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Autore: Sylphs    10/02/2012    5 recensioni
Sei mesi dopo la notte del don Juan, una giovane pianista un po' inopportuna arriva al teatro dell'Opera per seguire delle lezioni...ma un misterioso e ambiguo incidente capitato durante una rappresentazione la porterà ben presto a indagare sull'esistenza del temibile Fantasma dell'Opera e una domanda opprime l'animo di tutta la compagnia: è realmente scomparso, oppure la loro era solo una speranza vana?
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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“….the world will never find you”

 
 
 
 
 
Finalmente aveva smesso di nevicare. Il cielo s’era aperto sopra i tetti d’ardesia e gli imponenti monumenti di Parigi e un timido sole gettava raggi giallastri su Rue de Seine, la bianca Notre Dame e Place de Grève, da secoli fulcro di esecuzioni pubbliche e di spettacoli che avevano stimolato i più biechi istinti umani, adesso ingannevolmente purificata dal candore della neve depositatasi sui ciottoli e sui balconcini delle case. Una colomba, mimetizzata dalla coltre, si scrollò di dosso alcuni fiocchi in un frullo d’ali e s’alzò in un volo leggiadro, girando tutt’intorno all’Ile de la Cité, virando su Saint Germain de Prés e innalzandosi poi ad un’altezza considerevole che le concesse una veduta libera del centro di Parigi. Appesantita dal freddo e dalla vecchiaia, s’abbassò sul tetto intarsiato dell’Opera Garnier e andò a posarsi sopra la testa di un angelo di marmo, ripiegando le ali sul dorso con un movimento elegante e scrutando con placida stupidità il viavai di esseri umani che sciamava sotto di lei. 
Una giovinetta usciva in quel momento sull’ampio piazzale, stringendo un ombrellino nero che avrebbe dovuto ripararla dalla nevicata e che s’apprestava ad aprire. Accorgendosi, tuttavia, che il cielo s’era aperto, lo abbassò fino ad immergerne la punta nella coltre di ghiaccio e si calcò sulla fronte il cappellino, stringendosi in un cappotto di modesta fattura che, unito all’assenza d’una carrozza accorsa a prenderla, ne rivelava le origini non proprio rispettabili. Doveva essere la figlia d’un borghese scarsamente arricchito o di un artigiano che aveva fatto fortuna, alta non più di un metro e cinquantacinque e pressoché priva di forme, con un visetto da roditore e due occhietti inquieti che scrutavano il mondo dal basso in alto in cerca di eventuali pericoli. Era pallida in modo preoccupante e le mani le tremavano visibilmente mentre si infilava i guanti, e la smorfia che le torceva le sottilissime labbra era un chiaro indice d’una divorante angoscia. Passò in mezzo ad un gruppo di bambini impegnati in una battaglia a palle di neve con rapide falcate, impaurita d’essere accidentalmente centrata da qualcuno di quei proiettili candidi, e si diresse senza esitazioni in Boulevard des Capucines, tenendosi sotto le tettoie delle case per camminare laddove non c’era ghiaccio e lanciando occhiate desiderose alle vetrine luccicanti delle pasticcerie.
Una carrozza riccamente decorata, con ruote impreziosite d’oro e quattro cavalli purosangue a trainarla, si staccò dalla sua comoda immobilità in Place de l’Opéra e imboccò la stessa strada presa dalla ragazza, le tendine di velluto rosso completamente tirate cosicché i passeggeri erano ben nascosti al suo interno. Il cocchiere, interamente avvolto in un ampio pastrano e in una spessa sciarpa, si tenne ad una certa distanza da lei, procedendo lentamente apposta per non superarla e seguendo, apparentemente, dettagliate istruzioni.
Lei non parve accorgersene, ansiosa, così sembrava, di raggiungere la sua meta il più in fretta possibile e assorta in meste riflessioni, gli sporgenti denti davanti che mordicchiavano il labbro inferiore e le guance scarne arrossate dal freddo. A metà del viale, entrò in una bottega che vendeva generi alimentari di ogni tipo e la carrozza accostò sul bordo di un marciapiede, sostando pazientemente in attesa che terminasse le sue compere. Attraverso il vetro, la si vedeva in fila al bancone, un foglio con su scritto ciò di cui aveva bisogno stretto al petto e un atteggiamento di timidezza per la gran quantità di gente affollata all’interno. Faceva la spesa da sola: non proveniva da una famiglia borghese. Se così fosse stato, avrebbe avuto almeno qualche domestico. A questo punto si poteva facilmente presumere che il padre fosse nel ramo del commercio. Giunto il suo turno porse la lista al garzone dietro al banco e lo salutò con la familiarità del cliente abituale, scambiandoci qualche chiacchiera leggera. Lui infilò quattro uova, un sacchetto di zucchero, una busta di farina e alcune patate in una busta e la diede alla ragazza, che se la mise in spalla e lo pagò facendo un cenno di congedo con la mano. Tornata in strada, i suoi occhi verde scuro sfiorarono per un attimo la magnifica carrozza, ma non parvero attribuirle particolare importanza e si rimise in cammino di buona lena.
Il cocchiere le fece fare circa venti passi, poi frustò i dorsi possenti dei cavalli e li esortò a muoversi. Una voce maschile, forte e giovane, emerse da dietro le tendine e ordinò seccamente: “Adesso”.
Erano ormai abbastanza lontani dall’Opera da non rischiare d’esser visti.
La ragazza aveva appena raggiunto il punto in cui s’incrociano Boulevard des Capucines e Boulevard de la Madeleine quando la carrozza divorò il tratto che li separava e si fermò in uno stridio di ruote accanto a lei, scagliando lontano zolle di neve grigiastra e strappandole un sobbalzo di sorpresa. Balzò all’indietro nel timore d’essere investita, sollevando la busta con dentro il cibo come se fosse stata uno scudo e rannicchiandosi su se stessa come una tartaruga nel suo guscio, e sbarrò gli occhietti impauriti nel viso pallido, lasciandosi sfuggire un gemito. Il cocchiere tirò le redini con forza, facendo arrestare i destrieri, e la trapassò con un’occhiata fredda e disinteressata da dietro la sciarpa: “Siete Emma Boisson?”
Lei batté le palpebre, confusa e disorientata, e aprì la bocca per lo choc, ma senza che alcun suono ne scaturisse. L’uomo sbuffò e assunse un atteggiamento più scortese: “Vi ho fatto una domanda. Siete Emma Boisson?”
Guardandosi attorno come se non si capacitasse di ciò che le stava succedendo, la ragazza riuscì a fare un impercettibile cenno d’assenso con il capo. Osservò la splendida carrozza con ammutolito stupore, chiedendosi, di sicuro, cosa potesse volere da lei il proprietario di una tale meraviglia, per poi guardare il cocchiere con un’espressione a metà tra l’impaurito e l’esterrefatto: “Chi…chi siete?”
Lui non si prese la briga di rispondere. Indicò lo sportellino con un brusco gesto della mano e grugnì: “Salite”.
“C-come?” d’impulso Emma indietreggiò, stringendosi la busta al petto e guizzando una rapidissima occhiata agli altri passanti nella speranza d’avvistare un gendarme a cavallo che avrebbe preso atto della situazione, si sarebbe avvicinato e le avrebbe domandato gentilmente se andava tutto bene. Sempre che avesse il coraggio di aiutare la figlia di un bottegaio importunata da un uomo a bordo di una carrozza tanto sontuosa…a volte le regole del mondo erano tutto fuorché giuste e imparziali. Purtroppo per lei, non s’era mai trovata in una situazione simile in passato e ciò, unito alla sua naturale timidezza, faceva sì che fosse completamente impreparata a fronteggiare l’ostacolo indesiderato. Sapeva, però, che non era abitudine degli uomini far salire a bordo del loro mezzo una fanciulla poco attraente come lei per approfittarsene. Il motivo doveva essere differente.
Certo non poteva assolutamente entrare dentro la carrozza di uno sconosciuto solo perché il suo cocchiere glielo aveva comandato. Sarebbe stato un comportamento indegno di una signorina con un minimo di senso dell’onore.
Come se avesse compreso la sua riluttanza, la presenza che si celava dietro lo sportello scostò le tendine scarlatte di appena qualche centimetro, quel tanto che bastava a mostrarle una mano forte e mascolina, con la carnagione liscia e bianca di un giovanotto nel fiore degli anni e le unghie curate di un ricco. In particolare protese nella sua direzione il medio, facendo scintillare l’anello che portava a quel dito. Era d’oro zecchino e aveva incastonata una grossa pietra rossa con scolpita in rilievo una figura minuziosamente riprodotta: un drago rampante con dietro una spada.
Il viso scarno di Emma si riempì di stupore e i suoi occhi spaventati si spalancarono appena, riconoscendo quell’immagine nota perfino a lei.
Era il blasone dei Marchesi Rappenau.
Non poteva ignorare l’ordine di un membro di quella antichissima e celebre famiglia. Osava a malapena immaginare cosa le avrebbero fatto, se avesse voltato le spalle con sdegno a quella mano inanellata. Tanto più che aveva la Marchesina Colette in persona come compagna di corso.
Senza più alcuna esitazione, lasciò che il truce cocchiere le aprisse lo sportello e si chinò per entrare nello spazio ampio e confortevole, accomodandosi su un morbido sedile rivestito di stoffa bordeaux. Alzò uno sguardo timoroso e atterrito sul proprietario dell’anello e vide un volto arrogante e fascinoso, con il mento importante, i lineamenti cesellati e una folta chioma di capelli biondi e curati che gli ricadeva sui glaciali occhi celeste chiaro. Una vampata salì a riscaldarle le guance e un’esclamazione di stupore fece per scaturirle dalle labbra: “Marchesino Rap…”
Lui le appoggiò la mano sulla bocca, mettendola a tacere, e le rivolse un sorriso seducente che mise in risalto denti candidi e in ottime condizioni: “Non pronunciate il mio nome qui, mademoiselle Boisson” disse con voce suadente e modulata: “È nel mio interesse lasciare…segreto il nostro incontro. Spero che capirete”.
Lei lo fissò con l’aria sperduta e vergognosa di un topolino spaurito, le labbra che sembravano fremere sotto il tocco delle sue dita come se cento millepiedi ci stessero strisciando sopra. Fino a quel giorno non l’aveva degnata d’una seconda occhiata, anzi, l’aveva trattata con tale indifferenza che s’era persuasa d’essere invisibile al suo sguardo di ghiaccio e di fiamma, e l’aveva osservato da lontano, abbassando subito la testa se si voltava nella sua direzione e celando alle compagne, anche a quelle con cui era più in confidenza, l’amore prorompente e infelice che aveva coltivato per lui negli anni. Egli era così avvenente e fiero, così sicuro di se stesso e delle sue capacità come lei non era mai stata, ed emanava una luce calda e benefica che riscaldava chiunque gli stesse vicino…laddove cadeva il suo sguardo, sembrava splendere il sole. Non aveva mai nutrito la patetica speranza che potesse interessarsi a lei: tra tutte le belle ragazze che c’erano a Parigi, perché mai si sarebbe dovuto innamorare di un tipo bruttino e introverso come lei? Era troppo realistica per desiderare che il suo sentimento potesse essere ricambiato, e in ogni caso lui non avrebbe mai ottenuto dal padre il permesso di sposare la figlia d’un commerciante ebreo. Da quello che ricordava, in quei tre anni che entrambi avevano frequentato l’Opera le si era accostato solo una volta, mentre era diretto al guardaroba, urtandola accidentalmente sulla spalla e pronunciando un freddo: “Scusatemi” senza nemmeno guardarla.
Eppure adesso la stava guardando…e c’era un sincero interesse nei suoi magnifici occhi, una nuova intensità sul suo bellissimo viso. Per la prima volta da quando si incrociavano, la stava trattando come un vero essere umano, e non come un elemento di arredamento. L’aveva persino invitata nella sua carrozza! Perché? Cosa poteva volere da lei? E che cosa significava quell’atteggiamento di intima complicità? Le domande affollavano la mente confusa di Emma e il cuore le sfarfallava impazzito dentro al petto minuto, indeciso tra un’esaltazione pericolosa e un terrore atavico. Forse avrebbe preferito persino che avesse continuato ad ignorarla. A questo…a questo non sapeva come reagire. Finora non s’era mai trovata sola con un uomo.
“Non abbiate timore, mademoiselle Boisson” Antoine, che naturalmente si era avveduto del suo imbarazzo (era opinione comune che le si leggesse tutto in faccia), ampliò il proprio sorriso allo scopo di metterla a suo agio, ma ottenendo l’unico risultato di confonderla ancora di più: “Vi assicuro che non ho cattive intenzioni. Mi spiace di avervi incontrata così, ma non vedevo altra maniera di farlo”.
“N-no” balbettò lei pateticamente, consapevole del suo cappotto sgualcito, dei capelli raccolti in una crocchia severa e del profilo scarno e aguzzo del suo viso. La sua totale mancanza di fascino era palese: “No, mio signore, capisco perfettamente…voi siete un personaggio così importante, e io…”
“Vorrei comunque rimediare ai fastidi che vi reco” la interruppe lui, senza dar mostra d’aver ascoltato veramente i suoi farfugliamenti incomprensibili: “Ditemi dove abitate e sarò ben lieto di accompagnarvi a casa, mentre parliamo”.
“Dove…dove abito?” gli fece eco la fanciulla con crescente disorientamento. Lui inarcò un sopracciglio biondo, un’espressione divertita e affascinante che gli si dipingeva sui nobili tratti, e annuì: “Esatto”.
“Oh” lei cercò freneticamente di recuperare il controllo: “E-ecco, i-io… vivo in Rue…in Rue…”
“Sì?”
“In Rue Cambon, numbre 15”.
“Bene” egli alzò la voce in modo che il cocchiere potesse sentirlo e, con evidente autorevolezza, ordinò: “Gerard, accompagniamo mademoiselle in Rue Cambon 15!”  
Emma si passò le mani guantate sul viso per schiarirsi le idee e, allo stesso tempo, accettare del tutto quella sorprendente situazione che non avrebbe mai immaginato possibile. Il Marchesino Antoine Baptiste Rappenau l’aveva seguita mentre usciva dalla sua consueta lezione all’Opera, l’aveva invitata nella sua carrozza personale e adesso l’accompagnava a casa come se fosse stata una gran dama, e non una timida ragazzetta figlia d’un gioielliere. Era troppo per lei, troppo per chiunque. E non osava sperare che si fosse comportato così perché dietro a quella messinscena c’era un interesse amoroso nei suoi confronti. La bellezza amava solo la bellezza. Era una regola che aveva appreso ormai da tempo. Se mai si fosse sposata, suo marito sarebbe stato un collega di suo padre di mezz’età, onesto e probo ma privo del benché minimo fascino, ebreo come lei e pronto ad offrirle una casa pressoché identica a quella in cui viveva ora, con la famiglia e i quattro fratelli. Gente della sua risma e gente della risma di Antoine non erano fatte per intendersi, ma solo, nel caso dei primi, per servire i secondi.
Non avrebbe dovuto amare ciò che non poteva avere. Né, probabilmente, si sarebbe dovuta prestare ai progetti di Antoine nei suoi confronti, se le avesse fatto delle avances. La sola conclusione possibile di una storia del genere sarebbe stata il disonore per lei e nessun cambiamento per lui. Si proibiva di accettare questo, solo perché lo desiderava.
“Monsieur” assunse un tono più fermo e meno insicuro, sebbene non le fosse ancora possibile guardarlo direttamente in faccia. Per comodità, esaminò i complicati ricami tessuti sulla sua giacca rosso porpora: “Posso chiedervi, adesso, la ragione di questo incontro?”
“Naturalmente. Ne avete il pieno diritto. Sappiate che non è mia abitudine fermare oneste damigelle per strada e farle salire sulla mia carrozza con la forza”.
“Non l’ho mai pensato” replicò lei con foga, malgrado tra le ragazze del suo corso circolasse la voce che il bel Marchesino era solito condurre l’amante di turno nel suo rifugio in Rue Saint-Honoré proprio con quella particolare carrozza: “Avete senz’altro un motivo, mio signore”.
“Sono lieto che comprendiate. Molte ragazze si sarebbero sentite a disagio in una situazione analoga a questa. In tal caso, ci tengo a precisare che il mio ultimo desiderio è recarvi fastidio con profferte amorose. Non mi sarei comportato così, se fossero stati questi i miei piani”.
“Oh” mormorò Emma. Si rimproverò per la fitta, breve ma intensa, di delusione che le aveva ghermito il cuore come un artiglio rapace. Era più che logico che lui non l’avesse invitata là dentro perché era interessato a lei. Egli gradiva donne di gran lunga più attraenti, o che perlomeno sapevano come sedurre un uomo. Si afflosciò un poco sul sedile e si sentì all’improvviso molto stanca, e assai desiderosa di chiudere quella faccenda in fretta. Sua madre la stava aspettando con ansia, avevano una cena da preparare e, in quanto figlia maggiore, doveva comportarsi con responsabilità.
“A dire il vero” riprese Antoine animosamente, protendendosi verso di lei e assumendo un atteggiamento cospiratorio: “Volevo parlarvi di una questione alquanto spiacevole. Si tratta della vostra amica. Mademoiselle Vivian Carré”.
Emma alzò su di lui gli occhi verde scuro, una smorfia di angoscia che le pervadeva il viso insignificante: “Vivian?”
La giovane era scomparsa misteriosamente ormai da cinque giorni. Nessuno l’aveva più vista, né all’Opera né in casa della sua tutrice, Madame Lefevre, ed era stata cercata in lungo e in largo per tutta Parigi, senza alcun risultato incoraggiante. Sembrava essersi volatilizzata nel nulla, evaporata dalla città come se un paio d’ali le fosse spuntato dalla schiena permettendole di volare via. La notizia avrebbe destato uno scalpore assai maggiore se fosse stata di nobile nascita, ma aveva ugualmente portato caos e confusione a molti: se era scappata, qual era la ragione di un gesto tanto sconsiderato e disonorevole? Non vi era alcun motivo apparente, dal momento che non aveva riscontrato insormontabili difficoltà nella sua nuova vita a Parigi, né s’era lamentata di alcunché. L’unica avvisaglia della sua sparizione, a detta della sua tutrice, era stata un comportamento bizzarramente assente e depresso l’ultimo giorno che era stata vista in casa. A quanto pareva, la ragazza s’era chiusa in camera, rifiutando cibo e assistenza, e non si era recata alla sua lezione di piano senza addurre alcuna giustificazione.
La sera stessa era scomparsa.
In un primo momento Madame Lefevre aveva creduto che le fosse accaduto qualcosa di terribile e che fosse stata aggredita da qualche furfante da vicolo, ma a smentire queste ipotesi era giunta una stranissima lettera di Vivian stessa, recapitata alla sua tutrice da “un’ombra”, come l’aveva definita la domestica che l’aveva rinvenuta per prima, e vergata di parole ambigue e pressoché incomprensibili:
Chére Madame Lefevre,
vi prego di non angosciarvi se non mi troverete nella mia stanza questa mattina e le altre nove che seguiranno. Per ragioni che non posso spiegarvi mi vedo costretta a lasciare la vostra casa e i miei impegni all’Opera per qualche tempo, ma confido nella vostra comprensione e in un perdono che questa figlia ingrata non merita affatto. Siete stata gentile e disponibile ad accogliermi con voi ed immagino che questa mia azione vi sconvolga e vi offenda. Non me la sento di biasimarvi. Ma sappiate che, nonostante non possa rivelarvele per cause di forza maggiore, ho ottime ragioni di rimanere fuori dalla circolazione per un po’. E che il mio onore, e il vostro, di conseguenza, sono al sicuro: parlando chiaramente, non sono fuggita con un amante. Vi invio questa missiva perché non vi preoccupiate per me, sto bene e non corro alcun pericolo.
Salutate Emma, Madame Giry e le altre ragazze da parte mia e perdonatemi, se potete.
La vostra umile e devota figlia adottiva,
Vivian Carré
Quando aveva terminato di leggere la lettera, Madame Lefevre era svenuta.
“Non vi angustiate, mia cara signora” le aveva detto il capo della gendarmeria dopo aver esaminato a sua volta la breve missiva: “Probabilmente si tratta di una ragazzata. Alla sua età, le fanciulle spesso mettono in atto fughe di questo genere. È un segno di ribellione, un modo per farsi notare. Vedrete che ritroveremo la vostra pupilla e ve la riporteremo sana e salva”.
“Si è compromessa, vi dico!” strillava lei sventolando convulsamente un ventaglio ricamato per farsi aria: “Se n’è andata con un giovanotto!”
“Lei dice di no”.
“Quella piccola ingrata dice tante cose! Se penso a quello che dirà la gente io… io…”
“I sali, presto!”
In merito a quella storia, Emma pensava soltanto che Vivian avesse realmente delle buone ragioni per essersene andata di casa. Si conoscevano da poco tempo, ma presumeva di averla capita abbastanza bene, grazie soprattutto ai suoi modi diretti e sinceri, e sapeva che non era tipo da tagliare la corda solo per capriccio o per una cotta passeggera. Ella aveva dimostrato d’essere una ragazza assennata e fin troppo consapevole della stupidità di certe azioni, non si sarebbe mai smentita in maniera tanto palese. Ma tale conclusione preoccupava ancora di più la giovane corista: se la sua amica aveva i suoi validi motivi per scomparire dalla circolazione, quali erano? E quanto grande era la loro gravità? Per arrivare ad un atto simile, dovevano essere davvero terribili e privi di scampo! Soltanto una situazione seriamente rischiosa avrebbe indotto una fanciulla onesta a rischiare la reputazione e ad abbandonare un tetto sicuro per recarsi…chissà dove.
“La vostra espressione vi tradisce, mademoiselle” Antoine l’aveva scrutata attentamente mentre reagiva al nome dell’amica. Le sue pupille ebbero un guizzo, un fremito impercettibile: “Immagino quanto siate in pena per la vostra sodale”.
Lei si circondò le gambe con le braccia, incapace di nascondere l’angoscia: “Darei qualsiasi cosa per sapere dove si trova”.
“Dunque non vi ha rivelato nulla, prima di andarsene?”
“No…” sollevò le mani con i palmi rivolti all’insù in un gesto di rassegnata desolazione: “Sono stata colta di sorpresa esattamente come tutti gli altri”.
Il giovane rimase in silenzio per un poco, meditando sulle sue parole, le labbra appena distorte in una smorfia di vago fastidio come se avesse dovuto rinunciare alla via più semplice e rapida per arrivare alla sua sconosciuta meta. Si guardò l’anello con aria torva, scintillante nella semioscurità della carrozza, e le sua spalle si spianarono all’improvviso: “Però voi siete la persona che ha frequentato mademoiselle Carré più di tutte le altre, in questo ultimo periodo. Deve avervi sicuramente confidato qualcosa, lanciato un allarme…a chi, se non a voi?”
“Ve l’assicuro, non è così”.
“Io invece sono certo che se riflettete intensamente vi accorgerete di possedere un’informazione che potrebbe portare a lei” insistette Antoine. Le si fece più vicino, ogni traccia di impassibilità svanita dai suoi lineamenti perfetti, una convulsa trepidazione nella voce e nelle iridi cerulee: “È possibile che la vostra amica vi abbia accennato a qualcosa che la preoccupava, o che aveva destato il suo interesse?”
“Non…non so” Emma si nascose nell’ombra del cappellino, a disagio. Non comprendeva la ragione di quella specie d’interrogatorio, e non le pareva affatto un comportamento da gentiluomo, quello che il Marchesino stava sfoggiando con lei. Si sarebbe offesa, se la sua timidezza non l’avesse frenata per paura di indispettirlo con le sue lamentele: “Non credo…”
“Pensateci!” l’esortazione gli sfuggì di bocca secca e perentoria, un ordine che il padrone indirizza al servo sciocco e inefficiente, un ringhio infastidito per la scarsa utilità che ricavava da quel colloquio. Emma trasalì, come se fosse stata sferzata da un colpo di frusta. L’indignazione per l’ingiustizia che stava subendo le infuse un po’ di coraggio e si volse a fronteggiarlo stringendo le palpebre in un’espressione di sospetto: “Ma a voi che cosa importa, monsieur?”
Ovviamente era a conoscenza del tentato corteggiamento che Antoine aveva fatto a Vivian, dei doni che le aveva inviato nella casa di Madame Lefevre, delle poste in Place de l’Opéra, degli ammiccamenti segreti all’ombra di vicoli o dietro le spalle della sorella Colette. L’erede dei Rappenau aveva messo gli occhi sulla sua amica poiché era nuova, attraente e sicura di sé e aveva provato a sedurla come gli era abituale, ma lei aveva rifiutato le sue profferte con freddezza esemplare e aveva più volte ripetuto in presenza di Emma di considerarlo un ragazzino viziato innamorato di se stesso. E se lui non era stupido, cosa di cui la fanciulla era sicura, se n’era certamente reso conto. Perché tutta quell’ansia di scoprire dov’era finita Vivian? Cosa avrebbe guadagnato se l’avesse ritrovata? E cosa lo spingeva a trascinare nella sua carrozza un’onesta damigella solo per ricavare da lei qualche informazione su un’altra damigella, che gli aveva fatto capire chiaramente di non gradirlo?
Parve preso in contropiede dalla sua domanda e per qualche attimo fu lei ad avere in mano la situazione, ma si riprese ben presto, riacquistando la sua freddezza ed occultando la tensione convulsa che per un attimo era affiorata dietro la maschera da gentiluomo: “Perdonatemi. Non volevo forzarvi la mano. È solo che…io…” una sfumatura rosea si dipinse sulle sue guance, un fenomeno assai raro, e distolse il viso come se s’imbarazzasse.
Emma lo incalzò: “Sì?”
“Ecco…” la sua aveva l’aria d’essere una confessione: “Vi è mai capitato di amare senza alcuna speranza di venire ricambiato? Di provare angoscia e preoccupazione per una persona che preferirebbe essere buttata nella fossa dei leoni, piuttosto che avervi intorno?”
Al sentir ciò, fu il turno di Emma di arrossire violentemente. La situazione era piena di una disgustosa ironia. Se il giovane diceva la verità, provava per la sua migliore amica ciò che lei da anni sentiva per lui…poiché in effetti un ricco ha tutto il diritto di amare un povero, se la cosa gli piace. E la trepidazione emersa dal suo animo per una brevissima manciata di secondi era di per sé un indizio di uno scoramento molto forte. Tuttavia non era gelosa di Vivian e non le invidiava la fortuna che aveva sempre ambito per sé. Aveva soltanto trovato la conferma che i sogni non s’avverano, e che le ragazze come lei non si conquistano l’interesse dei giovanotti come Antoine.
“Capisco cosa volete dire” bisbigliò.
Lui sorrise speranzoso: “Dunque mi credete se vi dico che è il mio più ardente desiderio trovare Vivian e offrirle, se le occorre, tutto l’aiuto possibile? Che mi accontenterei di saperla sana e salva?”
La fanciulla annuì, ammutolita. Oh! Rifiutare questo! Come poteva Viv voltare le spalle al dolore sul viso stupendo del Marchesino, alle lacrime che gli luccicavano negli occhi? Pazza, pazza!
“Vi prego, quindi, di riflettere sugli ultimi momenti che avete trascorso con lei e di ricordare ciò che vi ha detto. Qualsiasi cosa può essere un indizio. E so che la sua sorte vi sta a cuore quanto sta a cuore a me”.
Emma si concentrò, portandosi una mano alla fronte e rievocando i giorni passati insieme all’amica. Vivian per natura era molto loquace e avevano discusso di varie questioni in maniera approfondita ed esaustiva, confrontando le loro opinioni e le rispettive idee. A differenza di molte ragazze, la sua amica non amava soffermarsi sulle frivolezze e i pettegolezzi locali ed era invece portata a conversare di argomenti fin troppo seri, con dovizia di particolari e senza esclusione di colpi. Se le altre cicalavano su una certa giovane rimasta incinta prima del matrimonio, Vivian era capace di affrontare, una volta sola con lei, lo spinoso tema dell’aborto e di domandarle in tutta franchezza cosa ne pensava, e se la suddetta giovane avesse dovuto risolvere il problema acquistando da un erborista la giusta pozione. Emma aveva scosso con vigore la testa, distogliendo automaticamente i pensieri da quell’argomento compromettente, ma l’altra aveva annunciato, con sincerità disarmante, che in determinate circostanze è meglio rinunciare da subito all’idea d’un figlio, anziché farlo soffrire in seguito con una condotta da pessimo genitore.
Lei la ammirava molto per la sua audacia, ma a volte non poteva fare a meno di supporre che avesse ricevuto un’educazione alquanto discutibile. Se sua madre avesse conosciuto la natura delle loro conversazioni, le avrebbe senz’altro vietato di vederla!
Ma a pensarci bene, negli ultimissimi giorni in cui s’erano viste Vivian s’era mostrata troppo distratta e assorta per discutere come in passato. E ciò che tanto la intrigava era…
“Il Fantasma dell’Opera!” le sue labbra sillabarono quel nome quasi senza emetterlo, mentre la strabiliante ipotesi che la sparizione della sua amica fosse legata a quella figura inquietante prendeva forma in lei per la prima volta. Possibile? Eppure già una volta una fanciulla era scomparsa dal teatro per mano di quello spirito assetato di sangue…la maledizione si era dunque ripetuta, e proprio a spese della povera Vivian? Oh, l’aveva avvertita di non giocare col fuoco, l’aveva messa in guardia sui rischi che comportava la sua insana ossessione!
“Cosa avete detto?” il suo interlocutore saltò su, rianimato, come se fosse riuscito finalmente a estorcerle l’informazione che desiderava, e ricacciò indietro a fatica un sorriso di trionfo: “Di quale fantasma state parlando?”
Emma si portò una mano al cuore. Forse si sbagliava…forse era solo una sua fantasia…in fin dei conti, era stata sul punto d’insinuare in presenza del Marchesino che la sua amica era da qualche parte, prigioniera di uno spettro dalla reputazione tutt’altro che onorevole…che figura le avrebbe fatto fare? Per colpa d’un’intuizione impulsiva, avrebbe fatto nascere sul conto della sua scomparsa ipotesi analoghe a quelle circolate intorno all’ormai Viscontessa de Chagny. E non voleva che gli altri all’Opera parlassero di lei allo stesso modo in cui parlavano di Christine. Antoine era fratello di Colette, la notizia sarebbe sicuramente passata dall’uno all’altra e, conoscendo la Marchesina, ella non avrebbe esitato neppure un attimo a diffonderla a tutte le sue conoscenze. Doveva proteggere la sua Vivian…proteggerla dalle maldicenze.
“Io…non ricordo cosa ho detto” balbettò, furiosa per la sua evidente incapacità di mentire: “Deliravo, senza dubbio”.
Una smorfia di fastidio alterò il volto regolare di Antoine. Egli aveva lo sguardo di un pescatore che ha preso il pesce all’amo, sicuro di avere la sua piena disponibilità nel farsi catturare, e che l’ha visto all’improvviso dibattersi nella morsa e accennare a liberarsi. Con un impercettibile sospiro di frustrazione le prese il viso fra le mani, avvicinandolo leggermente al proprio, e cercò i suoi occhi sfuggenti finché non li trovò. Li fissò con un’intensità magnetica che aveva ormai perfezionato da anni, con prede assai più riottose di lei: “Emma” sussurrò, straziato: “Ti prego, Emma, collabora con me. Sai quanto sono potente, sai di quali risorse posso disporre…sono l’unico in grado di prestare soccorso alla povera Vivian. E se tu non mi aiuti a ritrovarla, rimarrà nei guai. Perché è nei guai, non è così?”
La ragazza s’imporporò, le guance che scottavano a contatto con le affusolate mani del Marchesino. Era confusa, non riusciva a ragionare bene, né ad accettare pienamente quella situazione, in lei lottavano sentimenti contrastanti e avrebbe voluto prendere una boccata d’aria, o quantomeno che lui abbandonasse quella posizione insopportabilmente intima, affinché potesse schiarirsi le idee. Però in fondo il giovane non aveva torto. Che cosa era meglio, che la reputazione di Vivian si macchiasse un poco, o che restasse prigioniera del fantasma a tempo indeterminato? Nella lettera aveva affermato di non correre alcun pericolo, ma poiché ora Emma era certa che fosse stato lui a consegnarla, era anche possibile che l’avesse costretta a scrivere quelle parole per togliersi di dosso qualsiasi sospetto. E in tal caso la sua amica aveva un serio bisogno di aiuto! Cosa importavano le chiacchiere della gente?
Iniziò a parlare farfugliando, ogni parola inframmezzata da esitazioni e da rimorsi: “Dopo la notte del Re degli Elfi, Vivian si era…come dire… appassionata alla storia del Fantasma dell’Opera, e allora…”
Gli raccontò della decisione della ragazza d’indagare su quella figura misteriosa, dell’interesse insano che era cresciuto in lei nei giorni e dei comportamenti incoscienti che aveva assunto allo scopo di scoprire dove lo spirito si nascondeva, odiandosi per ogni frase pronunciata, ma dicendosi anche che stava aiutando la sua amica. Ella detestava Antoine e non avrebbe gradito affatto che fosse proprio lui a salvarla, ma se non c’era nessun altro disposto a farlo, doveva accontentarsi dell’insperata bontà d’animo del Marchesino. Lui l’ascoltò con attenzione famelica durante tutto il racconto, gli occhi simili a due laghi nelle cui profondità gorgogliavano segrete macchinazioni e oscuri pensieri, senza apparire particolarmente stupito da ciò che gli veniva rivelato, e parlò un attimo dopo che lei ebbe chiuso la bocca: “Credete quindi che Vivian si sia cacciata nei guai mentre indagava sul fantasma?”
“Non mi viene in mente nient’altro” rispose la fanciulla, ormai vinta: “Non pensava che a quella vicenda, giorno e notte”.
“Voi…” ebbe un’esitazione, prevedendo l’esito della sua domanda: “Voi non sapete dove si trovi questo fantasma, vero?”
“Secondo la leggenda abita nei sotterranei del teatro, in quella che chiama la sua Dimora sul Lago” spiegò Emma rendendosi conto di quanto suonava fantastica tutta quella faccenda: “Ma nessuno è mai riuscito ad attraversare l’insidioso percorso che conduce ad essa, a parte gli uomini che l’hanno danneggiata la notte del Don Juan, ma erano persone di basso ceto e dubito che siano facilmente rintracciabili…a meno che…”
“A meno che?”
Qualcosa dentro di lei le gridò d’interrompersi. Coinvolgere anche qualcun altro nella ricerca della sua migliore amica? Stava agendo davvero per il suo bene? Quella convocazione in carrozza, quelle domande voraci, tutto quanto aveva un che di strano e di ambiguo…forse…
Le dita del giovane, ancora serrate con delicatezza sul profilo ossuto della sua mandibola, le accarezzarono quasi inconsapevolmente le labbra e un fremito di piacere peccaminoso le fece perdere il filo della riflessione. Aveva sentito da qualche parte, forse da una delle sue compagne di corso sempre ben informate, che sulle labbra si concentravano una quantità inusitata di stimoli nervosi e che bastava stuzzicarle nel modo giusto per far impazzire di desiderio…proprio la stessa cosa che accadeva pizzicando il lobo dell’orecchio. E in effetti…
Le parole le sfuggirono rapide come uccellini spaventati: “Madame Giry sa qualcosa sicuramente, monsieur. È stata lei la notte del Don Juan ad indicare al Visconte de Chagny la strada da prendere per salvare la sua amata dalle grinfie del fantasma”.
Egli aggrottò le sopracciglia: “Madame Giry? La maestra di ballo?”
“Proprio lei. Vive quasi attaccata al palazzo dell’Opera, in Rue Auber 25. Frequenta il teatro fin da quando era molto giovane ed è a conoscenza di ogni fatto che lo riguarda da vicino”.
Il Marchesino ripeté a fior di labbra il nome che gli era stato rivelato e proprio in quel momento, come se la cosa fosse stata calcolata con minuzia, giunse da fuori la voce roca del cocchiere Gerard: “Monsieur Rappenau, siamo arrivati!”
Emma si riscosse come se fosse stata scrollata con forza. Le mani di Antoine, così calde e morbide, si staccarono dalla sua pelle bollente con eleganza serpentina e scostarono un poco le tendine scarlatte. Un raggio di sole s’insinuò all’interno della carrozza e gli cadde sul magnifico viso, svelando alla giovane un particolare che nella penombra non aveva notato.
Il suo orecchio destro. Per un attimo, sbirciandolo a quella nuova luce, le era apparso deforme e troppo piccolo…come se gli mancasse qualcosa. Il che era alquanto bizzarro, dal momento che avendolo osservato in segreto decine di volte, non le era mai capitato di carpire un particolare tanto incongruo. Prima che potesse però registrarlo appieno egli se ne avvide con la coda dell’occhio e s’affrettò a sistemarsi i capelli dorati in modo che gli coprissero le orecchie, con un gesto brusco e infastidito: “Credo che dobbiate andare, mademoiselle. I vostri parenti vi staranno aspettando, e non intendo trattenervi oltre. Vi ringrazio per avermi aiutato”.
Lei batté le palpebre, confusa: “Ma il vostro orecchio…”
“Orsù, andate a casa” le prese un braccio, improvvisamente sbrigativo, e le aprì lo sportello perché uscisse, quasi spingendola fuori: “Vedrete che ritroverò la vostra amica più in fretta che potrò”.
“Io…”
“Grazie ancora!” il metallo arricchito d’oro e di decorazioni si richiuse davanti all’espressione sperduta e pentita di Emma Boisson e le fu negata bruscamente qualsiasi occasione di capir meglio quel che era accaduto in quella scarsa mezz’ora. Antoine la studiò dalle lievi fessure nelle tendine mentre restava qualche minuto ferma accanto alla carrozza, le calzature affondate nella neve e il visetto ombreggiato dal cappellino, per poi girarsi barcollando verso la bottega di oreficeria alle sue spalle e arrancarvi con fatica e con evidente spaesamento.
Una risata aspra e divertita gli sgorgò dai polmoni e Gerard, udendola, gli chiese: “Che cosa vi suscita tanta ilarità, mio signore?”
“Niente, niente” ribatté lui con uno scuotimento di capo: “Pensavo solo a quanto sia immensa la stupidità umana, mio buon Gerard”.
Sapeva perfettamente che Vivian si trovava in quel momento con il presunto Fantasma dell’Opera, che del fantasma aveva in realtà ben poco. Ciò che ignorava e che faceva crescere dentro di lui una rabbia e una frustrazione terribili era invece il motivo che aveva spinto il suddetto a strappargliela quando era stato sul punto di prendersi quel che gli spettava. La sconfitta che aveva subito per sua mano e la disonorevole fuga con cui aveva abbandonato il teatro e il suo meritato premio erano una ferita aperta, in suppurazione, uno squarcio nel suo orgoglio e nella sua vanità che sanguinava copiosamente e lo teneva insonne e tormentato. Cosa aveva a che fare l’uomo che si faceva chiamare Fantasma dell’Opera con la sua Vivian? Per quale ragione, dopo averla salvata da lui, l’aveva rapita? E in quei giorni che l’aveva tenuta prigioniera, che cosa le aveva fatto? L’idea che il piatto di delizie che tanto minuziosamente s’era preparato fosse toccato invece ad un altro era per lui insopportabile. L’ossessione per la ragazza, che con la violenza aveva sperato di scacciare, era cresciuta ulteriormente…era perseguitato notte e giorno dal profumo ardente e selvaggio della sua pelle, dalla luminosa morbidezza dei suoi capelli e dalla deliziosa impotenza che le aveva letto sul viso mentre la teneva inchiodata sul pavimento di pietra della cappella. E si mescolava ad essa una feroce sete di vendetta, al ricordo dei suoi piccoli denti che gli affondavano nella carne e gli strappavano il lobo in uno spruzzo di sangue vermiglio…ella doveva pagare, per questo e per parecchie altre cose. Non era assolutamente ammissibile che rinunciasse a prenderla, solo perché nel quadro s’era inserita l’ambigua figura dell’assassino senza volto. Si sarebbe liberato anche di lui, in un modo o nell’altro. Niente era impossibile ad un membro della famiglia Rappenau.
Ma poiché ignorava l’ubicazione della dimora del folle che aveva osato togliergli la strega da sotto, si era visto costretto ad inscenare quella commedia con la sciocca amichetta per ottenere da lei qualche informazione. Malgrado ella non sapesse niente di rilevante, convincerla a parlare era stato fin troppo facile: sapeva bene che genere di effetto faceva alle donne, soprattutto a quelle bruttine e insignificanti come quella. Un paio di carezze e un tono suadente, ecco tutto ciò che serviva per farle ballare come voleva… ne aveva persuase di assai più attraenti e ritrose a rinunciare alla verginità per lui, era stato un gioco da dilettanti. Un altro po’, e quella sciocchina avrebbe cominciato a sbavare come il cagnolino di Colette.
Fortunatamente aveva ricavato un nome da quella seccatura. Madame Giry. Bene. Sarebbe andato da lei il giorno dopo, appena avesse avuto un minimo di tempo libero (doveva pur sempre adempiere ai suoi doveri di Marchesino). Alla fine sarebbe arrivato a Vivian e al suo ambiguo rapitore…e una volta avvenuto ciò, avrebbe fatto pentire il secondo di averlo interrotto in un momento tanto importante e avrebbe concluso il lavoro con la prima.
E saziatosi di ogni brama, vendicativa o sessuale che fosse, avrebbe recuperato la sua antica serenità e sarebbe andato avanti nel suo glorioso futuro, vincitore per l’ennesima volta.  
Arrendersi era l’ultimo dei suoi pensieri.
“Ti troverò, Vivian” sussurrò, guizzando un’occhiata rapace ai brillanti tetti dell’Opera che svettavano sopra le altre case: “Il mondo forse ignora dove ti nascondi, ma io ti troverò”.

 
  
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