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Autore: Beatrix Bonnie    15/02/2012    2 recensioni
I santi Faustino e Giovita, patroni di Brescia, martiri della Chiesa Cattolica, non sono sempre stati ferventi cristiani. Prima di ricevere il battesimo da parte del vescovo Apollonio, erano dei ricchi equites romani, dediti ai banchetti e alla bella vita. Ma la malattia della madre li porterà a riflettere sulla loro esistenza vuota: forse, qualcosa in loro sta cambiando...
Storia prima classificata al contest "Sono un uomo, non sono un santo".
Genere: Drammatico, Introspettivo, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Antichità greco/romana
- Questa storia fa parte della serie 'Historia docet'
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Il dramma del silenzio




Una leggera brezza soffiò dal colle alle spalle della domus, agitando debolmente le fronde delle piante del portico e le tende bianche appese tra le colonne.
Alcuni giovani aristocratici stavano mollemente adagiati sui triclinia che erano stati posizionati in giardino, alla vana ricerca di un po' di frescura. Sorseggiavano vino allungato con acqua e miele e si lasciavano coinvolgere dai discorsi appassionati del padrone di casa, un giovane di bell'aspetto, con i tratti del volto precisi e squadrati, i ricci capelli scuri lasciati appositamente ricadere selvaggi sulla fronte ampia.
«Deo Optimo Maximo!» esclamò d'un tratto, alzandosi in piedi ed elevando il suo calice al cielo per un brindisi in onore di Giove. I convitati lo imitarono, assecondando con qualche risata la sua uscita stravagante.
Il giovane si risedette sogghignando, soddisfatto per aver constatato che i suoi ospiti lo tenevano ancora in una considerazione tanto alta da assecondarlo anche nelle sue bizzarrie. Gli era sempre piaciuto tenere le persone in pugno grazie al suo carisma.
«Certi dicono che i Cristiani abbiano cominciato ad usare questo motto per il loro dio, sai» intervenne il suo compagno Porzio.
Il giovane padrone di casa gli rivolse un sorrisetto compiaciuto: adorava quando lui lo stuzzicava, sottoponendo questioni su cui dibattere al suo già smisurato ego, accresciuto sempre di più dalla coscienza della sua ottima capacità oratoria. Inoltre, Porzio era l'unico al quale concedeva la libertà di contro ribattere alle sue posizioni, perché sapeva che si trattava solo di un passatempo retorico. Quanto agli altri, non avevano il diritto di contraddirlo.
«I Cristiani» borbottò, con un tono studiatamente annoiato. I suoi ascoltatori pendevano dalle sue labbra.
Sorrise, poi continuò: «Patetiche imitazioni di credenti! Ho letto gli scritti dei loro cosiddetti pensatori: non fanno altro che difendersi dalle accuse, usando le nostre stesse parole e le nostre dottrine, e non sono in grado di proporci nulla di nuovo, se non teorie assurde riguardo ad un uomo che diceva di essere dio!»
Il giovane si alzò in piedi e cominciò ad aggirarsi tra i triclinia, con le braccia piegate dietro la schiena. «Ma, in realtà, possono credere quello che vogliono.- decretò, in tono più calmo -Purché non cerchino di convincere me delle loro idee strampalate!»
Alcuni ospiti si concessero una risatina soffocata e il giovane li ringraziò con un cenno del capo. Poi riprese: «Il vero problema di questi Cristiani è che non hanno un minimo di rispetto per la res publica Romanorum. Voglio dire, quale buon cittadino si rifiuterebbe di partecipare alle cerimonie pubbliche o di combattere per difendere la propria terra, solo perché il suo dio gliel'ha ordinato?»
Un mormorio di assenso si alzò dai suoi ascoltatori e il giovane capì di averli dalla propria parte. Avrebbe potuto convincerli di qualsiasi cosa con la sola forza della sua voce, se avesse voluto. Trattenne a stento un sorriso, mentre si beava del suo infinito ascendente sui compagni.
«Se in Dacia io avessi gettato le armi di fronte al nemico, avrei servito il mio stato e il mio imperatore? E voi stessi non mi avreste accusato di essere uno squallido traditore passabile a fil di gladio?» continuò, provocando la sua platea.
«Sappiamo già che la Dacia è stata conquistata solo grazie a te» lo interruppe Porzio, con una risatina divertita e ironica. «Parlaci ancora di questi Cristiani».
Il giovane gli lanciò un'occhiata indispettita, ma lo assecondò. Era una richiesta di Porzio, dopotutto. Chiunque altro sarebbe stato persuaso a non tentare di interromperlo una seconda volta, semplicemente adocchiando il suo sguardo. Era un sguardo che non permetteva.
Non permetteva di fare nulla, se non di restare in silenzio ad ascoltare la sua arringa.
«I Cristiani...» cominciò a dire. «Credano quello che vogliono e predichino ciò che preferiscono, purché non dimentichino di essere cittadini, prima che fedeli. Cittadini dell'unico impero che ha saputo conquistare tutte le terre emerse e dominare tutti i mari conosciuti! Ed è diventato tanto grande per la grandezza dei suoi cittadini. Per cui, chiunque ostacoli l'ascesa di Roma con la sua pigra negligenza è un nemico di Roma stessa. E come tale deve essere trattato».
«E che pena riserveresti a questi Cristiani inadempienti?» domandò Porzio, con un certo disinteresse, in realtà.
«Io dico: a morte» sentenziò il giovane, avvicinandosi al triclinium di Porzio. «A morte» ripeté, strappando il bicchiere dalle mani dell'amico. Bevve il contenuto tutto d'un sorso e poi buttò il calice in terra con violenza.
«A morte».

Quando i suoi compagni se ne furono andati, il giovane si ritrovò finalmente solo. Contemplò per qualche tempo il calice di Porzio, ancora abbandonato sotto il suo triclinium e percepì un nitido brivido di potere. Era in grado di piegare al suo volere chiunque volesse, solo grazie alla forza della sua parola. Avrebbe potuto convincerli di qualsiasi cosa, legarli a sé con un nodo inscindibile...
Eppure in quel preciso momento sentì un enorme vuoto roderlo dall'interno, all'altezza del ventre. Era il senso di vacuità dato dai suoi vani discorsi: avrebbe potuto sostenere una tesi o il suo esatto contrario senza porsi alcun problema e i suoi ascoltatori avrebbero bevuto ogni sua parola come degli assetati che si avvicinano ad un pozzo.
Ma allora, dove stava la verità?
Se avesse potuto convincere la gente che il mare stava in cielo e il cielo stava al posto del mare... avrebbe potuto farlo, sì, e gli altri avrebbero potuto crederci; ma, così, come poteva distinguere ciò che era vero da ciò che era falso?
Chi o che cosa era il metro di giudizio della realtà?
E se non ci fosse stato nessun metro? Se la realtà non avesse avuto alcun senso?
Si sentì improvvisamente smarrito e fu costretto ad appoggiarsi al triclinum e a prendersi la testa con una mano per evitare di accasciarsi a terra. Prese un profondo respiro e cercò di tranquillizzarsi: era una cosa stupida arrovellarsi la mente sul senso della vita e dell'uomo alla sua età. Era giovane, ricco e pieno di amici che lo ammiravano: la vita avrebbe dovuto godersela, non interrogarla per avere chissà quali risposte.
«Faustino» lo chiamò una voce, riscuotendolo dai suoi pensieri.
«Sono qui» mormorò il giovane, chinandosi a raccogliere il calice che aveva buttato a terra.
Suo fratello Giovita aveva una faccia stravolta: i capelli scuri e mossi, così simili ai suoi, erano appiccicati al volto, lunghi fino agli zigomi, sui quali la pelle era così tirata da parere trasparente, mentre gli occhi erano arrossati e lividi, rigonfi di lacrime represse.
Era sempre stato sensibile, Giovita. Lui aveva a cuore ogni cosa e si preoccupava della sorte degli altri più che della propria, soprattutto se si trattava di qualcuno verso cui provava sincero affetto.
Si diceva in giro che fosse un debole, ma Faustino sapeva che non era assolutamente vero: suo fratello era la persona più caparbia che conoscesse. Quando si metteva in testa qualcosa, non c'era verso di fargli cambiare idea: metteva anima e corpo nel combattere per quei principi che riteneva giusti.
«Faustino, nostra madre chiede di te» gli mormorò Giovita, con la voce ridotta ad un soffio penoso. Da quando la madre si era presa una brutta febbre, il ragazzo aveva messo da parte banchetti e bella vita, per dedicarsi esclusivamente alle cure della donna. Si stava ammalando anche lui, a furia di starle dietro. Faustino temeva che non mangiasse da giorni un pasto decente e che non chiudesse occhio da troppo tempo. Era consumato.
Faustino sapeva che sarebbe toccato a lui accudire la madre malata, in quanto fratello maggiore nonché pater familias dalla morte del padre, eppure non ci riusciva. Preferiva tenere la mente occupata con sciocchi simposi insieme ai suoi compagni, senza pensare a cosa gli accadeva intorno, perché stava male anche solo nel vederla a letto convalescente.
Lui sì che era un debole.
Si rigirò il calice tra le mani, ma alla fine lo appoggiò su uno dei tavolini. «Vengo» concesse con un sospiro. Poi si lasciò guidare dal fratello verso la stanza della madre, ben attento a non lasciar trapelare nessuna emozione sul suo viso squadrato.
La piccola camera era avvolta nella penombra, intrisa di un odore nauseabondo di erbe misto a cera di candele e incensi. Faustino si trascinò al capezzale della madre, con le braccia a penzoloni e il volto mesto. Si concesse un'occhiata veloce al viso pallido e sudato della donna, per valutare le sue condizioni: era visibilmente peggiorata in quegli ultimi giorni, con gli occhi spenti e i capelli incollati alla fronte. Non appena si accorse di lui, gli rivolse un debole sorriso, poi cercò di mettersi a sedere.
«Non ti agitare, madre» le ordinò Faustino, forse con un tono un po' troppo secco.
L'anziana matrona fece un blando cenno con la mano, come se volesse scacciare via quel subdolo ordine. «Sta venendo qui la figlia del vescovo Apollonio» mormorò con un filo di voce.
«La figlia del vescovo?» farfugliò Faustino, la lingua incollata al palato.
La madre accennò ad un debole sorriso, persa nella sua beatitudine. «Sì, mi voglio far battezzare» rivelò, rivolgendo i suoi occhi acquosi verso il figlio.
Faustino indietreggiò di un passo, atterrito. «No» gli sgusciò fuori dalle labbra, secco e tagliente. «No, madre, no!» aggiunse poi, scuotendo la testa.
«Faustino...» cominciò a dire Giovita, con un filo di voce.
«No!» ripeté per la terza volta il giovane, con un tono deciso e imponente. Non avrebbe mai permesso a sua madre di entrare a far parte di quel gruppo di scellerati distruttori dello stato. Nemmeno in punto di morte.
Aveva appena insultato quelle orribili sanguisughe che minavano alla stabilità di ciò che aveva di più caro, la res publica Romanorum: non voleva sembrare un incoerente agli occhi dei suoi compagni.
Eppure... prima aveva avuto il dubbio che tutti i suoi discorsi fossero vacui tentativi di far sfoggio delle sue virtù oratorie. E se fosse stato così anche per la sua arringa contro i Cristiani? Se le sue fossero state solo parole vuote?
Dove stava la verità?
No, non con i Cristiani.
«Non ti battezzerai, madre» decretò infine, con durezza. Dopodiché lasciò la stanza.
Sentì i passi di Giovita che lo inseguivano, ma non si fermò perché non aveva alcuna voglia di discutere la sua decisione: l'aveva presa e basta.
«Faustino, per favore, fermati» lo richiamò suo fratello, afferrandogli un braccio. La sua mano era fredda, ghiacciata, contro il bicipite teso di Faustino.
«Cosa vuoi?» scattò il giovane, liberandosi dalla presa del fratello con uno strattone. Odiò avere addosso i suoi occhi lucidi e accusatori, così limpidi ma insieme determinati.
«Faustino, che cosa ti costa concedere il battesimo a nostra madre?» gli domandò Giovita, con un filo di voce.
«Non diventerà mai una subdola cristiana!» sbottò Faustino, aggredendo il fratello per difendersi.
«È il suo ultimo desiderio, non puoi negarglielo» replicò Giovita.
Faustino scrollò le spalle. «Posso eccome, e l'ho fatto. Ne ho l'autorità in qualità di pater familias».
«Allora forse non sei un buon pater familias» lo accusò Giovita, rinfacciandogli le sue colpe con più cattiveria di quanto volesse, lui che aveva sempre svolto con onestà e buona volontà non solo i suoi compiti ma anche quelli del negligente fratello.
Faustino agì d'impulso. Alzò il braccio e lo calò violentemente sul volto fragile di Giovita.
Subito dopo se ne pentì.
Se ne pentì quando sentì il dolore alla mano e vide il fratello a terra con il labbro sporco di sangue. Si sentì addosso lo sguardo ferito e incredulo di Giovita e credette di morire.
L'aveva colpito.
L'aveva tradito.
«Giovita, io...» cominciò a dire, ma fu bloccato dall'espressione disgustata che attraversò il volto tumefatto del fratello.
«Chi sei tu, Faustino?» lo provocò con uno sguardo di sfida.
Era una domanda strana, ma corrose il giovane dall'interno, come un subdolo verme che gli fosse penetrato nel cuore per mangiarselo, manco fosse una mela raggrinzita.
«Io...» cominciò a dire, ma si bloccò immediatamente; uno spiacevole senso di orrore si impossessò di lui, come se una voragine si fosse aperta sotto i suoi piedi: non sapeva rispondere a quella banale domanda.
Chi era?
«Ti odio!» gli sputò addosso Giovita, pulendosi il sangue con il dorso della mano. Dopodiché si alzò da terra e si allontanò a grandi passi.
Faustino non ebbe cuore di seguirlo. Osservò la sua schiena ossuta e piegata dalla sofferenza della vita che si allontanava: era consumato, si stava consumando. E lui, invece di sostenerlo, l'aveva abbandonato. L'aveva picchiato.
Faustino realizzò di aver estremo bisogno di schiarirsi le idee. Tutta quell'assurda situazione gli stava creando un vortice tanto caotico nella testa che non riusciva più nemmeno a distinguere dove stesse andando.
In senso metaforico. Ma, forse, non solo metaforico.
Spalancò il portone d'ingresso della domus che dava sul decumano massimo e per poco non andò a sbattere contro una ragazza che stava cercando di bussare.
«Che vuoi?» la apostrofò in malo modo.
«Io... sono la figlia del vescovo Apollonio. Sono qui per parlare con una Catecumena» rispose la giovane, giochicchiando nervosa con la cinghia in cuoio che teneva insieme i rotoli di pergamena che aveva sottobraccio.
«Con chi?» indagò Faustino, con la netta sensazione che non gli sarebbe piaciuta per niente la risposta.
La ragazza esitò solo un attimo, poi rispose: «Una Catecumena, una persona che si sta preparando per ricevere il battesimo».
Faustinò uscì sulla strada e sbatté la porta alle sue spalle con una tale violenza da rendere superflue le parole che pronunciò subito dopo: «Nessuno verrà battezzato in questa casa!»
«Ma...» provò a dire la giovane.
«NESSUNO!» gridò Faustino, scacciando quella scocciatrice con un secco gesto della mano.
«Che succede qui?» intervenne una guardia, richiamata insieme al suo compagno dal teatrino che si era appena svolto davanti ad una delle case più rinomate di Brixia.
Faustino alzò un dito minaccioso verso la ragazza. «È una sobillatrice che corrompe gli animi di onesti cittadini!» la accusò pubblicamente, senza alcun rimorso.
Era così che andava trattata quella feccia. Non erano altro che corruttori di uomini.
«Che cosa ha fatto, Faustino?» domandò la guardia, riconoscendo il giovane che aveva davanti per quel suo inconfondibile timbro di voce: l'aveva sentito parlare nel foro qualche volta e ne era rimasto ammaliato.
«È una megera, una di quelli» rivelò, accrescendo l'attenzione dei passanti che si erano fermati ad osservare la scena con una pausa ad effetto. «Una cristiana!»
A quella rivelazione, il piccolo pubblicò trattenne il fiato come un sol uomo.
La figlia del vescovo tremò. I rotoli di pergamena le caddero di mano e precipitarono sulla strada lastricata. L'unico suono, in quella bolla di silenzio, fu la fibbia di metallo della cinghia che picchiettò un paio di volte contro il selciato, per il rotolare del fascio di pergamene.
E poi l'incanto fu rotto da una sola, singola parola di Faustino: «Arrestatela!»
Le guardie non se lo fecero ripetere due volte e si gettarono contro la ragazza. Lei nemmeno cercò di scappare: Faustino avrebbe pensato di vedere la rassegnazione dello schiavo che sa di dover essere punito per la sua negligenza, invece un barlume di consapevolezza brillò negli occhi scuri della giovane.
E... determinazione, avrebbe detto.
«Non mi fai paura!» gli gridò contro, con uno slancio eroico. «Dio salverà la mia anima e farà risorgere il mio corpo nell'Ultimo Giorno!»
Faustino, per nulla turbato, si concesse un sorriso beffardo. «Quando lo vedrai, di' al tuo dio che Caio Fabio Faustino, cives romanus, gli porge i suoi saluti».
Quando le guardie la trascinarono via, Faustino raccolse da terra i rotoli di pergamena e li alzò verso il cielo, come se tenesse in mano un gladio e volesse incitare i soldati alla strage. «Cittadini di Brixia!» chiamò il suo pubblico. «Non lasciatevi accecare e corrompere l'animo da questi subdoli adescatori. Loro usano belle parole per dire che uno schiavo è uguale al padrone, che un barbaro è uguale ad un romano! Non credete alle loro menzogne! Loro dicono di mangiare il loro dio! A un dio si offrono sacrifici, non si mangia!» proclamò, suscitando le risate dei suoi ascoltatori. «Giove è un dio potente che ci libererà dalla piaga di questi inutili parassiti e del loro debole dio, che dicono essere morto in croce e poi risuscitato dai morti. Io, io, Caio Faustino liberò a Giove un sacrificio perché ce ne liberi!»
Il suo piccolo discorso fu accompagnato dagli applausi festanti della folla, che lo sospinse verso il Foro, dove si trovava il tempio Capitolino. Faustino si fermò a uno dei banchetti per comprare un agnellino da sacrificare, poi entrò nel perimetro del tempio.
Di colpo fu avvolto dal silenzio più totale. Un paio di bracieri illuminavano l'ambiente, creando ombre sfuggenti che si riflettevano su pareti e colonne. L'unico rumore, oltre al crepitare delle braci, era il lieve fruscio dell'abito di qualche vestale.
Faustino si sentì svuotato. La calma apparente che lo invase non durò che qualche secondo, perché subito le sue ansie, prima sopite da futili chiacchiere contro i Cristiani, gli esplosero nel petto.
La domanda di Giovita lo perseguitava: chi era lui?
Caio Fabio Faustino, l'equites che aveva combattuto in Dacia.
Certo, ma poi?
Chi era davvero?
Le sue parole, i suoi futili discorsi, le orazioni nel foro... erano quelli che lo qualificavano come uomo? La sua umanità dipendeva da ciò che sapeva dire, da come riusciva a convincere la folla?
I suoi discorsi, però, erano tutti illusori. Lo sapeva maledettamente bene di non dire la verità, ma solo ciò che gli serviva per piegare gli animi al suo volere.
Quindi questo cosa faceva di lui? Un guscio vuoto capace solo di menzogne?
Il belare dell'agnellino lo riscosse dai suoi pensieri. Una vestale si avvicinò e, senza una parola, prese in braccio la sua vittima sacrificale per recarsi a compiere l'offerta. Faustino la guardò allontanarsi, restando immobile e in silenzio.
Giove, Giove gli avrebbe rivelato chi era. Non gli importava più di chiedere l'annientamento dei Cristiani; in realtà, non gli importava proprio più niente dei Cristiani. Avrebbe chiesto a Giove di dargli un segnale che potesse aiutarlo a sgrovigliare la matassa dei suoi dubbi esistenziali. A capire chi era veramente.
In cambio del sacrificio. Do ut des.
Cadde in ginocchio senza nemmeno accorgersene. Non sapeva cosa stesse facendo, ma il suo corpo aveva bisogno di mettersi in quella posizione. Congiunse le mani e se le portò davanti al volto, coprendosi occhi, naso e bocca. Il suo respiro caldo gli solleticò le dita, facendole diventare bollenti. Si sentì arroventare come se fosse febbricitante.
Dimmi chi sono, ti prego, dimmi chi sono. Io non lo so, non lo riesco a capire perché nessuno mi ha mai dato delle direttive per interpretare la mia vita.
Sii un cittadino romano, gli avevano sempre detto. Rispetta il mos maiorum, sacrifica all'effige dell'imperatore, impugna il gladio quando ti viene richiesto e difendi i confini dell'impero dai barbari.
Ma questo non era abbastanza: non lo definiva come Faustino; lo rendeva solo uno dei tanti cittadini tra la folla.
Allora aveva usato il suo naturale carisma e la sua propensione a discutere bene per diventare qualcuno: un oratore capace di piegare gli altri al suo volere, facendo loro credere qualsiasi cosa gli passasse per la testa.
Per un po' aveva funzionato, e avrebbe quasi potuto dire di essersi divertito ad interpretare quel ruolo. Ma non gli era bastato, perché non era altro che un vestito di idee non davvero adatto al suo corpo: i suoi discorsi erano vacui e senza senso; quindi, se l'uomo è ciò che fa, questo significava che anche lui non era altro che un guscio vuoto.
E ora non sapeva che senso dare alla sua esistenza, al suo essere Faustino, lì, in quel maledetto anno dell'impero, nella nebbiosa Colonia Civica Augusta di Brixia.
Dimmi chi sono, dimmi chi sono!
Aveva bisogno di sapere, ma Giove non pareva in grado di rivelarglielo: solo un cupo silenzio lo avvolgeva.
Faustino alzò gli occhi sulla statua del dio, che lo fissava imperturbabile dall'alto del suo trono. No, Giove non si interessava delle vicende umane. Non gli avrebbe mai dato una risposta.
Forse fu l'acre odore di carni immolate, forse il fumo degli incensi, o forse semplicemente fu il divorante desiderio di verità che spinsero Faustino ad agire.
Accadde tutto in un lampo.
Il giovane si alzò di scatto, strappò il coltello sacrificale dalle mani della sacerdotessa e si scagliò contro la statua di Giove. «PERCHÉ NON PARLI?» gridò, pugnalando con forza il piede del dio.
Sottili schegge di marmo bianco schizzarono per tutta la sala, mentre il suo urlo rimbombava tra le pareti del tempio. La lama del coltello si ruppe e piombò a terra, risuonando come un sordo rintocco di campana.
Delle guardie gli furono addosso e lo trascinarono via, ma Faustino le lasciò fare perché sembrava aver perso ogni energia con quella pugnalata. Si ritrovò sbattuto fuori dal tempio, a bocconi sulla strada lastricata del foro. Dei suoi ammiratori non c'era più traccia: era solo, in mezzo ad una folla di volti sconosciuti.
Solo, e senza sapere chi fosse.
«Tu sei tempio dello Spirito, creatura ad immagine e somiglianza di Dio» disse una voce da qualche parte sopra di lui. Era calda e pareva avvolgerlo in un abbraccio di sicurezza.
Faustino alzò gli occhi sull'uomo che aveva parlato: tutto, nella sua figura armoniosa e accogliente, trasmetteva un senso di serenità. Il suo sorriso pareva imperturbabile come quello delle statue degli dei, ma insieme aveva l'incredibile capacità di infondere tranquillità e sicurezza in chiunque l'ammirasse.
L'uomo allungò la sua mano verso Faustino per aiutarlo ad alzarsi.
Il giovane la afferrò titubante, ma solo quando si sollevò da terra e si ritrovò a guardare l'altro negli occhi, finalmente lo riconobbe: era il vescovo Apollonio.
Forse il vescovo non sapeva di aver davanti Faustino, uno dei più acerrimi oppositori dei Cristiani e, sicuramente, non aveva idea del fatto che il giovane aveva appena fatto arrestare sua figlia. O forse lo sapeva, a giudicare dal barlume di consapevolezza che brillava nei suoi occhi scuri, ma aveva deciso ugualmente di rivolgergli la parola e di aiutarlo. Gli stava offrendo la dignità di uomo, nonostante tutto.
«Prendi la tua croce e seguimi, e sarai luce del mondo e sale della terra» gli sussurrò Apollonio, sempre con quel suo sorriso indecifrabile. Sembrava che avesse afferrato qualcosa che Faustino non riusciva a cogliere.
Faustino scosse la testa e si mise una mano davanti agli occhi, nel tentativo di riordinare le idee, ma quando rialzò lo sguardo il vescovo Apollonio era già scomparso, inghiottito dalla folla che gremiva il foro.
«Aspetta!» provò a chiamare, ma dell'uomo non c'era più traccia.
Il sole caldo dell'estate rendeva ancora più luminose le toghe bianche dei cittadini che si aggiravano per il foro, facendo risultare impossibile individuare chicchessia. Faustino fu costretto a socchiudere gli occhi perché la luce era troppo intensa.
Si arrese: l'aveva perso e con lui la possibilità di capire il significato di quelle parole sibilline.

Osservare il tramonto dall'alto del colle Cidneo era un'esperienza che ripeteva spesso in quell'ultimo periodo, in cui la sua vita stava prendendo una gran brutta piega. Sua madre era morta senza ricevere il tanto agognato battesimo; suo fratello Giovita lo odiava. Aveva cominciato ad ammalarsi anche lui, una brutta febbre, ma aveva scelto di negare la cosa, per cui si aggirava per la casa come il fantasma di se stesso, pallido e consumato, senza accettare i suoi consigli o le sue cure, senza mangiare nulla, senza riposarsi. Faustino non capiva che cosa diavolo volesse dimostrare con quello sciocco comportamento, ma non riusciva a sopportare di vederlo versare in una condizione che era peggio della morte.
Le sue domande esistenziali erano rimaste senza risposta. Il vescovo Apollonio era scomparso nel nulla e Faustino era troppo orgoglioso per strisciare fino alla sua domus e chiedere di lui. Soprattutto, non da quando la figlia era tornata a casa dopo essere stata inutilmente torturata per giorni affinché abiurasse il suo dio e sacrificasse all'imperatore.
Faustino aveva realizzato di essere un mostro: non solo accusava gente innocente per il puro gusto di farlo, ma non sapeva nemmeno prendersi cura delle persone che gli erano più vicine, a cominciare proprio da suo fratello Giovita.
Sospirò, gli occhi fissi sul sole che tramontava lontano all'orizzonte, riversando la sua luce rosata sui tetti delle case che si estendevano ai piedi del colle. Tutto intorno a lui non c'era altro che silenzio, interrotto solo dal momentaneo frinire di una cicala solitaria.
Da qualche parte avrebbe pur trovato una risposta ai suoi dubbi, prima o poi. Avrebbe continuato a cercare, sì, perché il suo bisogno di conoscere era divorante.
Dopotutto, era un uomo; e un uomo non può non saper rispondere alla domanda fondamentale della vita: io chi sono?



Alcune note:
-res publica è intesa alla latina, nel senso di stato, visto che siamo all'inizio del II secolo d.C. (Faustino e Giovita vengono martirizzati sotto l'imperatore Adriano), in pieno splendore imperiale;
-il vescovo Apollonio (quarto vescovo della città di Brescia) ha una figlia perché nei primi secoli del cristianesimo era normale che anche vescovi e sacerdoti si sposassero; inoltre, le sue battute sono tutte citazioni bibliche;
-la Dacia è l'ultima provincia conquistata dall'impero romano, con una rapida campagna militare sotto l'imperatore Traiano (101-107 d.C.).


Buongiorno a tutti!
La storia che avete appena letto ha partecipato al contest "Sono un uomo, non sono un santo" (qui il link), indetto e giudicato dalla gentilissima Gaea, classificandosi prima (una classifica ufficiale, in realtà, ma non di grande importanza, perché eravamo solo in 3 partecipanti! ^^). Comunque, al solito, tra le recensioni troverete il preciso e dettagliato giudizio di Gaea, che ringrazio infinitamente.
Il contest si è concluso una settimana fa, in realtà, ma io ho deciso di pubblicare oggi perché oggi non è la festa dei singol, ma è la ricorrenza dei Santi Faustino e Giovita, patroni della mia città e della mia parrocchia (qui la dettagliata pagina di Wikipedia sulla basilica!). Perciò, dopo alta messa con vescovo, sindaco e cavalieri di malta in uniforme (fighissimi!), obbligatorio giro in fiera a comprare dolci e mangiare caldarroste, eccomi qui a pubblicare la storia! Vi lascio anche QUI il link dell'immagine che ho disegnato tempo fa su Faustino e Giovita prima della conversione.
Grazie a tutti, in special modo a Gaea. Alla prossima!
Beatrix

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