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Autore: JeffMG    14/02/2012    0 recensioni
In tutto il mondo, proprio in questo momento delle storie di artisti si muovono insidiose nel futuro, a nostra insaputa, la storia della musica cresce.
Nei sobborghi o nei ricchi quartieri, grandi mammiferi mandati dagli Dei allattano nuovi miti.
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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James il cattivo ragazzo.  Capitolo I


Tra i glitter di Bowie, 
rossetti rossi e un profeta chiamato eroina, si svolge la storia di James. 
Londra, 1980. 


Accendo una sigaretta e lascio l’impronta del rossetto rosso sul filtro.
Mi continuano a dire che devo smettere di fumare, ma di quello che dicono non me ne importa niente.
Ho voglia di sentire l’odore del tabacco dentro la bocca, sputarlo e vedere quei fili sottili ballare solo per me.
Sono giovane e niente può uccidermi. Sono come un Dio immortale che niente può toccare.
Prendo in pugno il mascara e ritocco le ciglia, le soffoco sotto il trucco, senza rispetto.
Anche gli artisti fanno così con le loro opere, sporcano le tele con pennellate violente o leggere
-come il tocco che si usa con una vergine-, io invece sporco il mio viso e completo l’opera che lo specchio incornicia.

Vedo un giovane pallido, dai capelli mossi e neri, rossetto rosso e occhi scuri.
Un bravo ragazzo non dovrebbe truccarsi, ma io sono un cattivo ragazzo e ho scelto una strada diversa da quella dei miei compagni.
A sette anni indossavo le scarpe col tacco di mia madre, i suoi orecchini di perle che portava la domenica alla messa,
la giacca con i lustrini con cui canto anche oggi, le canzoni di Bowie.
Ma non sono una marchetta, sono solo un cattivo ragazzo che ama sperimentare.
Questo forse l’ho già detto, non mi stancherò mai di dirlo; suona così pungente la parola “cattivo”,
s’incastra perfettamente tra denti e lingua e scivola via come un suono omicida. 
Mi sfioro la pelle morbida, sono un narcisista perso e vorrei spaccare lo specchio per prendere quella persona così perfetta e uguale a me, farne solo una mia preda. 

Oggi uscirò di casa indossando pantaloni di pelle, recitando la parte dell'imperfetto abitante di città.
Farò vergognare le signore e pentire i signori per non avere colto l’attimo quando erano ancora in tempo.
Sentirò i loro sguardi addosso, le tasche riempirsi, perché divento ricco di gloria quando mi soddisfano con gli occhi.

Camminerò contando i passi, scivolerò tra la folla e mi sentirò una pubblicità per una vita di eccessi.

Sarò quello che non vogliono che io sia. 

Accavallo le gambe e penso al piano della giornata, mentre il fumo mi riempie la bocca. 
Oggi sarò figlio della strada, chi incrocerò sarà parte di me, complice di quello che distruggerò o quello nascerà dalla pazzia
data dalla libertà.
Spengo la radio, mentre una nuova band rock prende posto alla terza posizione della top ten della settimana.

Ho venticinque anni e vivo negli anni 80. 
Il fumo mi annebbia la vista di una fender mustang azzurra che parcheggiata sul letto,
mostra il corpo consumato come quello di una prostituta.

Ho imparato a suonare a tredici anni, quando il mondo mi sembrava racchiuso unicamente nelle note,
nelle lunghe corde della chitarra che sembravano portare la mente ad un paradiso unicamente sonoro.
Suono ancora, dopo aver usato e gettato, come concezionali, musicisti e compositori che non facevano per me.
Vivo in uno squallido appartamento di Londra, dopo aver lasciato i miei genitori che mi accusavano di aver preso
la strada del Diavolo, di giocare con il fuoco, solo per essere una sporca regina di eccessi.

Mi tuffo in ricordi sfumati che dicono veramente poco del mio passato.
Rosari e preghiere serali, confessionali, chiese.
Figlio di cattolici, ma perfettamente ateo.
Sono fuggito da loro e dagli Ave Maria, per darmi ad una vita completamente all’insegna del peccato;
governata da Boudelaire, Bowie nei suoi glitter ed un profeta chiamato Eroina.

Mi mantengo guadagnando qualche spicciolo in un locale, suono la chitarra e canto vecchie canzoni che divertono gli spettatori,
come se fossi una scimmia truccata e ammaestrata, appollaiata su uno sgabello a dar fiato alla bocca.
Questo è il mio essere artista, perdermi in pensieri troppo complicati per le mie povere tasche e amori troppi distruttivi per essere soddisfatti.
Vivo nel caos e nel decadentismo, cercando di essere una regina del bello.

Sento le urla del bambino di sopra e quelli del padre che maledice la moglie;
questo significa che sono le sette, che lui è tornato da lavoro ed io devo andare al mio.
Mi infilo il cappotto e mi avvio alla metropolitana, sperando che non sia affollata.
Il gelo mi attanaglia alla gola, mi stringo dentro il cappotto e mi guardo attorno, facendo giocare avanti agli occhi, dei ciuffi corvini.  
Un vuoto si muove dentro di me in senso orario, ricordandomi di essere una vittima di un mondo spento,senza colori.
Vivo solo, mangio solo, ma bevo ed ho amplessi in compagnia di sconosciuti.
Ogni sera un nuovo corpo, una nuova frase da aggiungere alla lista di “Ho passato una bella nottata” .  
Mi appoggio ad un lampione e mi accendo una sigaretta.
Guardo in alto e mi faccio accecare dalla luce.
Se non ci fossero così tante macchine dietro di me, se il locale di fronte non fosse pieno di gente, giurerei di essere solo.
“Hey finocchio!” mi urlano due ragazzi in fondo alla strada.
“Vaffanculo!” gli rispondo, buttando la sigaretta a terra e gonfiandomi di orgoglio.

I figli di puttana si incontrano anche nelle grandi città, ancora più numerosi che nei paesi, solo che qui, hanno più forza e sono ancora più acidi, ingrigiti dallo smog e innervositi dal traffico.
“Che hai detto puttana?” mi urla uno dei due, dai modi di un macellaio alle prime armi.
Rimango immobile avvolto nel mio cappotto nero, li guardo e scandisco le parole “Andate a farvi fottere”.
Il più grosso mi prende per il collo e mi chiede di ripetergli ciò che ho detto.
Alle violenze fisiche sono abituato fin da piccolo, quando alle scuole primarie, il bullo della scuola,
usava la vecchia tecnica della testa nel water o mi riempiva di pugni.

La rabbia si espandeva rapida, riproducendo in pochi secondi un germe maligno dentro il mio stomaco,
che potente cresce, diramando il male in tutto il corpo.

Questa esplosione interiore sfocia in un morso potente nella mano dell’aggressore che mi lascia premendosi la ferita.
Corro per le scale del sottopassaggio e per un pelo riesco a entrare nella metro, prima che le porte si chiudano.
Prendo aria e mi appoggio ad un palo, cercando di calmarmi, tenendo una mano sul cuore. 
Scavo nella borsetta in cerca del rossetto, per ripassarmelo dopo aver lasciato il mio stampo sulla mano del bastardo.
Mi sento a disagio e noto la causa di esso, un ragazzo alto e pelato, mi fissa insistentemente, dai suoi occhi incavati e scuri.
Comincio a tremare e mi dirigo verso dei sedili liberi, non perdendolo di vista.
La sua bocca si apre e da essa esce una terribile parola “Rick!” il mio nome.

Sgrano gli occhi e maledico la sfortuna di aver preso proprio quella metro.
Chi  stava uscendo dal mio passato per importunarmi nel presente?
Lo guardo tenendo lo specchietto stretto tra le mani, quasi a romperlo.
L’estraneo s’incornicia di capelli biondi, una divisa scolastica blu. Finalmente lo riconosco,James.
Avevamo frequentato la stessa scuola, la High Mount.
Era un portento a basket, ma coltivava una segreta passione per il basso e ai tempi avevamo cercato di mettere su una band,
di cui non ricordo nemmeno il nome.
Fu un autentico disastro, ma le giornate passate tra vodka e sigarette erano più appaganti di un amplesso dato una del terzo anno.
Tutto andò in frantumi quando decisi di trasferirmi e lui abbandonò la musica.
Dopo cinque anni era dietro di me, in una città grande quanto Londra, in una metro delle otto di sera.
Infilo le mani in tasca e giro i tacchi “James!”    “Allora mi hai riconosciuto!”     “Beh, pensavo fossi… Non importa, come stai?”
“Bene, tu?” mi dice trattenendo un sorriso di gioia sulle labbra fini.
“Ho appena passato l’inferno! Sai, dei tizi mi hanno aggredito… Ma tu, raccontami, che ci fai a Londra?”
Il controllo è out, non riusco a stare fermo, continuo a muovere i piedi, colpito da un improvviso nervosismo.

“Sono qui per il matrimonio di mio fratello, sai che si era trasferito…”
“Si, ricordo… Che strana coincidenza essersi trovati, davvero…” “Già, strana”
Bloccati dalla timidezza che anni prima ci aveva ostacolato nel conoscerci, fatichiamo a porci delle domande a cui vorremmo dare delle risposte.  Mi lascio andare sul sedile ed osservo il muro dei sotterranei sfrecciare avanti a noi, lui mi emula,
tirando su con il naso.

“Suoni ancora?" chiedo, con un tono di voce paragonabile a quello che si usa, quando si formula una domanda proibita.
“Ho smesso, dopo quello che è successo”

Il padre gli aveva rotto il basso, proibendogli di continuare a prendere lezioni; da quando i suoi voti a scuola erano diventati dei quattro o dei cinque.
Io avevo ricevuto la richiesta scritta dal pugno di sua madre, di non presentarmi più a casa loro.
I nostri incontri divennero segreti e sempre più radi, fino a diventare l’uno per l’altro, degli sconosciuti.
“E tu suoni ancora, Rick?”  “Io? Si, suono” dico distrattamente, pensando a quando ci eravamo detti addio alla stazione,
tra persone con in mano valigie e voci estranee come sottofondo.
Improvvisamente mi ricordo del mio lavoro al locale e mi si contrae lo stomaco, quando concepisco che sono le otto e mezza e sono in ritardo di venti minuti.
“Tra una fermata scendo. Mi ha fatto piacere rivederti, James”
Mi afferra per la manica del cappotto e mi scongiura di restare.
“Sono in ritardo a lavoro, non posso”   “Dove lavori?”    “In un locale, suono qualche vecchio pezzo…”
Senza realizzare di aver formulato la frase, mi trovo tra le strade di Londra a correre con James.
L’aria è gelida e l’inverno sputa ogni sua risorsa per farmi sentire male, ma in questa sera non ci riuscirà.
Una fetta del mio passato, il piccolo Rick che tanto avevo odiato, è uscito allo scoperto, pronto per prendermi in giro e burlarsi di me,
ma mi rende felice, perché colma il vuoto dentro di me.
  
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