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Autore: bacinaru    13/02/2012    5 recensioni
"Lestrade si chiese distrattamente quanto tempo ci sarebbe voluto prima che il giovane toccasse il suo punto di rottura, prima di trovare il suo corpo in un vicolo, morto per overdose; quanto, prima che il senso di colpa per non aver agito come un adulto responsabile schiacciasse lui e la sua carriera? Eppure era ben consapevole che Sherlock non sarebbe sopravvissuto né in un centro di riabilitazione né in una prigione, perché sarebbe stato come immergerlo nell'oceano, tenendogli la testa sott'acqua e restare a guardarlo torcersi e annaspare, fino a quando non avrebbe più smesso di agitare le braccia.
L'Ispettore sospirò ampiamente, le ginocchia al petto, i gomiti su di esse e le braccia che penzolavano in mezzo alle gambe.
-Allora... perché qui?-."
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Lestrade , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Sherlock Fest Italia'
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Autore: bacinaru
Fandom: Sherlock BBC
Titolo: L'ultima scatola
Personaggi: Sherlock, Lestrade [No Slash]
Rating: Giallo
Avvisi: Pre-serie
Note: Scritta per il settimo giorno dellla Sherlock Week @ sherlockfest_it.
L'ho scritta un pò di fretta per rispettare la scadenza, quindi mi scuso se può sembrare un po' affrettata, soprattutto il finale, ma spero di aver fatto comunque un buon lavoro, buona lettura =)


L'ultima scatola






Il terriccio era ancora umido, segno che aveva smesso di piovere da poco. Non ci aveva fatto realmente caso fino a quando era rimasto alla Yards, poi il suo cellulare lo aveva avvisato con un sonoro bip di avere un messaggio e lui si era precipitato fuori dall'ufficio, ma aveva già smesso di piovere a quel punto.
L'ispettore Lestrade non era solito lasciare il lavoro, nemmeno per sgranchirsi le gambe, pur potendoselo permettere, essendo il capo della sua divisione, ma non si allontanava mai dalle scartoffie o da un'indagine in corso se non per motivi seri. Purtroppo, quando leggeva quella breve sigla, due lettere alla fine di un messaggio, sapeva di non poterlo ignorare, perché aveva deciso lui stesso di cacciarsi in quel pasticcio e adesso doveva assumersene la responsabilità. Non che qualcuno lo obbligasse, ma Lestrade sapeva che non avrebbe mai rinunciato per principio e per amor di un povero bastardo.
Quella volta era pomeriggio inoltrato, quasi sera. Il sole si apprestava a tramontare, colorando di rosso e arancio tutto ciò che toccava con i suoi ultimi raggi e, mentre nel centro di Londra risuonava ancora il suono acceso della vita, in quel quartiere desolato c'era un silenzio quasi magico, nonostante il genere di persone che lo abitavano. Era ovviamente un quartiere povero, abbandonato dalla maggior parte, sede di coloro che non avevano un altro posto dove andare o semplicemente volevano fuggire dalla realtà caotica della grande città. Lestrade poteva quasi avvertire occhi curiosi pressargli sulla nuca, mentre camminava svelto per la strada tortuosa e male asfaltata. Aveva preso un taxi per arrivare lì, ma il conducente si era rifiutato di portarlo nel centro del quartiere, affermando che non era un buon posto dove andare a fare una rilassante passeggiata pomeridiana. Lestrade lo aveva ringraziato con un fastidio mal celato e, pagato il conto della corsa, si era addentrato a piedi tra quelle strade pericolose. La pistola che gli pendeva dal fianco non gli stava dando tutta la sicurezza che aveva sperato.
Guardò ancora una volta il messaggio ricevuto, per essere sicuro di seguire bene le indicazione, e affrettò il passo per giungere alla propria meta. Sperava davvero che ci fosse un buon motivo per fargli abbandonare il lavoro e arrivare in quel posto dimenticato da Dio.
Tirò un sospiro di sollievo quando avvistò ciò che stava cercando: un parco giochi abbandonato, circondato da una recinzione in legno che si reggeva ancora in piedi solo per un miracolo, piccolo, con poche giostre malandate, un cavalluccio, due altalene, di cui una inclinata di lato a causa di una corda spezzata, e uno scivolo grigio abbastanza alto, con una casetta di legno in cima che separava le scale dallo scivolo vero e proprio.
Attraversato il cancello per entrare, Lestrade si avvicinò alle scalette e iniziò a salirvici con cautela, temendo ad ogni scricchiolio che la struttura non avrebbe retto il suo peso. Alla fine, però, riuscì a raggiungere incolume la cima e ad addentrarsi nella casetta di legno, piccola ma abbastanza spaziosa da farci entrare due uomini.
-Ce ne hai messo di tempo-.
Lo avrebbe strozzato, se la struttura non fosse già abbastanza traballante.
-Non sono stato io a trascinare te in questo posto dimenticato da Dio! Spero ci sia davvero un buon motivo, Sherlock-.
Lo disse con voce quasi stanca, ma Sherlock non sembrò né ascoltarlo né avere alcuna intenzione di spiegarsi, seduto con le gambe al petto e il viso nascosto tra le braccia piegate sulle ginocchia, in modo che l'Ispettore potesse vedere solo i riccioli scuri che spuntavano da esse. Fortuna per lui che Lestrade era un uomo paziente: gli si sedette accanto e attese che lui fosse pronto. Intanto approfittò del silenzio per dargli una buona occhiata.
Conosceva Sherlock da un paio di mesi. Aveva circa vent'anni, due occhi affilati di un grigio-verde molto chiaro, gli zigomi accentuati e una carnagione esageratamente pallida; indossava sempre quel lungo ed elegante cappotto nero che gli dava l'aspetto di un bambino tra le braccia del padre ed era forse anche per questo che Lestrade correva sempre in suo aiuto, andando contro ogni suo principio e tutte le regole che un buon ispettore avrebbe dovuto rispettare. Avrebbe dovuto arrestarlo, perché era un bravo poliziotto e aveva notato il corpo scosso e i capelli sudati, perché sapeva che sotto le lunghe maniche del cappotto la pelle candida era decorata da tanti piccoli buchi, perché Sherlock era un drogato e gente come lui avrebbe dovuto stare in un centro di riabilitazione, se non dietro le sbarre, ma non lo aveva fatto, non aveva mai pensato di farlo.
Forse sperava ingenuamente che un giorno quel giovane ragazzo dalla mente brillante si sarebbe alzato sulle proprie gambe e avrebbe camminato da solo fuori da quel tunnel di droga e disperazione in cui era caduto, ma ad ogni loro incontro la situazione non era migliorata, se non peggiorata.
-La smetta-.
La sua voce era roca e bassa, come quella di un uomo intrappolato nel corpo di un bambino.
Alzò la testa quel poco che gli bastava per guardarlo di traverso.
-Di fare cosa?-.
-Di fissarmi: mi infastidisce-.
Faticava a respirare, segno della sua dipendenza.
Lestrade si chiese distrattamente quanto tempo ci sarebbe voluto prima che il giovane toccasse il suo punto di rottura, prima di trovare il suo corpo in un vicolo, morto per overdose; quanto, prima che il senso di colpa per non aver agito come un adulto responsabile schiacciasse lui e la sua carriera? Eppure era ben consapevole che Sherlock non sarebbe sopravvissuto né in un centro di riabilitazione né in una prigione, perché sarebbe stato come immergerlo nell'oceano, tenendogli la testa sott'acqua e restare a guardarlo torcersi e annaspare, fino a quando non avrebbe più smesso di agitare le braccia.
L'Ispettore sospirò ampiamente, le ginocchia al petto, i gomiti su di esse e le braccia che penzolavano in mezzo alle gambe.
-Allora... perché qui?-.
Chiese sempre più stanco, stropicciandosi gli occhi con l'indice e il pollice della mano destra.
-Non ci sono telecamere-.
Rispose con quel tono fastidioso che usava ogni qual volta riteneva che una domanda fosse troppo stupida e la risposta troppo ovvia.
-Certo-.
Mormorò con poco entusiasmo Lestrade, ricordando la brutta esperienza avuta con il maggiore dei fratelli Holmes.
Strana famiglia, davvero.
-Dodici-.
-Cosa?-.
Lestrade non si era ancora abituato ai salti apparentemente illogici che Sherlock faceva durante i loro discorsi.
-Dodici ore-.
Il giovane alzò la testa del tutto, inclinandola all'indietro per poggiarla contro la calda parete di legno, e spinse verso di lui una piccola scatola di cartone.
Lestrade notò un po' sorpreso che Sherlock non aveva le pupille dilatate come si aspettava, ma la vista della scatola illuminò subito molti dei suoi dubbi. L'aprì per vederne il contenuto, pur già sapendo cosa ci avrebbe trovato: un mucchio di siringhe e alcuni flaconcini, senza contare la polvere bianca che più temeva avrebbe distrutto la vita di quel ragazzo.
Sherlock gli stava dicendo che non aveva assunto nessuna sostanza stupefacente da oltre dodici ore e lui avrebbe dovuto esserne felice, se non fosse che quello era l'ennesimo tentativo che si sarebbe poi concluso con Sherlock alto come un aquilone al massimo il giorno dopo, quando l'astinenza sarebbe divenuta insopportabile.
Eppure il ragazzo ci stava provando e quindi Lestrade raccolse la scatola senza fiatare.
-Va bene, andiamo. Puoi stare da me stanotte-.
Disse dopo un po', gattonando di nuovo fuori dalla casetta e giù per le scale.
Sherlock lo seguì poco dopo, molto più lentamente a causa del corpo traballante e del suo categorico rifiuto di farsi dare una mano.
Stupidamente orgoglioso, il ragazzo.
Si era fatto ormai buio nel momento in cui raggiunsero la strada principale, dove Lestrade potè fermare un taxi per il passaggio. Sherlock rimase in silenzio per tutto il viaggio, la testa poggiata contro il finestrino e lo sguardo perso chissà in quali pensieri.
Non sembrò neanche sentirlo quando Lestrade gli disse che doveva fermarsi un attimo in ufficio per prendere dei documenti, in modo che potesse continuare il suo lavoro a casa. Solo quando il taxi si fermò davanti al piccolo appartamento dell'ispettore Sherlock sembrò tornare nel mondo dei vivi e ancora un po' traballante scese dalla vettura.
Non appena Lestrade aprì la porta di casa, il ragazzo lo precedette e si addentrò all'interno senza fare complimenti, dirigendosi subito in salotto, senza neanche accendere la luce.
Quando Lestrade lo raggiunge, portando con sé una scatola piena di documenti, più quella che gli aveva dato Sherlock, lo trovò già disteso sul suo divano, il cappotto ancora addosso.
Non si sorprese più di tanto, come tutto quello era diventata ormai la routine dei loro incontri. Straordinario come ogni volta che Sherlock decidesse di tentare di salvarsi la vita sua moglie fosse fuori dai suoi, così che Lestrade non avesse nessuna scusa a se stesso per non dargli un rifugio e un posto caldo dove passare la dura notte d'astinenza.
Sospirò ancora una volta, entrando nella cucina adiacente e sistemando le due scatole sul tavolo da pranzo. Guardò per un attimo quella più piccola, decidendo che se ne sarebbe sbarazzato la mattina seguente. Tanto Sherlock riusciva sempre a resistere almeno per tutta la notte.
-Vuoi qualcosa da mangiare?-.
Domandò a voce alta, ma non ricevette alcuna risposta, naturalmente.
Fece comunque due panini, uno per sé e l'altro per Sherlock, il secondo piatto lo lasciò sul davanzale della cucina. Sapeva che il mattino dopo avrebbe trovato l'appartamento vuoto e il panino ancora integro nel piatto di ceramica, ma poco importava, lui la sua parte l'aveva fatta comunque.
Si affacciò un attimo dalla porta della cucina per controllare il suo ospite, ma come tutte le volte Sherlock era disteso sul divano e gli dava le spalle. Da allora smetteva di parlare o muoversi o fare qualsiasi cosa fino a quando non sarebbe poi scomparso la mattina, sempre prima che Lestrade si svegliasse. L'ispettore non poteva fare a meno di chiedersi se dormisse davvero o facesse solo finta, ma anche per questo non poteva fare molto, se non sperare.
Allora tornò in cucina e tirò fuori i file del caso a cui stava lavorando, iniziando a studiarli mentre dava il primo morso alla sua cena.
Era un caso abbastanza difficile, un delitto a cui non riusciva a dare una soluzione soddisfacente.
Guardò le numerosissime foto scattate sulla scena del crimine e le pagine di appunti che aveva riempito con la sua scrittura ancora troppo elementare. Lui era sicuro che il colpevole fosse il ragazzo della vittima, ma non aveva prove, eppure doveva aver commesso un errore da qualche parte.
Si passò le mani sul viso e tra i capelli: era esausto e quella sarebbe stata una notte molto lunga.
Almeno Sherlock era al sicuro per qualche ora, disteso sul suo divano, e solo con questo confortante pensiero si mise al lavoro.




La mattina seguente Lestrade si svegliò alle prime luci dell'alba.
La prima cosa che notò fu il forte mal di schiena dovuto alla scomoda posizione con cui aveva dormito per un paio d'ore, quando gli occhi gli si erano chiusi per la stanchezza e lui si era inconsciamente lasciato andare contro lo schienale della sedia, le braccia conserte su un bracciolo e la testa poggiata su di esse. Dovevano essere cinque minuti di riposo che si erano trasformati in due, tre ore di sonno.
Si stiracchiò indecentemente, tanto non c'era nessuno a giudicarlo, e si alzò ancora frastornato per andare in bagno, lavarsi e darsi una sistemata: quella sarebbe stata un'altra giornata stressante, dal momento che non aveva ancora risolto il caso.
Quando tornò in cucina, passando per il soggiorno, guardò distrattamente il divano ormai vuoto, ma ciò non lo meravigliò più di tanto.
La prima cosa strana che notò, invece, fu il panino sul tavolo, ancora integro per metà, ma non del tutto; la seconda fu invece la scrittura minuscola in rosso che aveva sovrastato i suoi appunti e tutti i documenti e la terza, infine, fu il post-it attaccato su una delle tante foto della scena del crimine, quella che ritraeva il corpo della vittima. Confuso lo prese e lesse con la bocca spalancata:


“E' stata la madre, controlla il bastone – SH”


Rimase per cinque minuti a fissare come ipnotizzato il post-it, e altri dieci minuti li perse per leggere le note minuscole del ragazzo, che spiegavano per filo e per segno la soluzione del caso, fino a quando non notò una nota più grande delle altre che lo avvertiva che la madre stava per prendere un aereo e che sarebbe presto fuggita dalla città, e solo allora Lestrade si riscosse e corse giù per scale, chiamando la stazione per informarli di mandare una pattuglia all'aeroporto il più velocemente possibile. Quando era all'interno del taxi, Lestrade ricevette un messaggio sul suo cellulare.


“E' stato divertente, chiamami se hai qualcos'altro di interessante – SH”


E non potè trattenersi dal ridere di cuore, felice come non lo era stato da tempo.
Non sapeva perché Sherlock si era affidato a lui in quei mesi, non sapeva perché si fidasse di lui, né perché lui teneva tanto a cuore quel ragazzo, ma orgoglioso regalò un solo pensiero alla piccola scatola che giaceva ancora sul tavolo in cucina.
Forse, quella volta, era davvero l'ultima scatola.
  
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