È un giorno qualunque nella splendida
città di New York. Fa freddo, è novembre, ma le temperature si sono abbassate
tutto d’un tratto verso l’inizio del mese.
Oggi è il 22 novembre e nulla sembra
diverso dal giorno prima: taxi fermi in ogni dove, passanti che con le cuffie
dell’Ipod si perdono e si estraniano dalla realtà, persone che per tenersi in
forma corrono nell’immenso Central Park, gente immersa totalmente nel proprio
lavoro che sorseggia distrattamente un caffè, alunni che con passo annoiato si
dirigono verso il posto che li terrà impegnati per almeno sei ore, scrittori che non stanno facendo il loro
mestiere, ma che sono al fianco della loro musa. Posso usare anche il
singolare, non credete? Quanti scrittori di bestseller che seguono da ormai
quattro anni una detective della quale sono follemente innamorati, pensate
possano esistere? Ho un potere: leggere nella mente. No, non è vero, ma a
questa domanda so a cosa avete risposto, o a chi avete pensato: Solo uno e il
suo nome è Rick Castle. Ci ho beccato?
Castle come sempre, era al fianco
della sua musa. Non aveva ricevuto una chiamata di un omicidio, ma oramai lei
era diventata ossigeno per lui, non riusciva a stare senza di lei, senza vederla
almeno un tot di ore in una giornata. Ci aveva provato a stare a casa quando
lei non lo cercava, ma le giornate non passavano, erano troppo lunghe e non
sapeva mai cosa fare. Cosi, anche quel giorno era andato al distretto, soltanto
per vederla compilare delle scartoffie, per vedere la sua adorabilissima
faccina che si corrugava quando vi era qualcosa che non andava.
Ormai lei non domandava neanche più
il motivo per cui si trovasse li, se non ci fosse alcun caso da risolvere. Alla
fine anche Kate Beckett aveva voglia di vederlo, di bere il caffè che lui le
portava quotidianamente, di guardarlo sottecchi quando giocava tutto
concentrato con il nuovo giochino che aveva scaricato sul telefono, di sentirsi
osservata e desiderata.
Come ogni giorno, Castle era seduto
sulla sua poltroncina, di fianco alla scrivania della detective, ma non stava
giocando. Aveva le mani incrociate e appoggiate sulla scrivania, e il mento
appoggiato sulle nocche delle mani. Non guardava la detective, ma il suo
sguardo guardava il vuoto. Beckett se ne accorse.
“ Oggi non giochi, scrittore?”
“ No” Rispose lui secco, senza
guardarla in viso.
“ Cos’hai? Successo qualcosa?” Le
chiese lei, con una punta di curiosità e anche di preoccupazione.
“ No, è che mi sento che oggi andrà
male qualcosa!”
Distolse lo sguardo e lo alzò su
quello della detective.
“ Hai intenzione di fare qualcosa? Hai
qualche programma per oggi?”
“Esattamente niente!”
“ Beh dai, allora ti stai
preoccupando per niente.”
“ Speriamo.”
Dopo cinque minuti da questa
conversazione, in un’altra parte di New York, c’era una ragazza alta, 18 anni,
capelli rossi e lunghi, che con le cuffiette alle orecchie e la sua fidata
bicicletta, si dirigeva a scuola. Ultimo anno. Poi avrebbe raggiunto il suo
fidanzato all’università. Alla fine, suo padre le aveva negato di saltare un
anno scolastico, sebbene i voti glielo permettessero di fare. Aveva provato a
convincerlo in tutti i modi, si era fatta persino scrivere dalla preside una
lettera nella quale scriveva che avrebbe benissimo potuto saltare l’anno e
andare direttamente all’università. Ma niente. Suo padre era cocciuto peggio di
un bambino di nove anni. Aveva paura di perderla. Glielo aveva detto più volte.
Con il suo fidanzato, tutto sommato andava bene, sapeva che poteva fidarsi di
lui e la cosa era reciproca. Non si vedevano spesso, ma quei giorni che lui
passava con lei, erano speciali e indimenticabili. Ogni giorno che passava era
un giorno in meno che la separava da lui.
Con questi pensieri Alexis si stava
dirigendo a scuola, allegra, mentre ascoltava “Mine” di Taylor Swift. La loro
canzone.
Era contenta di andare a scuola, era
la più brava della classe e ci andava volentieri. In passato aveva litigato con
delle sue amiche per i più superflui motivi. Alla fine si era risolto tutto.
Alexis non aveva paura di dire le
cose in faccia alle persone, non riusciva a tenersi dentro tutto, anche se ci
provava. All’inizio teneva dentro quello che pensava, ma poi quando succedeva
qualcosa che le dava piuttosto fastidio, scoppiava, esplodeva. E non poteva
farci niente. Soltanto le sue vere amiche ormai la sopportavano quando si
comportava cosi. In un certo senso era un bene, perché quando parlava, tirava
fuori tutti i piccoli problemi che vi erano e che nessuno avrebbe mai
evidenziato, se lei non lo avesse fatto; poi però ovviamente c’erano delle persone
che si schieravano dalla sua parte, o che almeno cercavano di capire le sue
ragioni e con le quali poi, chiariva, ma vi erano anche quelli più cocciuti e
testardi che non le davano ragione e con la quale poi litigava, anche
pesantemente.
Ma in quel periodo, era spensierata,
non aveva niente da dire, andava tutto alla grande. Ashley sarebbe venuto per
le vacanze di Natale, che si avvicinava sempre di più. A scuola i suoi voti
erano migliorati, suo papà e sua nonna stavano bene. Tutto era perfetto.
Sorrise, sorrise per la milionesima
volta quel giorno, quando la canzone finì.
Ne partì un’altra, della quale non si
ricordava il nome.
Nel frattempo, mentre Castle stava
per tirare fuori il cellulare per iniziare a giocare, e Alexis stava
canticchiando quella canzone, tra una pedalata e l’altra, Peter stava guidando
la sua automobile, in stato d’ebbrezza.
Peter White, un giovane di
venticinque anni, che era appena stato lasciato dalla propria ragazza, per la
quale aveva dato corpo e anima. Non aveva più amici, perché il loro era un
amore esclusivo. Solo loro due. Peter e Jane. Jane e Peter.
Jane aveva litigato con tutti quelli
che prima credeva suoi amici, che non approvavano la loro relazione. Aveva
lasciato famiglia e amici, per stare con lui.
Erano la tipica coppia che si vedono
nei film: lui povero, lei ricca, lei che molla tutto per stare con lui. Solo
che nei film alla fine lei si riappacifica con la famiglia che accettano
malgrado questa relazione per amore della figlia, e tutti vivono felici e contenti.
Ma questa non era una favola, non era
un film. Jane se ne era andata perché lui l’aveva tradita. Peter sapeva che non
sarebbe tornata in dietro e che quello era stato l’errore più grande di tutta
la sua vita.
La notte non riusciva a prendere
sonno, cosi prese qualche spicciolo che aveva nel cassetto dentro l’armadio e
uscì. Andò nel primo pub che trovò aperto alle due di notte. Si ubriacò, ma
neanche tutto l’alcool che aveva in corpo riuscì a fargli rimarginare le ferite
che si erano aperte da quando lei era partita. Continuò a bere, a mandare giù i
liquori più scadenti che quel piccolo pub aveva, perché non poteva permettersi
di bere qualcosa di caro.
Alle cinque e mezzo crollò sul
bancone del pub, era rimasto solo lui e il gestore, anch’esso ubriaco. Peter
gli aveva raccontato la sua vicenda amorosa, e di come era finita. Il gestore,
James, lo aveva ascoltato e aveva cercato di dargli dei consigli, ma gli disse
anche che era un povero vecchio, grasso, che non faceva una scopata degna di
essere chiamata tale, da molti anni, nessuno lo voleva e da quando la sua Mary
se ne era andata, era morta, lui non aveva cercato più nessuno. E nessuno
andava da lui.
Cosi, tra un bicchiere offerto da
Jack, che anche lui si era fatto trascinare in quel vortice che avevano
chiamato, ironizzando, depressione d’amore, e un altro, Peter si era
addormentato.
Alle sette di mattino Jack svegliò
sgarbatamente Peter. Questo che non aveva ancora smaltito la sbornia, fece per
pagare, ma l’amico di sventure gli disse che per questa volta offriva lui,
tutto. Lo ringraziò e uscì da quel pub.
Doveva guidare per tornare a casa, e
sperò e pregò che la polizia urbana avesse dell’altro da fare che fermare un
pover’uomo per dei controlli.
Andò tutto bene finché non si ritrovò
bloccato in mezzo al traffico della grande mela. Gente che andava a lavorare,
mamme che portavano i propri figli a scuola, e lui, Peter che non vedeva l’ora
di tornare a casa per farsi una doccia fredda e una dormita. Si stava innervosendo:
Perché non si muovono!?
Guardò a destra, avanti e indietro.
Era in mezzo a un milione di macchine. La macchina che aveva davanti e di cui
egli guardava soltanto il retro sembrava dirgli: io sono più avanti di te, arriverò prima.
A quel punto si accorse che alla sua
sinistra vi era la pista ciclabile, un luccichio nei suoi occhi si accese. Mise
in moto la macchina, che precedentemente aveva spento e con un manovra che
soltanto un ubriaco può fare, si infilò dentro la pista che era anche piuttosto
vuota. Buttò giù qualche paletto perché non capiva più niente e la macchina
sbandava da destra a sinistra, sentiva dei clacson lontani, probabilmente erano
le persone che lo vedevano fare quella mossa. Egli associò il rumore del
clacson ad un applauso, questo gli dava la forza di andare avanti.
Aveva incontrato qualche bicicletta,
ma era riuscito a schivarle, forse perché lo avevano sentito arrivare e si
erano fermate, spaventate. Stava aumentando la sua velocità, quando s’accorse
di una bicicletta che stava in mezzo alla strada. Stava facendo gli slalom tra
le righe discontinue che separavano la corsia di andata e quella di ritorno.
Suonò più volte il clacson per far si che questa si potesse spostare, ma
sembrava non sentire.
Peter non riuscì a schiacciare il
pedale del freno abbastanza in tempo per non travolgere la bicicletta.
Commento: Ma
buona sera! Questa FF l’ho iniziata ad aprile, credo dell’anno scorso, quindi
come noterete ci sono delle cose che durante la 4 stagione si sono modificate,
come Alexis ed Ashely. Vi voglio ricordare che io vi voglio taaaaaanto bene, si
Rab e Lu mi riferisco soprattutto a voi. La Stefy chissà se tirerà fuori
qualche arma, questa volta.. Un grazie a Bea, a Mari e a Mini, che mi hanno
consigliato, aiutato e letto, non uccidendomi. Ci vediamo con il prossimo
aggiornamento. Bacioni, Madeitpossible.