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Autore: Shiriko    21/09/2006    1 recensioni
Quando tutto ti soffoca ed il mondo decide di cambiarti perché non sei adatta a lui. Quanto vorresti scappare, ma l'unica cosa con cui volare è un drago contro il muro.
Genere: Generale, Malinconico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“Voglio partire

© Annalisa A. ogni mio lavoro è protetto da copyright, dunque non ti è permesso copiarne parte né la totalità.
» I commenti sono apprezzati, così come le critiche.
Grazie per aver letto,
Shii.

 

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“Voglio partire. Scappare. Diventare un puntino invisibile all'orizzonte.”

Scritto dieci volte su un foglio di carta anche il desiderio più difficile da esaudire sembra prendere consistenza, anche quando lo lasci andare al vento impetuoso di un autunno che fatica ad iniziare spinto sempre più in là dall’estate che si trascina più avanti del previsto. Giro il viso, affondandolo nell’erba riscaldata dal sole e così il resto del corpo cerca la sua catarsi nel fiume, nel mare, nell’oceano verde che oramai è un cult nella mia vita. Una macchina fotografica nella mano destra, una penna nella sinistra e quel pezzetto di carta che vola nel vento oscillando sopra la testa mia e di quel semiestraneo che dorme al mio fianco, con la fronte appoggiata contro la superficie ruvida di una pietra, le mani sporche di vernice rossa e blu ed in testa un cappuccio nero che nasconde parzialmente la faccia: si nasconde da quello che lo circonda.

« Voglio tornare a casa, Helena » mugugna qualcosa di molto simile a questo, sollevando la faccia segnata da pesanti occhiaie, la voce impastata dal sonno: dormire nell’erba non fa per lui, evidentemente.

« Un altro po’. Aspetta un altro po’ e poi possiamo rientrare » sollevo la faccia e mi rigiro. La macchina fotografica scatta una foto, né l’ultima né la prima. Quella centrale, quella che racconta lo svolgimento di tutto e la fine di niente, che non parte né dall’inizio né dalla fine: ma dal centro.

Borbotta qualcosa sottovoce e si lascia cadere lungo sull’erba, a guardare il cielo azzurro sopra di sé. Il cappuccio nero ancora appoggiato sul capo a nascondere la fronte mentre con i denti comincia a giocare con il piccolo cerchietto metallico che sta all’angolo della bocca.

Un corvo plana sopra di noi, andando poi a poggiarsi sul ramo più alto dell’albero accanto a noi. Nel becco stringe il pezzo di carta che il vento non ha saputo portare con sé. In gabbia per l’ennesima volta, non c’è alcun modo di scappare. No possibilities, no hopes.
Mi sollevo a sedere e copro il capo con il cappuccio viola della felpa, affondando il viso nelle scarne ombre della stoffa.

« Andiamo, Yuki. » accenno, dando un ultimo colpo e quindi tornare in piedi; la macchina fotografica nella tasca e la penna anche: metti in gabbia tutto, è la cosa migliore da fare.

Yuki si alza con quei suoi movimenti bruchi e leggermente goffi, i pantaloni spiegazzati a causa della nottata passata a dormire accovacciati, all’aria aperta.

Ci mettiamo in cammino, verso le biciclette bloccate da un unico catenaccio semi distrutto, corroso dalla vernice nera e viola usata per colorarlo. E poi via, lungo la discesa che fiancheggia la collina fino a trovarci nuovamente inglobati nell’aria della città accaldata, che non vede acqua da giorni oramai.

« Hiil, rallenta » urla, tutt’un tratto poco prima che mi renda conto di aver staccato i piedi dai pedali e le mani dai freni così che le ruote girini vorticosamente lungo la piccola discesa che scivola dalla statale alla via principale. Il cappuccio non nasconde più il viso sporco di gessetti e vernice blu ed il vento lo sferza violentemente tentando di strappare i capelli dalla cute, uccidendoli alla radice.

« Stronza, ti vuoi uccidere? » Yuki urla di nuovo e quasi inconsapevolmente stringo le dita sui freni e riposiziono correttamente i piedi sui pedali riacquistando un’andatura vicina al normale.

« Non sarebbe male, Yù! » lascia scivolare via dalle labbra, senza nemmeno pensarci e svolto, sbucando così sul piccolo ponte di marmo che attraversa il fiume che divide in due la città.

« Non sparare stronzate, Hiil, abbiamo un lavoro da terminare.. »

« .. si, lo so. » sollevo la sinistra dal manubrio e la destra lo fa girare di colpo, dopo che le gomme hanno finito di saltellare spinte da alcuni gradini. Una sgommata, il rumore duro del metallo e mi ritrovo ferma sul marciapiede davanti al palazzo di mattoni a vista e piante e balconcini colorati da vasetti in bilico fra la vita e la morte. Si apre una finestra ed il suo sguardo è su di me. È sempre su di me.

Yuki blocca la bici e solleva lo sguardo.
« ..
heil mein Fürer » cerca di sussurrare, ma lo sento ugualmente e sollevo lo sguardo a guardare la donna appoggiata al balcone che ci guarda. Che mi guarda. Scuote il capo, senza speranza: un annuncio della tempesta.

Yuki mi guarda ed abbassa ulteriormente il cappuccio con le mani, ancorato alla sua bicicletta non accenna a muoversi, forse aspettando che sia io la prima a farlo.

« Moritura te salutat, Yù » accenno, appoggiando la bici contro il muro ed allacciando la catena contro uno dei cerchietti metallici attaccati alla parete. La porta si apre, lasciando fuoriuscire un ragazzo alto che ci guarda e storce le labbra, chiederti cosa sta pensando è inutile, la parola è sempre la stessa: vandali.

Si allontana e Yuki sospira nel suo modo infantile: rumoreggia con la lingua un paio di volte e poi torna a guardarmi.

« Mi auguro di no, Hiil. » aggiunge, mentre torna a poggiare il piede destro e poi il sinistro sui pedali e sgommare via, di corsa. Sento il suo scampanellare selvaggio per numerosi minuti, prima che svolti l’angolo accelerando spaventosamente lungo la via principale.
Poi, sono di nuovo sola.

 

Sto salendo le scale di casa da alcuni minuti: primo piano, secondo piano, terzo piano si avvicendano velocemente ma la rampa del quarto è sempre più lenta e difficile da percorrere; ho tirato il cappuccio su e da un piccolo spazio sfuggono le punte rosa sbiadito dei capelli. Non le nascondo nonostante sia consapevole della sua ira nel vederle, non m’interessa più granché assecondare le sue voglie da madre modello.

Suono al campanello, anche s so che la porta è già aperta: vedo la luce filtrare da uno spiraglio ed il profumo della cucina che esce sottoforma di spifferi.

Spingo la porta, quando sento i suoi passi avvicendarsi sul pavimento e le passo di fianco proprio mentre spalanca le fauci leonine cominciando la solita vagando di domande inutili: dove sei stata? .. blablabla  Ed eri con quel piccolo teppista? Hai diciassette anni .. blablabla .. dormire a casa .. blablabla .. cosa penseranno i vicini?
Chiudo la porta della mia stanza dietro le spalle e non sento più nulla se non le ultime urla che cercando di fermare la lenta degenerazione della serata « .. mi farai morire! » è l’unica cosa che riesco a distinguere fra una valanga di bassi sussurri che nascondo insulti.

 

 

 

 

 

 

 

Vorrei che ora te ne andassi, lettore.

Vorrei che cambiassi canale in questa storia e non vedessi tutto quello che segue perché non è bene frugare nella vita altrui.

Ma so già che non farai così, vero?
So che continuerai a sbirciare in questa storia fino all’ultima pagina, se non ti stancherai prima.

Respira e andiamo avanti.

 

Mi siedo in terra, la schiena appoggiata contro il letto e la mano destra che sfila da sotto a quello un album da disegno e dei pennarelli; trovata la pagina, prendo a muovere la punta colorata sulla carta con attenzione e meticolosità.

Il drago è lì e sembra vivere sul suo sfondo blu, brillante di rosso e oro in contorni scuri, neri. Apre le fauci e pare sputare fuoco se non fosse che non c’è fuoco né tanto meno voce nel suo corpo di carta e acrilico. Inspiro il profumo dei pennarelli ed appoggio la testa all’indietro prima di tornare a guardare il drago che lentamente prende forma.

Nero, rosso, blu, oro.

Yuki sarà contento.

Ma lei no, lei urla ancora stavolta presumibilmente al telefono con un’amica che la capisce e non la capisce. Che annuisce e mormora frasi di circostanza. È un periodo. È l’età. Vedrai che tornerà quella di prima.

Mi sembra quasi di sentirla, la vocina secca e serena della “amica”.

Spengo la lucetta accesa sul letto ed appoggio il viso sul foglio: dormire è l’unica cosa da fare quando ti senti sola, quando provi ribrezzo per quello che ti circonda. Anche per la stanza tappezzata di poster. Anche per quei novelli Sex Pistols che da qualche parte cantano Anarchy in the U.K. con voce cavernosa e ruvida, al piano superiore.

Inspiro e rotolo sul pavimento trascinando con me i pennarelli e lo sporco degli spray usati per il graffito che sogno da una vita; lei li ha visti e so che per l’ennesima volta a gridato, dentro di sé.

Chiudo gli occhi e tutto finisce: il rumore all’esterno, le grida della donna nel corridoio ed anche i pensieri volano via, allontanandosi sempre di più.

Buonanotte.

 

 

 

  
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