io e non dirò niente, ma ora sparisci di qui >
Gli sorrisi grata e scappai dall'ospedale senza guardarmi indietro, camminai in cerca di una cartoleria e quando la trovai vi entrai dentro e attesi che la fila si smaltisse.
Presi il mio telefonino dalla borsa e richiamai l'ultimo numero della rubrica.
< Pronto? > rispose con voce assonnata.
< Hey, sono io >
< Michelle? > domandò sbadigliando < Perché mi chiami, sono le quattro del mattino >
< Ti sbagli, è quasi mezzogiorno > ribattei pensando al fuso orario.
< Per me è presto. Sono andato ad una festa e sono tornato tardi >
< Senza offesa, Jeremy, ma in questo momento non ho tempo di sentire la storia della tua vita > gli dissi scocciata < ho bisogno che tu mi faccia un favore >
< Sarebbe a dire? >
< Ti sto per mandare un fax, ho bisogno che tu poi dia le copie alla Walsh. Dille che deve decifrare cosa dice e che è urgente >
Sbadigliò e poco dopo sentii tirare lo sciacquone.
< Parli come le protagoniste di un libro thriller >
< Jeremy, sono seria >
< Anche io > replicò < e da dove vengono queste copie? >
< Dall'ospedale di Santa Monica >
< Ma lì non è permesso divulgare le informazioni…insomma, è esclusivo per quello… >
< Lo so, Jer >
< Le hai rubate?!? > urlò talmente forte che la tipa accanto a me lo sentii e mi guardò preoccupata.
< Non proprio. Ho fatto delle fotocopie > spiegai abbassando la voce < l'originale è di nuovo nello studio di Moseby >
Sentii il mio amico sospirare rassegnato.
< Sto andando nella sala fax, manda tutto >
< Grazie, sei un amico >
< Guai a te se finisco nei casini per colpa tua >
< Non ci finirai, tranquillo > lo rassicurai mentre consegnavo le copie alla signora dietro al bancone.
Era arrivato il mio turno e non c'era più nessuno dentro la cartoleria.
La donna mi guardò con gli occhi a palla e scosse la testa, così fui costretta a rimettere il telefono in borsa per prestarle la mia attenzione.
< Non posso farlo > mi disse < è vietato >
< La prego, è importante. Devo inviare queste copie come fax > la implorai e la vidi tentennare, così tirai fuori dal portafoglio trecento dollari, quelli che mi ero guadagnata in quei mesi facendo da baby-sitter quando non dovevo studiare e che volevo usare per lo shopping per non far spendere soldi a mia madre per me, e glieli porsi.
La signora deglutì e se li mise in tasca.
< Mi dia il numero… >
Era la prima volta che rubavo informazioni ad un ospedale, era la prima volta che corrompevo qualcuno. E pregai fosse anche l'ultima.
Uscii dalla cartoleria pochi minuti dopo e richiamai il mio amico.
< È arrivato tutto > mi disse.
< Bene. Cancella il timbro dell'ospedale e anche il nome di mia madre. Scrivici a matita Waldorf >
< Sei davvero sicura di… >
< Sì > lo interruppi < grazie dell'aiuto, Jeremy >
Misi via il telefono e chiamai un taxi che mi portò a casa di mia madre.
Per la prima volta in venti anni fu divertente fare shopping con lei.
< Ci vediamo domani? > domandò mia madre guardandomi speranzosa e le sorrisi.
< A domani >
Le baciai la guancia e camminai fino a casa di Robert, ignorando i paparazzi.
< Sono a casa! > esclamai chiudendo la porta < Rob? Ci sei? > lo chiamai entrando in cucina e lo vidi bere una birra < Come è andata la giornata? > chiesi avvicinandomi a lui e lo baciai sulle labbra, scambiando la sua freddezza per stanchezza < La mia è andata bene. Mi sono divertita a fare shopping con mia madre, chi l'avrebbe mai detto? > continuai mentre prendevo un bicchiere con dell'acqua < Anche se questa mattina ho rotto la reflex di un paparazzo perché mi aveva fatto incazzare >
< E la visita? > domandò.
< Alla grande > risposi < da domani posso iniziare a stare per qualche ora senza usare la fascia >
Robert annuì e si alzò dalla sedia.
< Hai altro da dirmi? >
< Tipo? > domandai senza capire.
< Non lo so, magari dirmi perché hai rubato un fascicolo da un ospedale > ribatté sarcastico.
< Il fascicolo è ancora lì > puntualizzai freddamente.
< Sai bene cosa voglio dire >
< Non sono affari tuoi > ribattei dandogli le spalle.
Sentii la sedia cadere per terra e Robert mi afferrò per il braccio buono.
< Jeremy mi ha chiamato e mi ha raccontato tutto >
< Bene, allora le cose le sai già > ribattei tentando di divincolarmi, ma invano.
< Perché l'hai fatto? > domandò tormentato < Hai idea di quello che potrebbe accadere se…? >
< Non accadrà niente > dissi a denti stretti e riuscii a divincolarmi.
Corsi al piano di sopra, mi rifugiai nella stanza degli ospiti che stava ritinteggiando e mi ci chiusi dentro a chiave, mentre Robert batteva i pugni sulla porta per aprire.
Il mio telefonino squillò nell'esatto momento in cui Robert smise di battere. Era un numero che non conoscevo, ma il prefisso sembrava familiare.
< Pronto? >
< Waldorf, sono la professoressa Walsh >
< Professoressa! > esclamai sollevata.
< Premesso che questo foglio non dovrei nemmeno averlo tra le mani…gli ho dato un'occhiata > disse addolcendo il tono < Michelle, è suo? >
< La paziente è mia madre >
Sentii dall'altro capo del telefono un lungo sospiro.
< Credo sia ormai inutile girarci intorno. Michelle…sua madre ha un tumore celebrale. E a giudicare dalle analisi è ad uno stadio abbastanza elevato >
Mi si mozzò il respiro. Avevo la gola secca e non capivo più niente. Sussurrai un flebile “grazie” e posai il telefono sul pavimento.
Chiusi gli occhi e appoggiai la testa alla porta.
Dalle mie labbra partì un urlo disperato.

****

Bene, con mio sommo dispiacere avete assistito alla seconda tappa de “I dolori di Michelle”.
Prima di lasciarvi ci tengo a dirvi che per me è stato davvero difficile scrivere questo capitolo e i prossimi a seguire, ero tentata di cestinare tutto perché poteva risultare ridicolo, cioè…perché tutte a lei le sfighe?
Però mi sono messa in gioco e voglio rischiare. Insomma, ho speso un sacco di tempo nello scrivere questi capitoli estremamente difficili e pesanti, quindi ho pensato che non avesse senso cancellarli per rendere la vita di Michelle rose e fiori…perché, davvero, il 2011 mi ha fatto capire quanto il destino possa giocarti tiri mancini.
Ciò nonostante, per tutto quello che accadrà…sappiate che Michelle è forte e che avrà il suo lieto fine (non mi stancherò di dirvelo, mai.)
Spero mi facciate sapere cosa ne pensate di questo capitolo, ci tengo moltissimo ad avere una vostra opinione.

Giulls

   
 
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