Anime & Manga > Soul Eater
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Autore: spookachan    14/02/2012    2 recensioni
Se Soul e Maka non fossero nati in un mondo di Buki e Maister come sarebbero andate le cose?
Si sarebbero sopportati lo stesso?
Bho xD
Dato che non c'ho nulla da fare mi invento questa storia, spero che rispecchi i personaggi del vero Soul Eater
Genere: Commedia | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Coppie: Soul/Maka
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Un grande grazie a Chany96 che mi ha aiutato moltissimo per la stesura del capitolo, e sopratutto per la parte finale.
è molto brava a scrivere e vi consiglio di andare a veder ele sue ff ^^
Grazie Chany96 <3 buona lettura a tutti
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Capitolo sesto

 
Entrò
Tensione.
Nell’aria c’era tensione.
Un silenzio pesante invadeva lo stanzone in cui era appena entrato.
Testa bassa, guardo strafottente, mani in tasca.
L’aula era davvero molto spaziosa.
La stanza non aveva la classica forma rettangolare, no, era come un anfiteatro. Un’aula davvero curiosa.
La parte dell’arena, proprio alla sua destra, era a scacchi neri e bianchi, lucida e liscia, su un piccolo rialzo in palquette vi era una cattedra dalla forma semicircolare con supporti in legno di ciliegio e piano in marmo bianco. Qualche metro dietro la cattedra, appesa al muro, una lavagna nera era pasticciata di formule scritte col’gessetto e, appena sopra essa, si ergeva un rilievo enorme dello stemma della scuola, il solito teschio stilizzato. Due colonne nere si innalzavano fino al soffitto proprio dai bordi della polverosa lavagna. Dei banconi in legno di ciliegio intagliato, con piano di lavoro in marmo bianco come sulla cattedra, si vedevano sui quattro spalti. Dietro i banchi gli alunni guardavano Soul, seri. Alla sommità degli spalti vi era un piccolo spazio, poi delle ampie finestre circolari, divise tra loro da colonne nere tali a quelle presenti accanto alla lavagna.
Le pareti tra il giallo e il verde, con decorazioni in legno e metallo, rendevano a stanza solenne ma allo stesso tempo buffa.
Soul non aveva mai visto una stanza così.
Ariosa, sobria e solenne allo stesso tempo.
Continuava però a essere teso come una corda di violino.
Tutti lo guardavano.
E la cosa non gli dispiaceva troppo.
Aveva sempre amato attirare su di sé l’attenzione, in un modo o nell’altro, però non era il tipo da vantarsene. Al contrario dell’porcospino che aveva incontrato in mensa. Al solo pensiero rabbrividì.
Si guardò meglio intorno.
Il professore lo guardava. Gli alunni, seduti compostamente sugli spalti, lo fissavano. Tante facce sconosciute.
L’albino si concentrò sul professore, cercando di nascondere i suoi occhi rossi e, per gli estranei, spaventosi, dietro i folti ciuffi della chioma argentata. Un uomo apparentemente alto era seduto al contrario su una sedia tutta rattoppata; come la sua tunica da medico e i suoi vestiti. E la sua faccia.
Aveva una faccia spaventosa. Grigia. Una ferita rimarginata spiccava sul volto, nascosta tra i ciuffi grigi di capelli e gli occhiali crepati. Ciò che però stupì Soul era una vite, un’enorme vite arrugginita conficcata nella testa del professore. La cosa lo inquietò parecchio.
-Buon giorno, vieni avanti.- Lo invitò con una voce calma il professore.
Lui avanzò con la testa bassa fino alla cattedra.
Alzò lo sguardo, e la testa.
Un lampo di curiosità balenò negli occhi annoiati del uomo seduto appena i loro sguardi si incrociarono.
La sedia scrosciò e cigolò mentre l’insegnante gli si avvicinava.
-Avanti, presentati ai tuoi compagni- Insistette annoiato.
Soul si girò sostenuto verso gli spalti e finalmente mostrò a tutti il suo volto e i suoi occhi color sangue.
Qualcuno bisbigliò qualcosa.
Ecco, di nuovo succedeva; veniva allontanato per colpa di quegli occhi. E per i suoi capelli.
Che male c’era ad avere i capelli dell’colore della luna e gli occhi demoniaci?
Nessuno.
Era nato così. Non sarebbe certo cambiato.
Li fissò ancora un po’, come loro stavano fissando lui.
-Salve a tutti- Cominciò a voce alta, con il solito tono menefreghista.
-Il mio nome è Soul, Soul Evans- Dagli spalti un silenzio tombale.
-Ho 15 anni e mi piace la musica- Aggiunse tanto per dire qualcosa.
Se la senti di aggiungere piccato –Se avete qualcosa contro i miei occhi o i miei capelli ditelo ora- Prima di girarsi.
Il professore lo guardava con le dite intrecciate sotto il mento, con un espressione curiosa stapata in faccia.
Soul scoccò una delle sue occhiatacce migliori contrò quella spaventosa dell’insegnante.
-Piacere, Soul Evans. Io sono il tuo nuovo insegnate in quasi tutte le materie.- Si presentò tendendo la mano.
-Franken Stein- Precisò con un’occhiata assassina.
Soul strinse circospetto la mano al signore.
-Ora la capoclasse ti farà visitare la scuola e ti spiegherà tutto ciò che non sai- Mormorò Stein mentre qualcuno si alzava dagli spalti e scendeva di tutta fretta fino ad arrivare fino alla cattedra.
Soul rimase davvero stupito a vedere che quel qualcuno era Taka.
Aveva dato per scontato che quella bimbetta avesse come minimo due anni in meno di lui.
Ed eccola lì, mentre chiedeva due cose al prof.
I codini biondi ben stretti e la frangetta a impicciargli l’intera fronte.
Portava una camicia bianca coperta da un maglione senza maniche, beige. Una cravatta bianca con strisce verdi spuntava dal maglione, proprio sul petto.
Indossava anche una gonna scozzese, rossa e nera, e degli scarponi neri con delle cinghie bianche.
Era l’immagine ideale della secchiona.
Magra, bassa, senza tette e con un fare molto scialbo. Ma aveva degli occhi, dio santo, degli occhi stupendi.
Verdi come la menta, orlati di un colore simile a quello degli smeraldi.
Davvero degli occhi intensi e forti. Dannazione. Quella ragazzina sembrava davvero sicura di sé.
Tanto per dare ancora più pensieri all’albino i loro sguardi si incrociarono.
La ragazza aveva proprio un’espressione tra lo stupito e il divertito, con anche una punta di rancore.
E aveva lanciato un’occhiata scura agli occhi del ragazzo davanti a lei.
Il professore li aveva dunque lasciati andare via.
Appena l’enorme portone in legno si richiuse alle loro spalle un libro esegui un atterraggio sulla capoccia si Soul.
-Avevi detto di essere uno della NOT, Soul- Se né usci quella.
Aveva detto il suo nome. Lo aveva pronunciato con dispetto e disprezzo.
-Veramente telo sei detta da sola, Taka- Ribatté Soul.
La ragazza rimase spiazzata.
-Cosa?- sussurrò esterrefatta. –Che hai detto?- ripete.
-Ho detto che sei tu che sei giunta alla conclusione che sono della NOT ieri- Ripete annoiato l’albino calciando la polvere per terra e alzando gli occhi al cielo.
-Taka…- La ragazzina aveva stretto i pugni e ora fissava dritto per terra.
Soul non riusciva a vederle il volto.
-Come… come hai osato storpiarmi il nome?- Sussurrò tremante.
-Maka………CHOP!- Sbottò mentre il dizionario di latino si schiantava sulla scatola cranica del ragazzo dai capelli argentei.
Da terra il ragazzo borbottò
–okay, ho inteso. Maka. Taka no. L’ho ben fisso in testa-
 Fissò i suoi smeraldi
–In tutti i sensi- Ghignò tastandosi il punto dove aveva avuto un rapporto occasionale con il tomo.
Si becco un'altra librata.
Dopo aver mugugnato qualcosa sul essere assai poco cool, il ragazzo, si tirò in piedi massaggiandosi la testa e chiese alla ragazzina, apparentemente di fretta, che diamine dovevano fare.
-Ci ha mandati fuori perché io sono la capoclasse e devo, com’è mio dovere, farti fare un tour della scuola- Spiegò spiccia e aggiunse minacciosamente –altrimenti ti avrebbe vivisezionato vivo per il ritardo-.
Che capoclasse poco cool.
La biondina, Maka, roteò sulla suola degli stivali e prese a camminare a passo di marcia per il corridoio con Soul che le gironzolava intorno.
Ogni tanto accennava a cosa servivano le aule.
-Questa è l’aula di fisica- indicò una porta bianca –e questa è quella di biologia- accennò alla porta alla loro sinistra.
-E lì?- Chiese curioso l’albino guardando insistente una porta in legno chiaro e con una piccola incisione.
-Ah!...- si ricordò Maka –quella è l’aula di musica- Proferì rapidamente ma Soul fece qualche passo e abbassò lentamente la maniglia di metallo.
–Quell’aula è in disuso, è piena di polvere…- Lo rimbeccò lei prima di coprirsi la bocca con un lembo della giacca per non tossire.
Ma Soul entrò.               
Un pianoforte a coda, nero e lucido, occupava un angolo della enorme sala.
Su un lato un armadio di legno scuro occupava l’intera parete, sull’altro vi erano degli scaffali con appoggiati strumenti di ogni tipo.
-Vieni immediatamente via di lì! Vuoi morire asfissiato? Muoviti, io vado…- Borbottò la bionda allontanandosi piano dall’aula.
Soul fece un altro lento passo, sollevando uno tsunami di polvere.
Si lasciò sfuggire un colpo di tosse ma continuò imperterrito verso il pianoforte.
Lo tocco.
Era liscio e gelido. I tasti duri avevano un suono tagliente.
Sembrava fendere l’aria. Suonò la scala di Do.
Un bellissimo suono.
Soul si girò verso la porta.
Era solo.
-Maka?- Aspetto qualche secondo per poi arrendersi all’idea di essere rimasto solo sul serio.
Si guardò in torno spaesato, avrebbe decisamente preferito rimanere a suonare che andare a cercare quella tappetta-no-tette ma era a scuola.
Scuola vera, con veri insegnanti, vere bidelle, vero tutto. Uscì dall’aula e si guardò un poco in tornò.
Non si vedeva nessuno.
Se si metteva a camminare ancora per i corridoi di quei labirinti si sarebbe perso, ancora.
E perdersi è assolutamente poco cool.
Rientrò nell’aula, senza preoccuparsi di chiudere la porta, e accarezzo il piano sollevando un bel po’ di polvere.
Quel piano forte era strano.
Lo attirava, in qualche modo, lo chiamava.
Spolverò lo sgabello di pelle e si sedette, guardando ansioso i tasti bianchi.
Tanto per fare qualcosa li contò: 52 lucidi tasti lattei e altri 36 neri.
Poggiò le dita sulla tastiera cautamente, sollevando una discreta nuvoletta di polvere, e premette con leggerezza un do.
Il suono spezzò il silenzio.
Non potè fare a meno di ascoltare in attesa quel suono.
Aveva sempre odiato il piano.
Solitamente gli ricordava la sua famiglia, e quindi dolore, catene, costrizione, suo fratello. Suo fratello che aveva sempre avuto qualcosa in più di lui. Ad esempio il talento per il piano, cosa che invece Soul non aveva.
Posizionò le mani per cominciare a suonare.
http://www.youtube.com/watch?v=bUpaJqyfVjk (leggete con calma seguendo il ritmo della musica)
 
Cominciò a suonare, piano, ripetendo una nenia tra il triste e il tenebroso. Cominciò a suonare, con leggerezza, una leggerezza che aveva solo quando suonava. Una canzone triste, che portava ricordi, dolori, paura, pensieri, gli ricordava la sua famiglia. Era quasi tentato di smettere di suonare, ma la musica lo stava prendendo.
Non riusciva più a fermarsi. Quella dolce melodia. Era davvero bello e liberatorio far danzare le sue dita lunghe su quei lisci tasti bianchi. Gli veniva spontaneo lasciare scorrere le dita per la tastiera, senza neppure pensare a cosa stava suonando. Ascoltandosi, ripetendosi, capendo se stesso. Perché la sua musica a questo serviva. A capirsi.
Capire Soul, Soul Evans.
Era difficile, a volte pensava quasi impossibile, complesso.
La musica era aumentata, più forte, più decisa a lasciare alle spalle il dolore e la sofferenza.
Lasciare il vecchio mondo di schemi e regole per arrivare a quello nuovo e deciso che sarebbe stato questo, questa scuola, questa vita.
Avrebbe iniziato tutto da capo.
Non voleva sottomettersi più a nessuno.
E la musica lo avrebbe aiutato, portato, e costruito.
Costruire un nuovo Soul Evans sarebbe stata la prima cosa da fare.
Costruire un nuovo Soul Evans per un nuovo mondo, da lasciargli vivere.
La musica ormai era aumentata tantissimo.
La musica era sempre stata una valvola di sfogo, un non-so-che che l’aveva aiutato a continuare, andare avanti.
Non la musica di quel piano, che a casa sua era costretto a suonare, ma della sua chitarra: Eater.
Soul, Soul Eater era quello il Soul che voleva diventare.
Soul Eater, solo lui e la sua chitarra, questo voleva.
E questo era quello che infondo aveva sempre voluto.
E non avrebbe mai smesso di desiderarlo.            
Voleva cominciare a essere una persona nuova, ovviamente non sarebbe cambiato, non sarebbe diventato improvvisamente più gentile ma avrebbe smesso di tormentarsi con le sue inutili paure, non doveva più avere paura dei giudizi
Ma non voleva rimanere solo, di nuovo, voleva qualcuno vicino a se.
E forse in questo suo nuovo mondo lo avrebbe trovato.
Forse, o forse no.
Chi poteva dirlo? Nessuno, ma lui, Soul, avrebbe potuto aiutare per fare in modo che ciò succedesse.
Doveva smetterla di chiudersi a riccio con tutti.
Doveva smetterla, ora.
Era sempre stato un ragazzo forte. Ma anche debole.
Perché non aveva avuto supporti. Non lo avrebbe mai ammesso. Perché davanti agli altri doveva sembrare una pietra miliare.
I pensieri scorrevano fluidi, contraddicendosi ogni due per tre.
Non sapeva più cos’era in realtà, cosa sarebbe dovuto succedere. Cosa voleva davvero.
Si era sempre lasciato trasportare dalla sua famiglia, da quei suoi perfetti genitori e parenti.
Quelli che lo avevano mandato là.
Quelli che avevano sempre preferito suo fratello a lui, lui che era sempre stata la fotocopia venuta male. Non lo aveva mai detto a nessuno ma in fondo gli sarebbe piaciuto essere come il fratello, almeno per ricevere quell’amore dai genitori, quell’amore che nessuno gli aveva mai dato.
Quell’amore che probabilmente nessuno gli avrebbe mai dato. Perché era Soul, Soul Evans.
E non Soul Eater.
Doveva decidersi, cosa voleva essere.
Smettere di contraddirsi.
Smettere di non sapere cosa voleva e cos’era.
Smettere di avere paura di tutto, e di tutti.
Voleva una nuova vita, voleva dimenticare la sua storia.
In realtà dietro ogni sguardo strafottente c’era interesse, dietro ogni occhiata una domanda.
E quando smetteva di sostenere uno sguardo era solo perché aveva paura di quegli occhi.
Quelli così sicuri di tutti gli altri.
Quegli altri che sapevano sempre cosa volevano, e lui invece non lo sapeva mai, mai.
Ora, sapeva solo una cosa. Doveva smetterla di chiudersi con gli altri, doveva mostrare il suo vero carattere.
Le dita ripresero a ballare lente la nenia iniziale e Soul, Soul Eater Evans, schiuse piano gli occhi, rendendosi conto di averli chiusi.
La ninna nanna andò sciamando, lasciando Soul  in un silenzio tombale, occhi semi-schiusi e la schiena leggermente inarcata.
Un suono fievole lo fece destare.
Un piccolo, timido applauso.
Alzò piano lo sguardo.
A qualche metro da lui c’era una ragazzina.
Capelli dorati legati in due codine, una frangetta ribelle sulla fronte e una bocca sorridente.
Non sorrideva solo con la bocca, ma anche con gli occhi, quegli occhi verdi e sicuri.
Forse la prima pietra per costruire la sua nuova vita poteva essere lei.
Maka.

  
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