Storie originali > Romantico
Segui la storia  |       
Autore: Talulah    08/02/2012    3 recensioni
<< Un piccolo movimento fece dirigere gli sguardi di tutti verso uno dei migliori palchi, verso una splendente nobildonna, e un magnifico gentiluomo.
“ Lo zarevic! “ sussurrò qualcuno, “ è arrivato finalmente!”
Un silenzio stupefatto e incantato accolse la loro entrata, e dopo pochi minuti mormorii, bisbigli e sospiri sognanti riempirono la sala. (...)
Il teatro sprofondò nel silenzio, tutti erano impegnati a non perdere neanche un attimo di quel raro momento. Lo zarevic si avvicinò lentamente alla sua dama, per poi prendere la sua mano e portarla alle labbra con una naturalezza così elegante e perfetta da essere disarmante. Osservai la scena con una punta di invidia e triste desiderio. Quanto le sarebbe piaciuto ricevere un baciamano così regale, così perfetto, sarebbe stato un sogno se un gentiluomo l’avesse guardata con quell’emozione unica trasmettendole quell’attaccamento profondo. Sarebbe stato il sogno di tutte.. Avevo avuto molti corteggiatori essendo di ricca e nobile famiglia, ma mai nessun uomo mi aveva trattata come il Granduca stava facendo con la sua dama. Che signora fortunata, pensai con la triste invidia che si acuiva sempre più.
Non saprei ben dire quanti cuori sognanti infranti ci furono a teatro quella sera.. >>

Una storia piena di passione, amore e veleno, fatta per far sospirare le sognatrici. In un epoca dove tutto è basato su ricchezza e nobiltà, può l'amore vincere su tutto?
Genere: Drammatico, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'The Russian Royal Family'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Capitolo V

La via del peccato

 
 
 










Un nuovo giorno, in quella Londra sconosciuta. Mi svegliai. Ero scossa, arrossata e palpitante per i vividi sogni fatti durante la notte, ma appena aprii gli occhi, la calda luce accogliente del sole mi schiarì le idee. Sorrisi automaticamente ascoltando gli uccellini che cantavano al nuovo giorno e pensando alla luminosa giornata che si prospettava. Mi stiracchiai con un pigro sorriso che mi abbelliva il volto, quando i pensieri tornarono con violenza a schiaffeggiarmi, facendomi attorcigliare le viscere per l’ansia. Mi immobilizzai fissando nel vuoto. Ricordai la serata al Drury Lane Theater, ricordai il Granduca. Quel bellissimo giovane nobile, che mi aveva sconvolto con una semplice occhiata, che aveva lineamenti troppo perfetti, che sembrava indifferente a tutto, che proveniva da un enorme e bellissimo Paese, su cui un giorno avrebbe regnato. Un brivido mi percorse la spina dorsale. Pensai alla sera precedente, al giovane e bellissimo amante della duchessa. Quella voce profonda, con una nota divertita e quel marcato accento così familiare, mi aveva scosso. Così giovane, con quei meravigliosi occhi azzurri. Pensai allo sguardo adorante di Gabrielle, quando guardava insistentemente il suo giovane amante. Mi riscossi arrossendo. Mi alzai, pensando alla serata che mi aspettava. Non sapevo esattamente a quale ora sarebbe cominciato il ballo, ma Jessica mi aveva raccomandato di essere puntuale: alle sette di sera avrei dovuto essere a casa sua. Mi chiesi quanto tardi potesse cominciare questo ballo. Dalla forte luce del sole che entrava dalla grande finestra, constatai che dovevano essere le dieci. Indossai dei semplici abiti che non ebbi difficoltà ad indossare da sola. Di Eveline nessuna traccia. Non ci pensai. Finito di vestirmi mi feci una semplice e veloce treccia che poi arrotolai sulla nuca. Mi guardai allo specchio, trovandomi decente e composta. Come doveva essere. Sbuffai, notando la castigata scollatura, il bustino aderente, e la gonna liscia ma voluminosa. Sospirai, consolandomi pensando che almeno i colori dell’abito, il rosa e il bianco, mi erano sempre stati bene. Uscii dalla camera, dispensando saluti ai vari servitori mantenendo il passo veloce. Arrivai nei pressi delle cucine. Non avevo voglia di mangiare da sola nella grande sala, e spesso e volentieri, quando non c’era nessuno in giro che mi rimbeccasse, mi piaceva mangiare nelle cucine. Lì dentro l’aria era calda e familiare e tutti erano gentili, soprattutto la mia Margot. Spinsi la pesante porta di legno ed entrai. C’erano pochi servitori nella cucina e un piacevole odore di brioches aleggiava nell’aria. Lunghi banconi sporchi di farina, grandi forni a legna, vassoi impilati riempivano la stanza, e giovani e anziani servitori riordinavano o dispensavano ordini. Appena entrai tutti gli sguardi si puntarono su di me. Era piuttosto insolito che una nobile entrasse nelle cucine, o anche solo che si avvicinasse all'ala della casa riservata ai servitori se non, ovviamente, per eventuali strigliate. Uno strano silenzio regnò nella stanza per una decina di secondi, poi alcuni si riscossero con un lieve movimento del capo. Avrebbero fatto meglio ad abituarsi alla mia presenza lì, le cucine mi erano sempre piaciute. L'odore di pane fresco e brioche mi aveva sempre fatto pensare e ricordare cose belle. Andavo matta per quel profumo così caldo, che sapeva tanto di famiglia. 
<< Allora?! Nessuno qui ha qualcosa da fare?! Riprendete a lavorare! >> intervenne Margot, riportando all'ordine i pochi ragazzi servitori rimasti ancora fermi a fissarmi. Alcuni di loro arrossirono, altri risero, facendo qualche battutina. Tutti volevano bene a Margot, lì dentro era come una mamma, per tutti. 
Mi girai sorridente verso di lei. Margot aveva il tipico aspetto della nonna affidabile, affettuosa, calorosa. I suoi capelli grigi erano legati in una treccia piuttosto disordinata da cui sfuggivano diverse ciocche. Il viso paffuto e rugoso, dalla carnagione bronzea, anche se con qualche traccia di stanchezza era luminoso. Le palpebre ormai dalla pelle slabbrata, le ricadevano leggermente sugli occhi scuri come due pozzi di petrolio. La sua figura bassa e grassottella, quasi sempre adornata da camici da cucina sporchi di farina, era buffa e simpatica, ispirava fiducia. Evidentemente soddisfatta di aver riportato sulla retta via i ragazzi, annuì con un sorriso compiaciuto, per poi rivolgersi a me.
<< Buongiorno cara >> mi disse con un sorriso sinceramente caloroso.
<< Buongiorno Margot! Hai qualcosa di buono per me? Muoio di fame.. >> risposi con una smorfia che sostituì il mio sorriso.
<< Ma certo mia cara! Vieni, vieni con me, così mettiamo un po' di carne su queste ossa! >> disse con un sorriso, portandomi verso un banco meno sporco di farina e gocce d'acqua. Pensai a come Margot si era riferita a me. In realtà di carne sulle ossa ne avevo abbastanza, nella giusta proporzione, visto che avevo sempre adorato ogni forma di bombolone, marmellata, crema, e altre delizie. Tranne il cioccolato. Mi piaceva, certo, ma non mi faceva perdere la testa. I miei pensieri dedicati ad un enorme dolce farcito di crema e panna, furono interrotti dal rumore del piatto in porcellana che era stato posato proprio sotto il mio naso. Mi riscossi, e fissai un po' spaesata Margot che ricambiava insistentemente il mio sguardo, arternandolo poi da me al piatto. Un odore dolce di zucchero mi invase le narici. Abbassai lo sguardo, contenta di trovare la mia semplice ma graditissima colazione. Fette di pane fresco spalmate di burro e marmellata, cereali, bomboloni alla crema riempivano il piatto, con l'aggiunta di una tazza di cioccolata calda con fiocchetti di panna. La mia semplice colazione. Soddisfatta e con lo stomaco che cominciava a mangiarsi da solo, addentai una fetta di pane fresco. Un sapore dolce al punto giusto mi invase il palato e io sorridevo, mentre anche Margot si perdeva in risatine soddisfatte e divertite dalle mie buffe espressioni di beatitudine. Mentre mi concentravo sui vari sublimi sapori, e Margot spolverava qua e la, un piccolo tornado invase la cucina, seguito da servitori che cercavano di acchiapparlo. 
<< Ehi torna qui! >> gridò uno dei ragazzi che stava cercando di acciuffarlo.
Sobbalzai, guardando la causa di tutto quel trambusto. Joseph, chiamato da tutti affettuosamente Josy, una piccola peste di tre anni che appena mi vide si bloccò di colpo con il viso rosso, e il corpicino scosso da spasmi per la lunga corsa. Adoravo quel bambino, era bellissimo, tenero, simpatico, e iperattivo, anche se molto timido. Non si fidava ancora di me, stavamo ancora imparando a conoscerci.
<< Josy! Peste che non sei altro, fai disperare tutti, mascalzone! >> disse con finta severità Margot, avvicinandosi a quel bambino ridacchiante. 
Mi alzai dalla sedia, dimentica ormai del mio bombolone e mi avvicinai a Josy che immediatamente, vedendomi avvicinarmi, si nascose dietro il grande e sgualcito gonnellone di Margot, la sua affettuosa nonna. Sorrisi lentamente, e alzai la mano per fare un piccolo gesto di saluto senza cercare di spaventarlo ulteriormente, ma Josy seppellì ancora di più il suo visino nella stoffa che lui evidentemente doveva trovare molto rassicurante.
<< Timidone! Quando si tratta di combinare guai però, sei sempre pronto! >> disse Margot, prendendo in braccio il frugoletto, che subito gli fece la linguaccia. I ragazzi che avevano cercato di acchiappare quel piccolo tornado e che erano rimasti a guardarlo, scoppiarono in una risata, mentre Margot s'imbronciava. Risi anch’io, seguita subito da Margot che cercava di nascondere il suo divertimento. Ancora ridacchiando, mi avvicinai a Josy che rimase a guardarmi con le gote rosse, la bocca socchiusa, dove sembrava essere indeciso se metterci o meno il suo ditino. Gli feci una lieve carezza sul capo, e il piccolo Joseph a poco a poco, cominciò a rilassarsi, ridacchiando per il solletico che a momenti gli facevo al pancino.
<< Siete brava con i bambini, Vostra Grazia! Joseph non si fida molto delle persone.. >> disse un giovane dalla pelle bronzea per i lavori sotto il sole.
Sorrisi. << Grazie.. >> mormorai, concentrata sui sorrisi che rivolgevo al piccolo Josy.
Il bambino sembrava molto interessato al mio bracciale d’oro, e mentre giocherellava con il mio polso, tenendosi sempre stretto alla nonna che lo fissava con sguardo colmo d’amore e di divertimento, osservai il bimbo. Aveva capelli color cioccolato fondente, due grandi occhi verde scuro con sfumature marroncine, fossetta sulla guancia sinistra, denti piccoli e bianchi, e uno sguardo birichino.
<< Nessuno ha niente da fare qui?! Tornate a lavorare, fannulloni! Quanto tempo avete intenzione di perdere dietro ad una piccola peste?! A lavoro! >> sbraitò una voce che io conoscevo solo da pochi giorni.
Sobbalzai per lo spavento, girandomi per accertarmi di chi fosse la voce severa e roca che aveva interrotto così bruscamente quel momento spensierato. Vidi all’entrata della cucina la governante della casa, Gertrud. Una signora di mezza età, magra come una scopa, dall’aspetto severo. Quella mattina come tutte le altre, indossava un castigato abito grigio scuro che le copriva quasi tutto il collo, la severa e ordinatissima crocchia era come sempre ben fatta e nessuna ciocca marrone-grigia sfuggiva al suo ordine perfetto, le guance incavate rendevano ancora più severa la sua immagine. Appena il suo sguardo si posò su di me, spalancò leggermente gli occhi per la sorpresa. Rimase interdetta per qualche istante, poi recuperò la sua aria gelida, severa ed intransigente.
<< Vostra Grazia, buongiorno.. Non mi aspettavo di trovarvi qui, vi siete forse persa? Una signorina nobile e ben educata come voi non dovrebbe trovarsi nelle cucine, ne tantomeno fra la servitù.. >> disse con un gelido sorriso cordiale che non raggiungeva gli occhi.
Cercai di ignorare la frecciatina e rimasi senza parole, stupita, per qualche momento. Nonostante solo poche e a me vicine persone sapessero che avessi sangue blu nelle vene, nessuno mai mi si era rivolto in quel modo così sfacciato. Ero considerata una trovatella per la società e la gente quando parlava di me, di certo non lo faceva per elogiare il mio modo di vestire ne tantomeno la mia provenienza, ancora dubbia e motivo di pettegolezzi spesso e volentieri maligni. Ma ero pur sempre una duchessa e nella classe sociale ero ai vertici dell’aristocrazia. Ero una duchessa, santo cielo. Tutti mostravano assoluto rispetto nei miei confronti, non certo per benevolenza, visto che il più delle volte avevo letto nei loro sguardi un odio inspiegabile e una malignità non altrettanto inspiegabile, ma perché dovevano. Quell’ordine velato da gelida cortesia mi innervosì terribilmente e risposi non come una duchessa ma come una popolana.
<< Buongiorno anche a voi Gertrud.. La ringrazio del pensiero e della preoccupazione che nutre nei miei confronti, ma questa è la mia casa, e gradisco passare il mio tempo come più mi aggrada. Se poi ci riesco senza ricevere giudizi non richiesti, allora è proprio una splendida giornata. >> conclusi con un sorriso di cortesia.
Gertrud rimase impassibile, ma il suo sorriso evaporò lentamente. << Ma certo Vostra Grazia, come voi preferite, sono qui per servirvi.. Se avete bisogno di qualsiasi cosa.. >> disse con un inchino.
Alzai una mano per interromperla, << certo Gertrud, vi ringrazio. Qualunque problema mi si presenterà, sarò lieta di venire a lamentarmi da voi >> dissi con una risatina, << e adesso, se volete scusarmi, avrei proprio voglia di portare questo bel bambino a fare una passeggiata nella tenuta.. Sempre che a voi vada bene Margot >> dissi voltandomi con un sorriso caloroso verso l’affettuosa nonna che ancora coccolava fra le sue braccia Josy, a cui luccicarono gli occhi alla prospettiva di poter scorrazzare nel boschetto.
<< No affatto Vostra Grazia! Forse si stancherà e la smetterà di combinare guai dopo! >> disse con una finta nota di rimprovero, scuotendo lievemente il piccolo che subito divento paonazzo, per poi nascondersi nell’incavo del collo di Margot, che a quella reazione, rise.
Ridacchiai anche io, per poi sporgermi per prendere Josy fra le mie braccia che stranamente non fece capricci ma che, incantato dai miei capelli, mi strinse un braccino in torno al collo, mentre una manina andava a giocare con una ciocca dei miei capelli. Lo guardai attentamente, e vedendolo così concentrato in quello che faceva, risi.
<< Ma certo Vostra Grazia.. Vi faccio preparare la carrozza, o i cavalli? >> chiese Gertrud, severa e composta.
<< Non credo che Josy sia capace di montare uno stallone, e di certo la carrozza non ci servirà, soprattutto se dobbiamo cercare di stancare questa peste >> dissi con un sorriso, << procederemo a piedi Gertrud >> conclusi decisa.
<< Come voi preferite Vostra Grazia.. Chiamo subito la vostra cameriera per l’occorrente per la passeggiata >> disse Gertrud, inchinandosi prima di congedarsi.
Dopo pochi minuti, sulla soglia della grande cucina comparve Eveline con il fiatone e il viso paonazzo. << Vostra Grazia, buongiorno! Perdonatemi per non essere venuta da voi stamane ma la duchessa mi aveva mandata a fare delle commissioni.. >> disse, arrossendo ancora di più, << ecco a voi Vostra Grazia, il vostro ombrello per la passeggiata, una pelle bella e limpida come la vostra sarebbe un peccato rovinarla! Vi ho portato anche lo scialle.. >> concluse con il fiatone, affannata, e sempre più rossa.
Cercando di trattenere una risata, le sorrisi rassicurante e afferrai ombrello e scialle che mi porgeva. Ero incuriosita da quale commissione avrebbe potuto farle fare la duchessa, ero stupita, di solito mandava le sue cameriere personali a sbrigare le sue faccende, senza privarmi delle mie serve. Scrollai le spalle, quella mattina comunque Eveline non mi sarebbe servita. << Grazie mille Eveline e non preoccuparti per questa mattina.. Questa sera però ho un impegno e vorrei che mi aiutassi a rendermi presentabile! Fatti trovare nelle mie camere per le cinque e trenta di questo pomeriggio. Non tardare >> le raccomandai con un sorriso.
Feci scendere Josy dalle mie braccia ormai indolenzite, gli presi la manina che lui insicuro afferrò e mi avviai verso la porta d’uscita della servitù.
Appena il sole tiepido e inaspettato di quella mattina di gennaio mi colpì, aprii l’ombrello bianco che subito mi offrì un riparo. L’aria era fredda, e in pochi minuti la pelle del viso si fece ghiacciata, e quasi sentii il naso e le guance tingersi di un rosa acceso, causato dal freddo. Il tepore del sole per fortuna, mitigava il tutto. Camminavo tranquilla, guardando il piccolo Josy che incurante di tutto, scorrazzava allegramente da una parte all’altra, facendosi beffe dell’aria gelida. Ci inoltrammo nei curatissimi e vasti giardini, pieni di rose, per poi finire nel grande viale alberato che sapevo portava al boschetto, dove poi si poteva decidere se andare al fiume, al piccolo laghetto artificiale oppure alla radura. Camminavo sorridendo, tranquilla e libera dai pensieri, guardando e assicurandomi che Josy stesse giocando senza correre pericoli. A volte il piccolo si voltava verso di me per assicurarsi di non essere solo. Sentivo il cinguettio degli uccelli, l’odore della terra, e lo scricchiolio dei sassolini, dell’erba e della ghiaia sotto le mie scarpe, vedevo il magnifico gioco di ombre che il sole creava passando attraverso i rami degli alti alberi che facevano come da soffitto, vedevo l’erba e il polline che svolazzava nell’aria alla luce del sole. Sorrisi, rilassata come non lo ero da tempo. La risata limpida e infantile di Josy penetrò fra i miei pensieri, risvegliandomi da quello strano torpore per catapultarmi in un altro. Guardai Josy che correva verso un grande albero per cercare di acchiappare qualche scoiattolino. Fra qualche anno avrei fatto le stesse cose ma con mio figlio? Un figlio nato da un matrimonio combinato, di convenienza, oppure un figlio nato dall’amore? Avrei avuto la possibilità di vedere riflesso negli occhi del mio bambino l’amore della mia vita? Tante domande cominciarono ad affollarmi la testa, domande che avrebbero trovato una risposta soltanto vivendo, soltanto andando avanti. Se avessi fatto un matrimonio di convenienza, sarei riuscita a dare un erede maschio a mio marito? Speravo di si. Alla parola marito, rabbrividii. Chissà con chi avrei dovuto condividere il letto e il mio corpo per il resto dei miei giorni. Guardando Josy, desideravo avere una famiglia piena d’amore, un marito d’amare per tutta la vita, dei figli da crescere e accudire. Mi diedi della stupida, pensando a chissà quante fanciulle avessero i miei stessi sogni il più delle volte irrealizzabili. All’improvviso, nella mia mente si formò l’immagine di un uomo imponente, magnifico, con in braccio uno splendido bambino sorridente, e al fianco una giovane donna, quasi una bambina, che guardava con occhi colmi d’amore l’uomo al suo fianco. Diventai paonazza, appena mi resi conto dei miei pensieri, delle mie fantasie sempre più folli. Immaginare di essere sposata con il magnifico Granduca e di avere dei figli da lui era pura follia. Ci eravamo rivolti a mala pena due sillabe, e lui probabilmente si era già dimenticato della povera orfanella che la sua donna aveva offeso. Era fra gli scapoli più ambiti, se non il più ambito, non si sarebbe mai accorto di me. Sognarlo era innocuo quanto pericoloso. Infatuarsi dello zarevic sarebbe stata una mossa davvero poco intelligente che avrebbe portato ad un cuore spezzato e ad un anima logorata, che sarebbe stata inevitabilmente la mia. Lui aveva così tante nobili e avvenenti fanciulle ai suoi piedi, fra cui proprio Adelaide. Come avrebbe potuto anche solo guardarmi? E se l’avesse fatto, di certo il Granduca avrebbe pensato a che uso fare del suo corpo, e a quanto piacere ricavarne. Nella mia mente si formò l’immagine di due gambe avvinghiate a dei fianchi snelli ma ben delineati, che si muovevano ad un ritmo sostenuto. Arrossii subito e come se nei dintorni ci fosse stato qualcuno che avesse potuto ascoltare i miei pensieri tossii per l’imbarazzo. Peccato che, nei meandri della mia mente, quel fondoschiena sodo continuasse ad andare su e giù. Alzai gli occhi al cielo diventando paonazza. Subito cercai di tornare alla normale decenza. Non avevo mai fatto pensieri del genere, erano cose di cui non mi ritenevo capace, per non parlare del fatto che non avevo mai visto un uomo senza camicia, figurarsi spoglio dalla cintola in giù. Non avevo neanche mai toccato le mani di un uomo, senza indossare i guanti. Ovviamente, visto che sarebbe stato al limite della decenza. Sorrisi scuotendo il capo. Era una cosa impossibile e lontana dal mio ambiente, dal mio mondo, da me. Mi venne in mente l’atteggiamento intimo a cui avevo assistito, fra il Granduca e l’Arciduchessa. Ripensai alle carezze, allo sguardo carico di passione e desiderio malcelato che Adelaide aveva rivolto al suo bel principe, un desiderio malcelato che, a meno che non mi sbagliassi, avevo intravisto anche negli occhi di Aleksej. Quanto mi sarebbe piaciuto ricevere quello sguardo dal russo, quanto! Ma erano solo fantasie, belle ma dolorose. Lui avrebbe passato il resto della sua vita con una moglie bellissima con sangue più che nobile nelle vene al suo fianco, quasi sicuramente con più di un amante, nella sfarzo e nel lusso più assoluto, ma certo con grandi responsabilità ma anche grandi privilegi per il suo ruolo di zar, che prima o poi si sarebbe posato sulla sua testa, con il simbolo di una regale e preziosissima corona. Sospirai. Il vestito di corte gli sarebbe stato sicuramente benissimo. Scrollai il capo, e cercando di togliermi dalla testa come fossero i balli russi, come fosse San Pietroburgo, città natale di quel Dio che così poche volte avevo avuto la fortuna di vedere. Si diceva che le damigelle russe, fossero più aperte, disponibili e perfino libertine. Questo non potevo certo saperlo, ma mi portava inevitabilmente a immaginare il lusso dei balli di quel grande Paese. Sarebbe stato bello andarci, e vedere Aleksej fra la sua gente, nella sua patria. Sarebbe stato bello perfino imparare quella lingua così complicata quanto meravigliosa. Ma era ovviamente impossibile, il mio posto per adesso era la Francia, o d’ovunque ci sarebbe stato il mio futuro e conveniente marito. Svegliandomi da quello strano torpore fatto di pensieri poco casti e sogni poco sicuri, mi accorsi che ormai doveva essere passato un bel po’ di tempo dalla nostra uscita. Ci eravamo inoltrati nel boschetto e la luce scarseggiava a causa della fitta vegetazione. Infilai la mano nel corsetto, dove quotidianamente nascondevo il mio orologio da taschino. Ormai era l’una passata, e io e il piccolo Josy avremmo dovuto affrettarci per il pranzo, o la duchessa si sarebbe preoccupata, insieme a Margot, l’apprensiva nonna della piccola peste. Alzai frettolosamente lo sguardo, alla ricerca di Josy. Dovevamo affrettarci verso casa, anche perché non avremmo potuto comunque continuare ad andare in quella direzione, non la conoscevo, non sapevo dove portava e da quello che potevo vedere, gli alberi e le piante s’infittivano sempre di più rendendo difficile la visuale e, probabilmente, perfino farci una passeggiata sarebbe stato alquanto complicato. Guardai in alto. Non sentivo più quel piacevole tepore sulla pelle e come immaginavo, delle nuvole di un grigio chiaro, cominciavano ad oscurare il sole. Sempre più impaziente di tornare a casa, cominciai a guardarmi in torno. Dovevamo sbrigarci, c’era già poca luce con il sole lì, se le nuvole avrebbero completamente offuscato il cielo, prospettiva probabile in quella strana Londra, la visuale sarebbe stata scarsa e trovare la via del ritorno non sarebbe stato facile e di certo rischioso. Continuai a guardarmi bene in torno, ma di Josy non c’era traccia. Immediatamente mi preoccupai. L’avevo perso di vista pochi secondi, possibile che si fosse allontanato tanto?
Preoccupata, cominciai a chiamarlo, << Josy! >> gridai leggermente allarmata.
Nessuna risposta. Solo i cinguettii degli uccelli, sempre più radi, riempivano l’aria. Chiusi frettolosamente l’ombrello che in mezzo a tutti quegli alberi e rami cadenti cominciava ad essere d’ingombro. A passo svelto avanzai, cercando Josy con lo sguardo. Sentivo il cuore battere a mille e lo stomaco contorcersi per l’ansia. Speravo che non gli fosse successo nulla, che non si fosse fatto male giocando. Al solo pensiero, lo stomaco si contorse e il cuore si strinse in una morsa.
<< Josy! Josy dove sei?! >> gridai con quanto fiato avevo nei polmoni.
Nessuna risposta. Gridai ancora e ancora, i minuti passavano, il cielo s’anneriva, la preoccupazione montava ad onde spaventose. Avevo ormai la gola secca, il respiro affannato, e il corpo accaldato. Gridai ancora. Niente. Il silenzio assoluto mi circondava, neanche più gli uccelli mi tenevano compagnia con i loro canti rassicuranti. Avevo ormai le lacrime agli occhi, e il panico cominciava ad impadronirsi di me.
<< Josy! Josy, ti prego, rispondi! Josy! >> urlai ancora, finendo con un singhiozzo le mie grida.
Avevo voglia di piangere. Possibile che avessi combinato un tale disastro? E il piccolo dov’era finito? Le immagini più atroci, di Josy ferito gravemente e svenuto in chissà quale voragine nel terreno mi riempirono la mente. Calde lacrime scivolarono sulle mie guance, ormai ero disperata e spaventata. La luce cominciava a scomparire ed entro pochi minuti tornare a casa sarebbe stata una vera impresa, come anche trovare Josy. Singhiozzai. Sentii un ridacchiare infantile. Sbarrai gli occhi lucidi e appannati dalle lacrime e subito mi girai in torno alla ricerca di Josy. Se era sano e salvo, c’era ancora una speranza! Potevamo correre ed arrivare a casa prima che il cielo diventasse plumbeo. Maledii me stessa e la mia decisione di non prendere la carrozza. Ancora una volta sentii una risata. Mi girai nella direzione da cui avevo sentito quel versetto infantile, e vidi un ciuffo di capelli scuri nascondersi frettolosamente dietro ad un grande cespuglio. Sospirai, e sorrisi all’ondata di sollievo e gioia che mi pervase. Che Dio sia ringraziato, pensai. Mi avvicinai al cespuglio, asciugandomi alla bell’e meglio le lacrime dalle mie guance. Sorrisi, cercando di fare il giro largo per non farmi vedere dalla piccola peste. Gli arrivai silenziosamente alle spalle, e facendogli il solletico sui fianchi e sul pancino – cosa che considerai una mia piccola vendetta personale per quello che mi aveva fatto passare nell’ultima mezz’ora – lo feci finire a terra, dove dimenandosi come un diavoletto, rideva a crepapelle con il viso paonazzo. Mi fermai anch’io con il fiatone. Lo guardai ridacchiare e mi unii anch’io a lui. Improvvisamente mi resi conto che il tempo passava e la pioggia di certo non aspettava i nostri comodi.
<< Josy, piccolo, è davvero tardi, non hai fame? Non hai voglia di stare con la tua nonna e mangiare tante cose buone? >> gli chiesi con un sorriso invitante. Dovevo affrettarmi e cercare di convincere il bambino, ormai stanco, a mantenere un passo veloce, visto che il tic tac dell’orologio andava altrettanto velocemente.
Vidi Josy sorridere, e alzarsi ancora un po’ affannato, << voglio andare a casa Domy >> bisbigliò, respirando affannosamente ma sorridendo.
Mi sorpresi per quel diminuitivo, << va bene piccolo! Allora andiamo! Ti va una gara a chi arriva prima a casa? >>  chiesi e non vedendolo convinto riprovai, << oppure… Puoi provare ad acchiapparmi mostriciattolo! >> dissi ridendo e cominciando a correre.
Josy sbarrò gli occhi, arrossii e ridendo cominciò a correre per cercare di acchiapparmi. Cercando di evitare radici e quant’altro, arrivammo presto sulla via principale. La luce diminuiva sempre più, ma il percorso era più sicuro da adesso in poi. Cercando di non rovinare scarpe, vestito, ombrello e cappello, continuai a correre. Il petto cominciava a dolermi, avevo il fiatone, ero accaldata, ma non me ne curai e continuai a correre. Mi sentivo più libera e leggera, quasi svuotata. Ridendo sempre più continuai a correre con Josy alle calcagna che strillando e ridacchiando cercava di acchiapparmi. Quel bambino era dannatamente veloce. Continuai a ridere e ormai senza fiato intravidi la casa. Accellerai l’andatura ancora un po’, per quanto il lungo vestito mi permetteva. Arrivata nel grande giardino, ignorai gli sguardi straniti che i servitori ci lanciavano vedendoci così informali. Ridevo davvero! Correvo, correvo e.. A pochi metri dall’entrata della casa una manina afferrò il mio vestito. Mi fermai a guardare quella piccola peste, che felice, saltellava e ridacchiava sul posto. Risi insieme a lui, ma ormai era tardi e dovevamo darci un contegno e possibilmente anche una pulita per il pranzo. Ancora ridacchiando e sorridendo divertita entrai in casa dove, appena oltrepassata la soglia, incontrai la duchessa che, vedendomi in quello stato spalancò gli occhi.
<< Non mi sembra proprio il modo di presentarsi in casa, questo, Dominique! >> disse alzando a voce, con aria nervosa e irritata.
La guardai paonazza, mentre respiravo affannosamente cercando di darmi un contegno. Vidi una giovane serva prendere in braccio Josy, che cominciò a piagnucolare, e portarlo via.
Rimaste sole, risposi, << perdonatemi Gabrielle! Ero andata a fare una passeggiata, ma Josy è un bambino piuttosto attivo, e alla fine ho giocato con lui.. E’ stato divertente.. >> sussurrai, ancora affannata.
La duchessa alzò un sopracciglio, << Divertente? Santo cielo Dom, non puoi comportarti così! Fai colazione nelle cucine, e frequenti la servitù! E adesso scorrazzi e ti rotoli nell’erba come i bambini?! E se ti avesse vista qualcuno?! Se ti fossi avvicinata al confine della nostra proprietà, e uno dei nobili Spencer ti avesse vista conciata in quel modo?! Se proprio il conte ti avesse vista in questo stato e in quegli atteggiamenti?! Quale figura intendi fare?! Quale figura intendi farmi fare?! >> disse arrabbiata, con le labbra strette e le sopracciglia contratte.
<< Perdonatemi.. Io non so cosa mi sia preso.. Ho commesso un errore, mi sono lasciata andare un po’ troppo.. Non accadrà più! >> mi affrettai ad aggiungere, ormai ripreso il controllo di me stessa, e composta, cercai di calmare Gabrielle.
La duchessa, ormai più rilassata, e più disponibile, continuò, << lo spero! E adesso vieni a mangiare, vorrei che tu pranzassi con me >> concluse, prima di entrare nella sala da pranzo, e lasciarmi lì a fissare il vuoto.
Mi riscossi e velocemente lasciai ombrello, cappello e guanti ormai luridi alla serva e mi apprestai a raggiungere la sala da pranzo. Senza i guanti a coprirmi la pelle candida delle mani e delle braccia, mi sentivo terribilmente scoperta e indecente. Per fortuna, dopo poco, una serva me ne portò di nuovi, più aderenti e corti, adatti al pranzo. Entrai nella sala a passo veloce e sicuro. Sul lungo tavolo antico in legno scuro, troneggiava un banchetto degno di un re. O di una regina in questo caso. Io e la mia tutrice condividevamo la passione per il buon cibo. Vari tipi di paste, carni, e frutti – fra cui delle squisitezze asiatiche – abbellivano la tavola. Sia io che la duchessa prendemmo posto e nei primi minuti ci fu un silenzio teso. Gabrielle sembrava pensierosa e infatti, non aveva ancora toccato cibo, quindi neanche io avevo il permesso di farlo. Era buona regola d’etichetta – o meglio, era legge – che la duchessa avrebbe dovuto dare il suo consenso per poter dare inizio al pranzo. Così succedeva ovviamente, nelle famiglie aristocratiche. Il capofamiglia, il padrone di casa, colui che aveva il titolo nobiliare più prestigioso, dava il via a tutto. Perfino ad un applauso. Ricordai lo spettacolo a teatro, l’ansiosa aspettativa degli spettatori e degli attori ad una reazione positiva o negativa che fosse, dello zarevic. Aleksej. Pensare il suo nome, fece tingere le mie guance di un rosa acceso.
<< Oh che sbadata.. Servite pure! >> disse Gabrielle con tono distratto, riportandomi bruscamente alla realtà.
I camerieri servirono una deliziosa pasta al pomodoro. Quella salsa non era fra le mie preferite, ma la gustai con piacere. Il palato si riempì di un gustoso sapore che mi pizzicò lievemente la lingua e il palato. Mentre un altro boccone di pasta raggiungeva la mia bocca affamata, posai il mio sguardo su Gabrielle. C’era una cosa che mi ero appena ricordata e che volevo sapere.
<< Gabrielle.. >> cominciai esitante.
<< Tesoro, lo sai.. >> disse annoiata, portando un boccone di pasta alla bocca e sorridendomi pigra. Il suo primo nome non le piaceva molto.
<< Oh si, scusatemi.. Yolande, questa mattina Eveline non era nelle mie camere per aiutarmi nei soliti servizi della mattina.. Mi sono vestita da sola.. Eveline mi ha informata del fatto che voi l’avevate richiesta per sbrigare delle faccende.. >> dissi vaga. Non volevo sembrare impertinente o ficcanaso, ma ero incuriosita, volevo sapere cosa Eveline avesse fatto e a giudicare dal rossore sulle guance della giovane cameriera, già intuivo che sapere da lei cosa avesse fatto quella mattina sarebbe stato arduo. Odiavo brancolare nel buio.
<< Oh si, scusami cara, ma tanto so già che non ti ha creato alcun disturbo.. Quando rimani nella tenuta, ti vesti sempre da sola.. Eveline non ti serviva quindi non è stato un problema >> disse continuando a sorridermi annoiata.
<< Mmm.. Si forse, ma per quale motivo non avete inviato una delle vostre cameriere personali a sbrigare le vostre faccende? Perché togliermi una delle poche serve di cui dispongo qui a Londra? >> chiesi. Sapevo di poter risultare un po’ viziata nel lamentarmi per l’assenza di qualcosa che non mi era servito, ma volevo sapere. Dopo gli avvenimenti della notte precedente, quando avevo visto o meglio sentito, la duchessa intrattenere un giovane uomo, era nata in me una strana curiosità nei confronti di Yolande. La guardai dritto negli occhi. Forse ero interessata perché lei faceva qualcosa che io neanche nelle mie fantasie più folli ero in grado di fare.
La duchessa, come se avesse intuito la direzione dei miei pensieri, fece uno strano sorriso, << oh cara, ma perché ti lamenti tanto? Anche se Eveline fosse stata qui a tua disposizione, sarebbe stata nelle cucine a sbrigare faccende non sue, visto che tu raramente ti degni di farle fare il suo lavoro! Se ogni tanto la sfrutto un po’ che problema c’è? >> chiese con una risatina e una scrollata di spalle.
Puntai il mio sguardo dritto nel suo, << nessuno Madame, ma credo di avere il diritto di sapere dove la mia serva abbia passato la mattinata >> avevo usato un tono deciso e severo. Ero decisa ad andare fino in fondo alla questione. Volevo sapere, a costo di rimanere delusa nel venire a conoscenza che la mia Eveline era semplicemente andata a comprare della farina.
Yolande rimase interdetta per qualche istante poi riprendendosi sorrise fredda e cordiale, << ma certo Dominique. Eveline è andata a recapitare un messaggio ad una persona da parte mia. Soddisfatta? >> chiese con un sorrisetto nervoso.
Recapitare un messaggio ad una persona. Chi era questa persona? Non potevo di certo chiederglielo, sarei sembrata una scostumata impicciona. Rimasi in silenzio per qualche istante, poi non sapendo bene che dire, la guardai in volto annuendo semplicemente. Yolande mi rivolse un fugace sorriso, e trangugiando voracemente il vino rimasto nel suo bicchiere si alzò, avviandosi poi verso la porta. La guardai immobile, con la bocca socchiusa e gli occhi leggermente spalancati. Speravo di non averla offesa. Avevo cercato di pormi dei limiti e di mantenere un contegno proprio per evitare una sua eventuale reazione negativa.
<< Perdonami Dom, ma sono piuttosto stanca e ho un mal di testa sfiancante! Vado a riposarmi e nel caso non ci vedessimo, mi raccomando, divertiti e scatenati stasera a quella festa! Rendimi fiera e strusciati su qualche bel ragazzone! Chissà che non incontri qualcuno di speciale.. >> disse dirigendosi verso la porta, camminando all’indietro e canticchiando, per poi uscire facendo una giravolta.
Yolande poteva essere un tipo molto particolare. Sospirai. Non ero magrissima come molte ragazze che conoscevo, che sembravano piacere molto agli uomini, mi piaceva mangiare e quindi sfogavo il nervosismo sul buon cibo. Fissai sconsolata con un sospiro la pasta al pomodoro, e visto che ormai ero sola se non per i camerieri, decisi di divorare la pasta restante e di farmi servire la carna. Buonissima, con un sapore dolciastro per via della salsa, era tenerissima. Mi avventai sul piatto senza nessun pudore e finita la pietanza, mi pulii con il fazzoletto in seta, rimettendomi dritta e fissando un punto nel vuoto. Adoravo mangiare, soprattutto i dolci. Cosa ci potevo fare se invece di adorare il trucco e parrucco, amavo i bomboloni alla crema, le torte ripiene di cioccolata e panna, budini e creme di ogni tipo? Era una passione la mia e probabilmente, se qualcuno mi avesse visto mangiare alla mia maniera, sarebbe scappato via terrorizzato, probabilmente con il dubbio che potessi mangiare anche qualche ospite. Sorrisi, buttai il tovagliolo sul tavolo e mi alzai, e a passo svelto raggiunsi la mia camera. Sfinita, non mi spogliai nemmeno, non tolsi nulla. Semplicemente caddi fra i morbidi cuscini, sprofondando nella seta fresca. Dopo pochi secondi di pensieri sconnessi e senza senso, caddi in un sonno profondo.
 
Aprii pigramente gli occhi, sentendo le palpebre più pesanti che mai, sentivo il corpo intorpidito e il sonno cercava prepotentemente di impadronirsi nuovamente di me. Avevo una sensazione di ansia che mi attanagliava le viscere ma non capivo perché. Non riuscivo a vedere nulla, era tutto buio, immerso nel nero più assoluto. Balzai a sedere di scatto, ad occhi spalancati. Il ballo, Jessica, è tardi!, pensai freneticamente. Il cuore prese a rimbalzarmi nel petto alla velocità della luce e con le gambe che mi tremavano, scesi dal letto. Ero furiosa, era la seconda volta che Eveline non adempiva ai suoi doveri, e per colpa sua avrei tardato per la seconda volta. A passo spedito mi avviai verso le cucine, recuperando dal corsetto mentre camminavamo il mio orologio. Erano le sei e otto minuti. E per fortuna che le avevo raccomandato di non tardare! Furiosa spalancai la pesante porta di legno della cucina. Eveline era lì tranquilla che giocava con Josy. La rabbia aumentò.
<< Come osi! Eveline! >> la richiamai all’ordine. La giovane si voltò verso di me, spaventata ed io continuai, << ti avevo detto di venire nelle mie camere alle cinque e trenta, ti avevo detto di non tardare! E ti trovo qui a giocare?! Questa è la seconda volta che non fai il tuo dovere, e per colpa tua farò ancora una volta una pessima figura facendo ritardo! Se hai voglia solo di oziare allora dimmelo subito, ci sono donne che questo lavoro lo vogliono davvero, che ci tengono a procurarsi il pane! >> la sgridai, con gli occhi che mandavano lampi, respirando affannosamente.
Eveline era silenziosa, con gli occhi sbarrati e lucidi e la bocca stretta. Mi sentii in colpa, ma l’avevo già perdonata la prima volta e lei a quanto pareva era decisa a prendersi tutto il braccio oltre che la mano ed io odiavo le fannullone. Decisa, indurii lo sguardo.
<< Vostra Grazia, perdonatemi! >> disse con le labbra tremolanti. Stava per continuare quando io la bloccai.
<< Taci! Non m’interessa, non voglio scuse, non mi servono e non mi aiuteranno di certo ad arrivare in orario all’appuntamento! E adesso sbrigati, e vieni a fare il tuo dovere! Dovrai farlo alla perfezione e alla velocità della luce! Intesi?! E se non ne hai voglia, prendi la tua roba e va’ fuori di qui! >> le gridai contro. Eveline era una ragazza carina, gentile, ma troppo pigra. Io della gentilezza e della sua bellezza non me ne facevo nulla, mi serviva l’efficienza che evidentemente quella giovane serva non era disposta a dare.
Subito la giovane annuii frettolosamente, seguendomi attraverso i corridoi della casa. Arrivammo nella mia camera. Ero nervosa e tesa. Il comportamento svogliato di Eveline proprio non mi aiutava. 
<< Muoviti! Toglimi questo vestito! E ringrazia che le altre cameriere, ricordandosi di essere qui per lavorare, mi abbiano già preparato il bagno! >> borbottai arrabbiata.
Entro pochi minuti, fui libera dal vestito, corsetto, mutandoni e quant’altro. Eveline, come di routine, arrossì vedendomi nuda. Io invece, mi precipitai nella sala bagno e subito mi immersi nell’acqua calda che emanava un profumo di lavanda. Dopo circa dieci minuti di strofinamento e secchi di acqua calda versati, uscii finalmente dalla sala da bagno, fradicia. Le serve cominciarono a strofinarmi gentilmente mentre io fissavo il vuoto rendendomi conto di che cosa stavo facendo e di dove avevo intenzione di andare. Ormai asciutta, presi il primo vestito che le serve mi porgevano. Era blu e grigio scuro. Poteva andare, in fondo non era l’abito che avrei dovuto indossare quella sera. Velocemente mi feci mettere corsetto, mutandoni, calze, giarrettiere e vestito. Era aderente e freddo sulla pelle. Rabbrividii. Mi feci pettinare i capelli, gentilmente ma alla svelta, e mi feci fare un semplice tuppetto alto e ben ordinato, che risaltava il collo bianco, lungo e sottile, la scollatura generosa, e le spalle delicate. Subito mi precipitai nei corridoi, camminando a passo svelto tenendomi il vestito, scesi la scalinata di tutta fretta e arrivata nell’atrio trovai Eveline che con sguardo e testa bassa, mi porse scialle e borsetta.
<< Passate una bella serata Vostra Grazia, siete splendida.. Sigmund porterà più tardi alla reggia dei FitzMaurice la vostra borsa con l’occorrente per passare la notte e la mattina di domani dalla vostra amica.. >> disse, per poi congedarsi con un inchino.
Non diedi peso allo sguardo ferito che mi rivolse. L’avevo sgridata per un motivo ben preciso. Era molto giovane, ma questo di certo non significava che il suo comportamento così svogliato e distratto potesse essere giustificato. Mi avviai a passo svelto verso la lussuosa carrozza che m’attendeva. Sigmund mi salutò con un cenno del capo e con il solito “Vostra Grazia”. Un valletto mi aiutò a salire nella carrozza e una volta chiuso lo sportello, dopo pochi secondi, sentii la carrozza muoversi, e il rumore degli zoccoli dei cavalli che battevano la terra. Quella sera c’era un particolare odore di terra e legna bruciata nell’aria. Mi rilassai per quanto fosse possibile. Sapevo che quello che stavo facendo era una follia, ma per una volta volevo rischiare. Probabilmente fra un anno non avrei più avuto la possibilità di fare queste pazzie, perché avrei potuto essere maritata e con un figlio in arrivo. Quella prospettiva, così veritiera quanto lontana dalla realtà per me, in quel momento, mi sconvolse. Era vero, tutto vero. Avrei potuto sposarmi in qualsiasi momento. Ormai ero in età da matrimonio. Nulla impediva un eventuale sposalizio. E dovevo cominciare ad abituarmi a questa idea, anche perché le probabilità che il principe azzurro venisse in groppa ad un cavallo bianco per chiedere la mia mano rasentavano il limite dell’impossibile. Era più probabile che alle vacche spuntassero le ali. Sarei andata ad un ballo particolare, con un abito particolare, e avrei incontrato persone particolari. Sempre che una di quelle vacche volanti non mi avesse rapita, s’intende. Ormai mi ero rassegnata, ero più tranquilla, l’idea di andare al ballo era esaltante ed ero decisa a godermi quell’esperienza fino in fondo. Forse non così in fondo da arrivare a strusciarsi contro qualche bel ragazzone, come aveva allegramente suggerito Yolande. Comunque ero decisa a divertirmi e a lasciarmi andare, anche solo un po’. Sentivo il rumore delle ruote e degli zoccoli dei cavalli che calpestavano la terra a ritmo sostenuto, un po’ come il mio cuore. Dopo pochi minuti, il rumore rallentò fino ad arrestarsi del tutto. Improvvisamente ricordai che dovevo essere in forte ritardo. Velocemente cercai di infilare la mano nel corsetto per afferrare il mio orologio e controllare che ore fossero ma, il corsetto era molto stretto e riuscire nell’intento era alquanto difficile.
Lo sportello della carrozza si spalancò di botto, rivelando l’alta, imponente e pallida figura di Andrew. Aveva le guance rosse per il freddo. Questo mi ricordò che, il giorno precedente era avvenuta la stessa situazione ma con sua sorella. Tale sorella, tale fratello. Gli occhi di Andrew d’improvviso si spalancarono leggermente, facendo trasparire dal suo sguardo, malizia e divertimento.
<< Oh mia Dominique, non avevo capito che voi foste così disperata.. Ma comunque, perché farle da sola certe cose, quando ci sono io qui, impaziente e disponibile? Darsi piacere da sola non è cosa da brave signorine ben educate! >> mi schernì divertito, con sguardo traboccante di malizia.
Lo guardai in viso, confusa. Poi capii e abbassai lo sguardo. La mia mano era ancora infilata nel corsetto, in atteggiamenti piuttosto equivoci. Arrossii fino alla punta dei capelli.
<< I-io.. Non mi stavo.. >> balbettai al massimo dell’imbarazzo, << toccando! >> sbottai, infine, diventando paonazza.
<< Oh no, ma certo, figuratevi! In fondo, ci sono tante brave donnine che si palpano il seno, affermando poi di non stare toccandosi. Ovvio. >> mi sbeffeggiò con le sopracciglia arcuate.
Arrossii ancora di più, << n-no, voi non capite! E’ per il mio o-orologio, c-cercavo l’orologio! >> balbettai, sprofondando nel panico e nell’imbarazzo più assoluto.
<< Madame, quello si chiama capezzolo, e non orologio >> mi disse sorridendo e dandomi un buffetto sulla guancia, quasi impietosito dalla mia espressione, << e adesso, se volete scusarmi, vi pregherei di affrettarvi a scendere da questa dannata carrozza, si gela qui fuori e io come tutti, soffro il freddo! >> mi rimbrottò.
Ancora ad occhi spalancati e bocca socchiusa, m’apprestai a scendere, salutai Sigmund ancora molto turbata, e insieme ad Andrew mi affrettai verso l’entrata della casa. Solo dopo mi accorsi che Andrew aveva detto una parolaccia. Arrossii per quella concessione che non avrei dovuto fargli. I gentiluomini non dicevano dannata soprattutto non in presenza di signorine di buona famiglia. I miei pensieri furono spazzati via dal caldo tepore della casa. Sospirai di sollievo, sentendo il calore ricominciare a circolare nel mio corpo. Jessica venne correndo verso di noi con un sorriso raggiante ma con l’ansia dipinta in volto.
<< Oh Dom, ce l’hai fatta, finalmente! Sei in ritardo! Di nuovo! >> disse ridacchiando, poi vedendo la mia espressione turbata, sospirò, scosse la testa e fulminò con lo sguardo il fratello a cui si rivolse acida, << ma non sai fare altro che torturare le persone Andrew?! Finiscila di infastidirla! >> disse arrabbiata.
<< Oh santo cielo! Siete delle donnette! Come farete stasera, se vi scandalizzate anche per una nuova salsa?!? >> disse esasperato.
Jessica arrossì, poi sbuffando, mi prese per mano, e mi tirò su per le scale. La marchesina, forse per sfogarsi, camminava a passo pesante, calpestando il pavimento come un soldato. Ridacchiai. Arrivammo nella sua grande camera, dove ci aspettavano una decina di serve e grandi e colorati scatoloni ricoperti di stoffa. Capii che lì dentro c’erano i vestiti e l’occorrente per il misfatto.
Jessica battè le mani, << bene ragazze mie! A lavoro! Voglio un risultato peccaminoso! >> ridacchiò.
Le mie guance si tinsero di un rosa acceso. Le cameriere cominciarono subito a spogliarci, e a liberarci i capelli da forcine e quant’altro. Quando i miei capelli furono sciolti, vari gemiti di apprezzamento riempirono la camera.
Jessica mi si avvicinò, accarezzò dolcemente i miei capelli, e poi strillò << splendida! >> subito dopo mi strizzò un capezzolo, e tornò alle sue serve, nuda com’era venuta.
D’istinto diventai paonazza. Non avevo mai avuto un rapporto così intimo e confidenziale con nessuno. Mi sentivo a disagio ma ero anche un po’ divertita. Ritornai alla realtà sentendo il rumore degli scatoloni che venivano aperti da alcune serve, che diligentemente fecero uscire i vestiti e gli accessori ordinandoli in modo impeccabile sul letto. Una serva mi legò disordinatamente i capelli in alto, mentre un'altra, si avvicinava con un minuscolo abito aderentissimo, bianco. Lo guardai incuriosita, non avevo mai visto nulla di simile. Me lo infilarono dalle gambe, salendo sempre più. Era di un tessuto molto sottile, e aderiva al corpo come una seconda pelle. Era lungo esattamente fino all’inguine, e aderiva talmente tanto ai seni, da schiacciarli e farli in questo modo risaltare del tutto. Spuntavano dalla profonda scollatura i seni, candidi e paffuti, in tutta la loro grandezza, sembravano due palle perfette. Se avessi fatto un respiro poco più profondo, i capezzoli sarebbero usciti in bella vista senza troppe cerimonie. Quello strano miniabito era senza spalline. Eppure reggeva il mio seno grande e pesante, come neanche i miei corsetti più buoni erano capaci di fare. Subito dopo le serve mi si avvicinarono con delle calze che mi infilarono e subito dopo delle graziosissime giarrettiere viola in pizzo e seta andarono a reggere le calze. Dopo venne il momento del vestito che quando mi fu d’avanti mi fece strabuzzare gli occhi. Era già il momento del vestito?! E i mutandoni?! Sarei dovuta uscire nuda?! Senza l’intimo?! Stavo per parlare, quando Jessica mi sorrise rassicurante. Feci dei respiri profondi, e le serve si accinsero a mettermi il vestito, così fresco e morbido al tatto. Ci vollero una decina di minuti per infilarmelo, e fare gli ultimi ritocchi. Mi girai in torno alla ricerca di uno specchio. Lo trovai alle mie spalle. Ero già terribilmente a disagio e imbarazzata, consapevole del tessuto che si strusciava proprio in quei punti, ma non ero per nulla preparata a quello che vidi nello specchio. Un lungo abito color indaco fasciava completamente, o quasi, la mia figura. Il corpetto aderentissimo e di un indaco scuro con disegnati strani disegni in seta, sottolineava come nessun vestito aveva mai fatto tutte le mie forme, facendo sembrare il mio seno ancora più grosso e la mia vita ancora più sottile, il corpetto dell’abito mi copriva esattamente quanto faceva il miniabito bianco che portavo al di sotto. Il vestito, fasciava alla perfezione anche i fianchi, e perfino il fondoschiena, aderendo come una seconda pelle. Metà schiena era scoperta, e delle sottili bretelle in seta e del medesimo colore del corpetto mi lasciavano scoperte le spalle, coprendo invece la pelle all’altezza delle ascelle, enfatizzando maggiormente le mie spalle bianche e sottili, il collo lungo e candido. La gonna scendeva pomposa e in balze verticali fino al pavimento, coprendomi i piedi. Il colore della gonna variava da un indaco molto scuro, ad uno più chiaro, che risaltava il colore dei miei occhi limpidi. Avanzai di un passo verso lo specchio e con grande terrore mi resi conto che la gonna aveva al lato un grande spacco, che rivelava l’intera gamba e perfino la giarrettiera, la giarrettiera!, il panico mi travolse. Ero nuda! Come potevo uscire conciata in quel modo! Senza mutandoni! Con le caviglie, le ginocchia, le gambe in bella vista! E perfino le giarrettiere! Santo cielo, le giarrettiere! Ansimai, voltandomi verso Jessica, che indossava un abito di velluto verde scuro, dal corpetto aderentissimo, senza maniche, e una gonna pomposa trasparente in alcuni punti. Sbarrai gli occhi.
<< N-no, no! Non posso uscire così! Sono nuda Jessica! Oh santo cielo! Sto per svenire! Non posso, non posso! >> gridai in preda al panico.
Jessica, pallida quasi quanto me, era ancora decisa, e scorgevo sul suo viso, divertimento, eccitazione misto a stupore. Si avvicinò, facendomi sedere sul letto. Le serve immediatamente presero a riordinare la stanza.
<< Dominique, lo sapevi che non sarebbe stato semplice, ma adesso ci siamo quasi! Vuoi davvero rinunciare alla nostra avventura? Fra pochi mesi potremmo essere incastrate in un matrimonio con un ricco cinquantenne, brutto e con la gobba! Non vuoi divertirti al massimo, senza freni, per una volta? Andiamo! E poi sei così bella vestita così.. >> sussurrò dolcemente sorridendomi, accarezzandomi la gamba scoperta.
Con il respiro accelerato, non feci caso alle carezze di Jessica. Aveva ragione. Dovevamo goderci ogni attimo di libertà che ci rimaneva. Mi alzai, mi avvicinai allo specchio e mi guardai nuovamente. A questo punto, vedendomi vestita in quel modo, l’idea delle vacche volanti non sembrava poi così impossibile.














***********************************************************************************************************************************************************











Salve a tutti! Mi scuso immensamente per il ritardo! L'attesa per il ballo è venuta più lunga del previsto, e per questo vi devo altre scuse, vi sto tenendo sulle spine! Ma nel prossimo capitolo, che posterò a breve, ci saranno molte, molte sorprese...... :) Spero che il capitolo vi sia piaciuto, ringrazio tutti, e se vi va fatemi sapere cosa ne pensate! Al prossimo capitolo!
  
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: Talulah