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Autore: Sylphs    16/02/2012    5 recensioni
Sei mesi dopo la notte del don Juan, una giovane pianista un po' inopportuna arriva al teatro dell'Opera per seguire delle lezioni...ma un misterioso e ambiguo incidente capitato durante una rappresentazione la porterà ben presto a indagare sull'esistenza del temibile Fantasma dell'Opera e una domanda opprime l'animo di tutta la compagnia: è realmente scomparso, oppure la loro era solo una speranza vana?
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Assonanza

 
 
 
 
 
Erik vagava in un magma inconsistente, dove ogni respiro era di fuoco e ogni battito di cuore irrorava sofferenza nelle sue vene. Non era completamente incosciente, ma non si poteva neppure dire che fosse consapevole della realtà che lo circondava. Ogni cosa era confusa, squarci neri e immensi devastavano la sua memoria e in lontananza risuonava un gemito continuo e ininterrotto, un rantolo grottesco che egli avrebbe voluto far cessare, se solo non fosse stato lui stesso ad emetterlo. Alternava momenti in cui la testa e il corpo gli scoppiavano, prendendo in ostaggio la sua mente, e momenti in cui l’incoscienza lo rapiva nelle sue spire, trascinandolo all’oblio. Aveva perduto tutto, la sua identità e i suoi ricordi, la sua percezione del tempo e dello spazio. Poteva avere i suoi effettivi trentasette anni allo stesso modo in cui sarebbe potuto essere un bambino o un adolescente imberbe.
Sedeva a gambe incrociate su un mucchio di paglia giallastra e maleodorante, le narici piene del fetore rivoltante dei suoi escrementi sparsi all’intorno e del sangue secco spillatogli in un passato non troppo lontano. Regnava la penombra, ma fuori dal luogo in cui era relegato, fuori dalla cerchia di possenti sbarre che gli ammiccavano luccicando nel buio, riecheggiavano risate sguaiate, scoppi e rumore di passi e di chiacchiere, un brusio cacofonico, tutt’altro che melodico, che lui sperava con tutte le forze di sentire allontanarsi. La solitudine era la sua unica salvezza, e se qualcuno giungeva, voleva dire sofferenza, voleva dire vergogna e umiliazione. Si stringeva al petto le ginocchia ossute, sorpreso dalla spaventosa magrezza delle sue membra; sul torace si contavano le ossa del costato e i polpacci erano di una sottigliezza inquietante. Sembrava che non mangiasse da mesi, eppure rammentava vagamente d’essere più alto e molto, molto più muscoloso, temprato da un gran numero di anni e di esperienze di vita. O no? A giudicare dalle proporzioni attuali, si poteva facilmente dedurre che egli fosse invece un ragazzino di non più di undici o dodici anni. Ma se aveva davvero quell’età, dov’era la sua scimmietta? Il pupazzo che aveva costruito con le sue mani, il compagno di ogni sventura, il morbido corpo da stringere la notte, nell’attesa degli incubi, con le orecchie colme delle voci e delle risa dissolute dei suoi carnefici? Perché non era con lui? E perché d’un tratto si sentiva così fuori luogo in quella gabbia, immerso nei suoi escrementi e nel suo sangue, protetto da un ruvido sacco di tela e rannicchiato come un cane tremante? Non aveva deciso di imporsi, di ordinare anziché obbedire, di tenere alta la testa?
Non capiva, non capiva nulla, la prigione era sfocata e si confondeva in qualcosa di rosso, dei drappi forse, o degli arazzi.
Adesso intorno alla gabbia c’erano delle persone. Non erano affatto entrate nel tendone in cui era collocata, non s’erano raggruppate pian piano, divenendo prima capannello, poi folla. Erano semplicemente…apparse, quasi dal nulla. Un attimo prima era solo sulla paglia secca e scomoda, a domandarsi quanti anni avesse e dove fosse finita la sua scimmia giocattolo, e quello dopo era invece circondato da visi umani, sommerso dal loro odore e dalla loro eccitazione famelica, dal passato e dal presente. Avevano importanza in quel luogo?
Gli pareva di riconoscere alcuni di quei volti. I due uomini sulla destra erano senz’altro Firmin e André, i direttori del teatro dell’Opera. Il primo era mascherato da tigre, il secondo da sciacallo. Che cosa ci facevano lontani dai loro compiti, e abbigliati in quella maniera ridicola? E perché accanto a loro, indifeso e protetto dal fulgore della sua avvenenza, era in piedi il visconte Raoul de Chagny, il quale teneva saldamente per la vita Christine, la sua Christine, bella in sogno ancor più di quanto lo era stata nella realtà, con i boccoli castani liberi di ricaderle fino alla vita e i grandi occhi malinconici pieni di accusa? Lo guardava, al di là delle fitte sbarre lucenti, le piccole mani appoggiate sul petto magro del visconte, e aggrottava le sottili sopracciglia, distogliendo sdegnosamente il viso: “Perché mi hai tradito? Mi fidavo di te”.
Una vertiginosa sensazione di deja vu lo assalì. Ella gli aveva già rivolto più o meno le stesse parole, ma in un contesto totalmente differente.
Gli fecero male come se gli avesse inferto una pugnalata nelle viscere. Il suo corpo era quello scheletrico e basso d’un ragazzino, tuttavia la sua voce era cupa e baritonale come quella d’un uomo adulto: “Perché dici questo? Non ti ho tradito!”
Firmin gli puntò contro un dito accusatore, le sue movenze e quelle degli altri accanto a lui erano le medesime di una giuria raccoltasi intorno alla gabbia in cui era rinchiuso l’imputato, inerme dinnanzi alle aguzze stelle della legge: “Sì, invece!” squittì alla sua fastidiosa maniera: “L’avete tradita!”
“Fareste meglio a confessare” André sputò fuori le parole con assoluto disprezzo: “Non siate vigliacco”.
Erik s’alzò in piedi, travolto da un’ondata d’astio e d’incomprensione per quella situazione di cui non comprendeva il senso. Le accuse gelide e perentorie che gli venivano mosse non avevano né capo né coda, loro si sbagliavano, mentivano per confonderlo, per accrescere il dolore che continuava a invaderlo, per sporcare l’onore della sua vita adulta con la lordura disgustosa della sua infanzia, relegata in un cantuccio della sua mente e mai più emersa, se non in sogno: “Smettetela! Io sono innocente! Non ho tradito nessuno!”
Raoul scosse la testa con rammarico, guardandolo in una maniera triste e compassionevole che gli incendiò le vene di rabbia e gli sollecitò il desiderio di distruggere le sbarre che lo separavano da loro per colpirlo su quel volto da brav’uomo. Gli sconosciuti, anch’essi raccolti intorno alla gabbia, forse i testimoni che immancabilmente si presentavano ai processi per aver qualcosa da raccontare, ridevano sguaiatamente, le stesse risa che innumerevoli volte avevano accompagnato le sue ignobili esibizioni in veste di “Figlio del Diavolo”, sonore e invadenti. Erik lasciò scorrere sulle loro facce paonazze e grottesche uno sguardo che implorava aiuto, dicendosi che da qualche parte, in quella moltitudine, si nascondeva Louise Giry, la sua salvatrice, la sua nume tutelare, la buona samaritana disposta a prenderlo per mano e a portarlo via da se stesso e dai suoi peccati, ma la donna, in quella situazione ragazzina come lui, non era da nessuna parte, non la trovava in mezzo alla folla vorace e si sentiva sempre più indifeso e a disagio, una sensazione orribile, umiliante, per un animo vendicativo e orgoglioso come il suo. Era tutto sbagliato, tutto sbagliato! La gabbia, la folla in preda al riso convulso, non aveva alcun collegamento con Raoul de Chagny, i direttori dell’Opera e…Christine. Un qualche dio di cui non conosceva il nome s’era divertito a mutare il corso della sua esistenza e a mescolare tutto quanto a suo libero piacimento.
Così gli spettatori ridevano, il visconte scuoteva la testa con pietà, Firmin e André borbottavano ripetendo la sua colpevolezza e Christine gli teneva incollato addosso quello sguardo truce, indignato e accusatorio: “Tu mi hai tradita”.
“Non è vero!” cercò di avvicinarsi all’immagine della sua amata, scintillante come una stella in quella marmaglia volgare e dissoluta, ma intorno alla gabbia vi era una barriera, un confine invalicabile, e veniva continuamente respinto indietro da forze invisibili, che gli colpivano come artigli rapaci la spalla destra, strappandogli gemiti acuti. Cadde in ginocchio nella paglia lorda di sangue e di sterco, dilaniato dall’impotenza e dallo stordimento, e levò sul magnifico viso uno sguardo di disperata supplica: “Credimi, Christine, io non ti ho mai tradito”.
“Davvero?” la voce di lei, quella splendida voce che aveva modellato e perfezionato sino a renderla perfetta e cristallina, gli giunse imbevuta d’un sarcasmo assoluto, d’un’aria di maligna presa in giro. I dolci lineamenti erano trasfigurati dal rancore, tutta l’innocenza e la purezza l’avevano abbandonata per fare spazio ad un ghigno diabolico e ad uno sguardo che sprizzava scintille incandescenti: “Non prendere in giro te stesso, Erik! Sai benissimo di non amarmi più! Ti sei già dimenticato tutto quanto? Io ero la tua musa, la sola capace di rendere giustizia alle tue note, la tua sposa, il tuo unico e vero amore. Non le rammenti più, le promesse, gli inganni, i segreti che abbiamo condiviso? Era dunque un sentimento passeggero? Un amore fatuo e moribondo? Così presto è cessata la dolce musica per noi?”
Lui tacque, travolto dalla verità di quelle parole. Un ricordo sperduto, un frammento di memoria gli sovvenne vagamente, riportato in vita dalla smorfia rancorosa della sua amata di un tempo, dallo scintillio malevolo nei suoi occhi di calda cioccolata. Era il ricordo d’un articolo di giornale, un articolo di cui non rammentava il contenuto ma che l’aveva condotto, tramite un lungo ragionamento, all’illuminazione: l’amore per Christine, un amore che per anni e anni aveva determinato il corso della sua esistenza, era cessato. E nonostante lei non lo avesse mai ricambiato, nonostante fosse sposata e  incinta, l’immagine che conservava dentro di sé, la stessa immagine che ora gli ammiccava al di là delle sbarre, si sentiva tradita dal suo cuore debole e superficiale, incapace di rimanere legato per sempre ad un’unica anima, un’unica voce, un unico sorriso. Aveva ragione, avevano ragione tutti. L’aveva tradita.
“Credi che sarai felice, adesso?” non gli era mai capitato di desiderare che la fanciulla tacesse. Anzi, l’aveva sempre esortata a cantare per lui, a riempirgli il corpo di quegli acuti lunghi e mozzafiato, a dimostrargli la validità dei suoi insegnamenti. Ma adesso, torturato dal tono di risentita canzonatura, dall’accento aspro, avrebbe voluto gridarle di star zitta: “Credi di esserti liberato di un peso? Senza di me non sei nulla, sciocco! Tutti al teatro ti ricordano per un’unica vicenda in particolare, il mio rapimento, la notte del Don Juan! Non hai fatto altro che esistere per me, per tutti questi anni, e adesso che non m’ami più, che vuoi lasciarmi andare, svanirai come il rifiuto che sei. Hai bisogno di me. È inutile tentare di negarlo”.
Erik mosse la testa in su e in giù, annientato, annichilito dal significato di quelle frasi terribilmente vere, pronto ad ammettere qualsiasi conseguenza della sua infedeltà. Lei diceva il giusto, non era nulla senza l’amore che li aveva legati, nulla senza il suo ricordo, che gli aveva stimolato affetto e odio a seconda dei casi. L’aveva perduta, aveva lasciato andare la sua musa, uccidendo con lei anche se stesso. Quale orribile errore! Ella era stata la sola fiammella di luce nell’oscurità della sua vita, la sola cosa capace di mantenerlo salvo sopra l’abisso…e alla fine l’aveva soffocata di sua volontà, aveva spento il suo fuoco, restituendo al buio il dominio assoluto sulla sua anima.
“Monsieur Fantòme!”
Trasalì, levando il capo di scatto e volgendo all’intorno due occhi divenuti improvvisamente frenetici e lucenti. Quel richiamo…conosceva quel richiamo. Non assomigliava neppure un poco al dolce strumento che era la voce di Christine, celestiale persino quando si colorava d’odio e di rancore, tuttavia era entrato in lui come un balsamo benefico, aveva riscaldato il suo corpo gelato dallo sconforto e aveva mutato bruscamente il corso dei suoi pensieri. Dov’era la proprietaria? Come mai non l’aveva notata tra gli spettatori riuniti intorno alla gabbia? Sicuramente, se fosse stata tra la folla, si sarebbe avveduto di lei! Perlustrò i volti deformati dall’ilarità e i corpi sussultanti per le risate alla ricerca di quella massa di riccioli scuri e di quel viso tondo e deciso, indispensabili come mai prima.
Eccola! L’aveva finalmente individuata! Era esattamente al lato opposto di Christine, aggrappata alle sbarre con ambedue le mani, un’espressione di angoscia, ansia e trepidazione sui lineamenti volitivi e uno sguardo scevro di qualsiasi malignità: “Monsieur Fantòme!” ripeté, incalzante, tentando di infilare la testa nell’acciaio. Pareva ansiosa di raggiungerlo dentro alla gabbia, di separarsi dalla moltitudine impazzita: “Sta tranquillo, ti tirerò fuori di lì, ti salverò!”
Di nuovo una sensazione di deja vu sfiorò i margini della sua coscienza. La ragazza aveva già pronunciato quelle parole…ma anche lei in circostanze diverse. Percorse bruciandola in sé la sua assoluta determinazione, il fuoco ardente e inestinguibile che riposava nel fondo delle sue iridi ambrate, i ricci fitti e rigogliosi che le carezzavano come un vortice di fiamme nere il profilo del collo. Fuoco, fiamme…non aveva pensato la stessa cosa a proposito di Christine, poco prima? L’aveva paragonata ad un lampo di luce nell’oscurità dei suoi giorni. Tuttavia il suo aspetto non evocava affatto quell’elemento feroce, fiero e capace di scaldare come di consumare, piuttosto, guardandola, si poteva pensare all’aria pura e impalpabile, o all’acqua calma e profonda. Ma né l’aria, né l’acqua erano in grado di dissipare il buio che si portava dentro. Il fuoco, invece…
La scena parve sfumare ai suoi occhi, disgregarsi in una moltitudine di luci bianche che cancellarono la gabbia, il viso incollerito di Christine, gli spettatori ridenti e l’angoscia di Vivian, ma non il fetore del sangue fresco, né le fitte di dolore alla spalla destra. Tossì, i polmoni pieni di un qualcosa di maligno e di bruciante che gli impediva di respirare con agio, e sollevò le palpebre pesanti e cispose, la mente offuscata dalle immagini del sogno, il corpo un fardello insostenibile che riposava sotto calde coperte di lana. Non era stata un’allucinazione, il color rosso intravisto di tanto in tanto tutt’intorno. Drappi consunti e cortine di quella tonalità celavano la nudità delle pareti di pietra della stanza in cui riposava, e la sola illuminazione era costituita da tre candele accese sistemate sul tavolinetto alla sua sinistra. Udiva, in maniera smorzata ma distinta, il dolce scroscio del lago Averno da qualche parte nello spazio vicino.
Era tornato a casa. Alla Dimora sul Lago. Ma perché giaceva debole sul suo letto, con un sapore rivoltante nella bocca e una sofferenza atroce all’altezza della spalla? Che cosa era…
I ricordi lo assalirono tutti insieme, chiari e nitidi malgrado la confusione che gli ottenebrava il cervello. Era caduto in una delle sue trappole, un’onta che non avrebbe mai dimenticato, un inammissibile errore che quasi gli era costato la vita, dopo aver letto l’articolo di giornale che l’aveva informato sull’assoluta mancanza di gratitudine di Christine. Si era aggrappato appena in tempo ad una sporgenza di roccia, e aveva udito la voce di Vivian che lo chiamava e invocato il suo nome perché tirasse la leva che gli avrebbe consentito di salvarsi. Ma lei non era stata in grado di farlo…oppure sì? No, no, aveva tentato, ma inutilmente…e gli aveva detto…gli aveva detto…che sarebbe tornata…dopo aver trovato qualcosa di adatto ai suoi scopi. Lui le aveva gridato di rimanere, ma la giovane era corsa via, lasciandolo solo e agonizzante a penzolare in quel buco.
Dopo ciò, la sua memoria diveniva fallace. Un velo di dolore sbiadiva i colori dei ricordi, un approssimarsi sempre più forte del delirio gli rendeva impossibile determinare con sicurezza il corso degli eventi. Se si trovava al sicuro nella Dimora sul Lago, anziché spiaccicato nel fondo del precipizio, allora la sua ospite doveva essere riuscita a trarlo dall’abisso. Però non conservava alcuna traccia dell’accaduto. L’unico sottile filo di memoria era debole e impercettibile ed era la voce della ragazza, quella voce bassa e forte, che sussurrava con tono rassicurante: “Va tutto bene”.
Ma dov’era adesso? Sollevò la testa dal cuscino, cercando di mettersi a sedere, perseguitato dalla nuova e attanagliante paura che ella se ne fosse andata, tornando in superficie. Fino a poco tempo prima questa era stata la sua speranza più grande, ma adesso, per qualche assurda ragione di cui gli sfuggiva il senso, era terrorizzato da una simile eventualità. Aveva bisogno della presenza forte e dinamica di Vivian, della sua passione, del sentimento che metteva in tutto ciò che faceva. Non avrebbe sopportato una sua uscita di scena, specialmente adesso che era in quelle condizioni. E la sua spalla… cos’aveva la sua spalla? Impulsivamente, allungò l’altro braccio per toccarsela.
“No!” l’ordine, chiaro e perentorio, giunse con tempismo perfetto, e un attimo dopo si materializzò la figura di Vivian, avvolta in una vestaglia che s’era infilata in fretta e furia, senza neanche allacciare in vita il cordone di stoffa, e alquanto in disordine. I capelli erano ancora più riottosi del solito e il suo viso, riempito di ombre dai riverberi delle candele, era pallido e sbattuto, le palpebre circondate da occhiaie evidenti. Doveva aver vegliato incessantemente su di lui, negandosi il sonno e il cibo, per chissà quanto tempo. Con quei modi spontanei che lui aveva imparato a riconoscere e ad apprezzare, gli prese la mano che stava per tastare la spalla e l’accompagnò sul giaciglio: “È meglio non andarsi a stuzzicare lì”.
Erik la fissò, sconvolto dall’ondata di sollievo montata in lui quando gli era apparsa davanti. Era così…bella in quel momento, sicura di sé e con la situazione in mano, ma una constatazione del genere non si basava su alcun motivo logico, dal momento che aveva invece un aspetto stravolto ed era in condizioni ben peggiori rispetto ad altre occasioni in cui avevano parlato. Però quelle occhiaie, quel colorito pallido, quei lineamenti tirati, quella chioma aggrovigliata…erano state causate dall’ansia che la ragazza provava per lui? Nessuno aveva mai mostrato un analogo coinvolgimento nei riguardi della sua sorte, tantomeno Christine, che l’aveva abbandonato in pasto ai cani che volevano linciarlo per fuggire con il suo visconte. Il volto stanco e angosciato della sua ospite gli riscaldò il cuore, attenuando un po’ delle fitte che s’irradiavano dalla spalla. 
“Che cosa è successo?” dalle labbra riarse scaturì una voce roca e affaticata che non riconobbe. Si era appena destato, ma già avvertiva il desiderio di ricrollare nel sonno, con la speranza che stavolta fosse privo di sogni.
Lei si lasciò sfuggire un sospiro e si portò un ricciolo ribelle dietro l’orecchio, prendendo dal tavolinetto una brocca piena d’acqua e chinandosi sul suo capezzale: “Prima bevete, poi vi spiegherò”.
Erik distolse il viso scontrosamente, per nascondere il crescente disagio che gli causava quella situazione tanto anomala. Non era abituato ad essere accudito da chicchessia, nel corso della sua vita se l’era sempre cavata da solo e quelle premure gli risultavano quasi incomprensibili: “No, prima spiegate. Ho il diritto di sapere cosa mi è accaduto” con la coda dell’occhio, notò di avere la spalla avvolta da bende pulite e avvertì una stretta di paura nelle viscere. Se si era danneggiato in qualche maniera il braccio destro, avrebbe potuto cantare, ma non suonare almeno per una settimana, e tale restrizione era quanto di più terribile riusciva ad immaginare. La musica era tutto per lui, senza di essa non aveva alcuno scudo a difenderlo dall’oscurità e dalla perdizione, alcuna distrazione dal peso dei pensieri e dei ricordi, immane e crudele, onnipresente, malgrado i suoi sentimenti fossero mutati. Si poteva rimuovere l’amore per una persona, ma non il dolore di un suo antico abbandono. Quello rimaneva, subdolo e inamovibile, radicato nei decenni.
Ma Vivian non aveva mai chinato la testa di fronte ad un suo ordine, non aveva mai ceduto al suo tono di comando, allo sguardo d’avvertimento delle iridi azzurro scuro, alla smorfia del suo volto dolorosamente nudo, terribile nella sua deformità. Posò l’orlo della brocca sulle sue labbra serrate e s’approfittò della sua momentanea debolezza, costringendolo a non voltare la testa: “Poche storie. Se volete riprendervi in fretta, dovete assumere molti liquidi, stare a riposo e non agitarvi. Perciò calmatevi, bevete la vostra acqua e copritevi bene, qui sotto si gela. Per vostra tranquillità, vi dico che non vi sarà alcuna conseguenza importante a seguito di questo incidente”.
Un poco della tensione di Erik evaporò a quell’ultima frase, ma continuò a percepire dentro di sé un presagio di sventura. Non poter suonare per svariati giorni era, dal suo punto di vista, una grave conseguenza, e coltivava la seria convinzione che alla fine di quei preamboli, avrebbe saputo proprio questo. Tuttavia non ricavò dalle brusche esortazioni di lei l’irritazione che avrebbe dovuto e con grande sorpresa bevve docilmente l’acqua della brocca, prosciugandola in pochi secondi. Non s’era accorto d’avere così tanta sete. Il bisogno era urgente a tal punto che, terminato il contenuto del calice, se ne sarebbe bevuto volentieri un altro. Leccò avidamente le ultime gocce dalle labbra secche, cercando di volgere al lato oscuro della camera la parte deturpata del suo viso. Urgeva procurarsi un’altra maschera al più presto, si sentiva troppo esposto senza, malgrado Vivian non palesasse alcun tipo di disgusto o di turbamento.
Ella, dal canto suo, aveva deposto la brocca vuota sul ripiano dove stava prima e s’era accomodata placidamente su un mucchio di guanciali di seta, poco lontano dalla scimmietta con i piatti che suonava quando si sentiva particolarmente solo o disilluso. La seguì con gli occhi, notando improvvisamente una sorta di segreta preoccupazione sul suo volto, un’ombra nel suo sguardo franco e sicuro, e non osò muoversi, per evitare di incorrere in ulteriori rimproveri: “Adesso volete dirmi cosa è accaduto?”
“Prima di tutto” commentò lei con tono pratico: “Che cosa ricordate?”
“Ricordo di essere caduto in un precipizio. Ricordo che siete venuta a cercarmi e che non siete riuscita a tirare la leva. Ricordo che ve ne siete andata giurandomi di tornare. Ma da quel momento in poi…” scosse la testa, frustrato dal buco nero in mezzo al mosaico della memoria: “È tutto confuso. Credo che a un certo punto mi abbiate detto che andava tutto bene, ma forse l’ho sognato”.
Un curioso rossore le imporporò le guance: “No” bisbigliò: “Non l’avete sognato”.
Ci fu una piccola pausa. Sembrava che quella parentesi nel discorso avesse significato per la ragazza più di quanto Erik si sarebbe aspettato, e per qualche minuto stette seduta sui cuscini, le braccia intorno alle ginocchia, guardando il vuoto con aria assente. Fu costretto a riscuoterla con un colpo di tosse e si riebbe con un lieve sussulto: “Ho mantenuto il mio giuramento, monsieur Fantòme. Sono corsa fin qui il più velocemente possibile, ho prelevato una corda e l’ho usata per calarmi nel precipizio. Voi eravate ferito e in uno stato visibilmente confuso, ma siete riuscito a trasportare entrambi in salvo e io vi ho sostenuto durante il tragitto verso la vostra camera. Barcollavate ed eravate incerto sulle gambe, ma eravate cosciente, altrimenti non ce l’avrei mai fatta, a mettervi a letto. Appena vi siete sdraiato sotto le coperte, avete mollato ogni freno e vi siete abbandonato ad un lungo svenimento. Al principio la vostra fronte scottava, ma adesso và meglio. Avete una tempra invidiabile, monsieur!”  
Egli già non l’ascoltava più. Attraverso le palpebre semiaperte, studiava la sua magra figura raggomitolata contro il muro e stentava a credere che quella creatura fragile e snella, quella donna che aveva involontariamente salvato da una tentata violenza avesse affrontato il pericolo di un precipizio per portarlo al sicuro. Se l’immaginava mentre pendeva nel vuoto con la fune legata intorno ai fianchi e un moto di silenzioso stupore trasfigurava il suo volto appoggiato sul cuscino. Chi altri avrebbe osato tanto per salvare la vita del Fantasma dell’Opera? Nessuno, neanche Madame Giry. C’era qualcosa di soprannaturale in Vivian, qualcosa di sorprendente nell’incoerenza delle sue azioni.
“Perché?” la parola fu appena un soffio. Lei ostentò noncuranza: “Perché cosa?”
Erik era certo che avesse capito e che stesse solo prendendo tempo, ormai la sua opinione di lei era troppo elevata per prendere in considerazione l’ipotesi che non avesse colto il senso della sua domanda: “Perché l’avete fatto? Avete rischiato di perdere la vita. Cosa ve ne veniva, dalla mia salvezza?”
Vivian si strinse con maggior vigore le gambe al petto. Se fosse stata in piedi, di sicuro avrebbe cominciato a tormentare con le dita il bordo della vestaglia come faceva sempre quando era nervosa. Egli iniziava a conoscerla sul serio, a memorizzare ogni suo gesto o cambiamento d’espressione, e la perspicacia con cui notava i suoi sorrisi, le vampate che le salivano alle guance, i cipigli e le smorfie lo inquietò. Normalmente considerava gli esseri umani indegni del suo sguardo, e sorvolava con piacere sulle loro pose.
Era ormai giunto alla conclusione che non avrebbe ottenuto alcuna risposta, quando lei parlò, scegliendo le parole con cura e seguitando a fissare il vuoto: “La verità è che non ne sono ben sicura io stessa”.
Era ciò di cui aveva bisogno. Se la ragazza si fosse lanciata in una complicata spiegazione sui motivi che l’avevano spinta a rischiare così tanto per lui, asserendo di non voler perdere la sua protezione o di esserglisi affezionata nel corso di quei giorni, non avrebbe creduto ad una sola delle sue giustificazioni e avrebbe pensato che l’aveva salvato perché le tornasse utile in futuro. Ma quella sperduta desolazione, quella sincera ammissione di ignoranza erano invece, ai suoi occhi, veri totalmente. Capiva alla perfezione il contrasto interiore che stava avvenendo in Vivian, poteva accettare d’essere stato soccorso per ragioni che sfuggivano a lei stessa. Indubbiamente la disavventura era un qualcosa che entrambi dovevano ancora ben assorbire.
“In ogni modo…” disse come esitando a concludere: “…grazie”.
Gli occhi scuri di lei deviarono dal muro al suo volto privo di maschera e lo studiarono con intensità, accesi da un brillio di emozione. Erik avrebbe voluto seppellire i suoi dannati lineamenti piagati nel guanciale perché lei non potesse più osservarlo, ma rimase invece fermo al suo posto, ricambiando lo sguardo penetrante della ragazza. Quanto fastidio aveva ricavato dalla sua presenza, quanto si era detestato per averle promesso quei dieci giorni di ospitalità. Ma se l’avesse scacciata quando ne aveva avuta la possibilità, se l’avesse caricata sulla gondola con la forza, sarebbe probabilmente morto nel precipizio, dissanguato su una delle affilatissime stalagmiti che scintillavano sul fondo. Che facesse tutto parte di un disegno premeditato? Non aveva mai creduto in alcuna divinità, tuttavia si domandò, per la prima volta, se fosse il caso di confidare nell’esistenza del destino. Era destino, il suo incontro con Vivian? Era destino che si fosse trovato nei paraggi della cappella la sera che il nobile aveva provato a violentarla e che l’avesse salvata, decidendo poi di condurla nella sua dimora?
“Non dovete ringraziarmi” mentre si smarriva in tali ipotesi, lei era rimasta concentrata sul suo grazie: “A vederla da una certa ottica, non ho fatto altro che pareggiare i conti. Voi mi avevate difesa dal marchesino Antoine, e io mi sono solo… sdebitata”.
“Credevo che quella vicenda non contasse” osservò l’uomo, sollevandosi con fatica sui gomiti per proseguire la conversazione con più agio. Era stanco e intorpidito e il suo corpo chiedeva a gran voce riposo, ma più forte era il desiderio di parlare con Vivian: “Credevo che mi riteneste indegno di ogni forma di gratitudine”.
Lei arrossì di nuovo, più profondamente: “Mi sbagliavo”.
Stavolta fu lui a fissarla con intensità: “Davvero?” si sorprese che nel suo petto qualcosa si fosse mosso, qualcosa di debole e di indurito e di troppe volte trafitto da pugnalate di vario genere.
“Vi ho giudicato male, monsieur F. E mi dispiace di aver ignorato tante implicazioni della vostra vicenda, basandomi solo sulle apparenze. Mi illudo di essere diversa dagli altri, di ricercare la vera essenza delle cose, ma forse sono cieca e bigotta come loro” nel tono della giovane vi era una grande umiltà, un’umiltà da adulta, che per qualche secondo cancellò dal suo viso ogni traccia di frivolezza o frenesia adolescenziale per lasciare spazio all’espressione stanca e paziente di una donna. Parve sorpresa, come se una presenza estranea si fosse infiltrata nel suo corpo e avesse pronunciato quelle parole al suo posto. Ma era stata sincera, e a lui bastava aver compreso questo. Guardandola, così rannicchiata sui cuscini con quella nuvola di capelli arruffati e quell’incarnato reso pallido dalla preoccupazione, avvertì il desiderio improvviso e incomprensibile di alzarsi, attraversare la distanza che li separava e stringerla tra le braccia, facendo eco alle parole che gli aveva rivolto nel precipizio dicendole che sarebbe andato tutto bene. Volle proteggerla, tenerla al sicuro dalla crudeltà del mondo e dei potenti che già le era ricaduta addosso, proponendole di restare a lungo, di condividere con lui il peso della solitudine (poiché ormai sapeva che anche lei era una creatura triste e sola) e del rimpianto. Non sarebbe stato un favore mai ripagato, con lei lo scambio era equo: avrebbero dato e ricevuto in pari misura, rispettandosi e comprendendosi.
Ma naturalmente ciò era impossibile, e non avrebbe dovuto nemmeno ricamarci sopra. Per colpa della ragazza aveva interrotto i suoi progetti di vendetta, si era arreso a posticiparli a quando non sarebbe più stata lì ad accusarlo in silenzio, e se le avesse concesso di restare più a lungo sarebbe stato costretto a rimandarli ancora. Si proibiva di farlo. L’umanità doveva pagare il fio, i conti andavano regolati. Non poteva ignorare i torti subiti in passato a causa della gentilezza di una fanciulla che forse era migliore di Christine, ma che comunque avrebbe stimolato in lui quel senso di colpa e quella ragione che, fuorché al termine della notte del Don Juan, aveva sempre tenuto celati sotto una nera coperta mentale. Sapeva che c’erano, a volte quasi ne avvertiva l’odore, ma preferiva cullarsi nell’illusione che non esistessero e che avesse tutto il diritto di comportarsi come si comportava, lasciandoli ben sepolti sotto strati di oscurità. La presenza di Vivian, così solare, così diretta, rischiava di sollevare la sua preziosa coperta e di svelare i vermi schifosi che vi brulicavano sotto.   
E non c’era niente al mondo che lui temesse allo stesso modo in cui temeva quei vermi. La sola occasione in cui li aveva intravisti, quando le morbide labbra di Christine erano penetrate in lui annidandoglisi nella mente e lacerando la loro copertura, quasi era morto di dolore e di angoscia. Se ciò si fosse ripetuto, ne sarebbe rimasto segnato in eterno, l’avrebbero perseguitato ogni notte della sua vita.
(e io non voglio non voglio non voglio vedere i vermi venefici che vivono in me)
“Posso farvi una domanda?”
Sussultò, accusando la stessa sensazione che prova un naufrago sperduto in mare aperto quando s’imbatte in una solida ancora. La voce di Vivian l’aveva distratto dalla pericolosità di quelle riflessioni e aveva spento quel muscolo del suo cervello consapevole della coperta nera e del suo contenuto. Occhi gialli e corpi viscidi non gli ammiccavano più oltre le ombre. Si strinse di più nelle coperte, colto da un brivido di freddo, prima di volgersi dalla sua parte: “Quale?”
Lei soppesò con cautela la frase successiva. Appariva esitante, come se non fosse sicura di voler apprendere quel che le era oscuro. Ma alla fine, ovviamente (si trattava pur sempre di Vivian!) si buttò: “Cosa vi spinse a salvarmi da Antoine, quella sera nella cappella?”
In effetti non s’aspettava una domanda simile, specialmente dopo i giorni trascorsi dalla disavventura avvenuta nella cappella. Perché la giovane aveva atteso tutto quel tempo prima di chiederglielo? Al principio aveva preteso spiegazioni sulla sua presenza nella Dimora sul Lago, naturalmente, ma non aveva indagato sui motivi che l’avevano indotto a strapparla alle grinfie del marchesino. Probabile che all’epoca (era passato poco tempo, ma a lui tali vicende sembravano lontane di eoni) non le fosse importato alcunché della cosa. Adesso, invece…adesso nei suoi occhi c’era un deciso bisogno di fugare quel dubbio, ed era la verità che voleva, non facili menzogne o un racconto che lo facesse apparire eroico come anche lei era stata nel precipizio.
Rispose con tutta la franchezza possibile: “Non si trattava di voi. Non vi avevo neanche riconosciuta, all’inizio. Ma quella cappella era per me teatro di numerosi ricordi, lì avevo conosciuto Christine” non si fermò neppure un attimo a notare che era la prima volta che pronunciava quel nome di fronte alla sua ospite: “E lì l’avevo istruita. Non ho sopportato che venisse dissacrata in quella maniera ignobile”.
Aveva previsto di vedere affiorare sul viso di Vivian un’espressione di biasimo, o di delusione, o di amara conferma a supposizioni elaborate in passato, ma con sua sorpresa lei accettò quella versione dei fatti senza mutare in alcun modo la propria posa riflessiva e non rovinò la nuova atmosfera di complicità instauratasi tra di loro: “Ditemi una cosa…” distolse leggermente il volto, avvolgendosi più stretta nella vestaglia per una repentina insicurezza: “Com’era la vostra Christine? Era bella?”
Erik si ritrasse appena, con le mosse di chi si difende da un colpo basso. Prima di aver letto l’articolo di giornale quella questione l’avrebbe troncata subito e con irosa brutalità, rifiutandosi di mostrare la stessa debolezza vulnerabile con cui l’aveva sorpreso Madame Giry quel lontano giorno immediatamente successivo all’addio della sua amata. Ma ora che i sentimenti che le nutriva erano scomparsi, lasciando dietro di loro solo una fievole traccia dolorosa dell’antica grandezza, e che Vivian l’aveva tanto altruisticamente salvato, non volle negarsi di affrontare l’argomento: “Bellissima. Come un mattino di primavera, un tramonto sul lago o la passione di un’opera ben eseguita. Ma il suo aspetto era superfluo, confrontato alle meravigliose utopie che era capace di creare con il canto”.
Appena ebbe chiuso la bocca, gli sovvenne un bizzarro particolare su cui all’inizio non s’era soffermato. Vivian conosceva già le sembianze di Christine, avendo veduto la bambola di cera che le riproduceva alla perfezione. Perché fargli quella domanda, allora? E perché s’era rattrappita nel suo angolino, chinando la testa in modo che i lunghi riccioli le coprissero il viso e reprimendo a fatica una smorfia? Forse avrebbe preferito sentirgli dire che Christine era brutta e sgraziata? O che oramai non la considerava più avvenente? Certo non l’amava, ma riconosceva ugualmente la sua magnifica bellezza e le sue straordinarie capacità canore. La sua ospite, tuttavia, sembrava in qualche modo in difficoltà a fronte di quella descrizione.
“L’amavate molto?” disse infine, incerta. Erik non vide alcuna ragione di negare l’evidenza: “Sì. Ma ne è passata di acqua sotto i ponti”.
“La riaccogliereste, se tornasse e vi dichiarasse amore?”
Rimase spiazzato. Era un qualcosa che non aveva mai preso in considerazione, un’eventualità che s’era proibito di formulare i primi mesi, quando il ricordo di lei era una presenza perpetua e molesta e vagava smarrito in abissi di sofferenza e di furia. Messo davanti ad un’ipotesi così bizzarra e inverificabile, si trovò nell’incapacità di fronteggiarla. Non amava più Christine, ma rammentava tutto, ogni cosa, ogni momento trascorso insieme, ogni canzone o bacio negato…se fosse tornata a bussare alla sua porta, implorando il suo perdono e la sua protezione, chiedendogli tra i singhiozzi d’essere nuovamente il suo buon Angelo della Musica…che cosa avrebbe fatto? Le avrebbe sbattuto la porta in faccia, tenendo fede ai progressi fatti in quei mesi, o il suo cuore avrebbe ceduto alle suppliche del suo antico amore, ritrovando nel suo pentimento un poco di calore e di gioia?
Lo ignorava. Erano cambiate tante cose, soprattutto recentemente, ma Christine era Christine, e faticava ad immaginarsi mentre opponeva un deciso rifiuto alle sue preghiere e voltava le spalle al suo dolce volto rigato di lacrime e alla sua voce cristallina spezzata dai singhiozzi.
Vivian parve intuire la lotta interiore che stava infuriando dentro di lui e chinò bruscamente il capo. Una frazione di secondo prima che lo facesse, tuttavia, Erik riuscì a cogliere un’espressione addolorata dipintasi repentinamente sui suoi tratti, e non se la seppe bene spiegare. Cosa importava a quella ragazza dei suoi intrecci amorosi con Christine Daaé? E cosa la disturbava tanto di quella faccenda?
“Non sono mai stata innamorata” la confessione, totalmente fuori luogo, venne pronunciata con semplicità, senza rimpianto né invidia, da una Vivian ancora a capo chino. Con l’indice, si mise a tracciare linee oblique sul cuscino che le era più prossimo. Erik, stupito dalla frase, finì per rispondere con un asciutto: “Buon per voi”.
Avrebbe voluto aggiungere che l’amore altro non era che un modo più elegante di chiamare la lussuria, una bugia raccontata dagli uomini per spargere un alone di falsa bontà su una razza crudele, egoista e votata al male, che non portava altro che dolore, umiliazione e follia, che la sua esperienza era stata negativa in tutto e per tutto, malgrado al principio le cose paressero tanto splendide e irripetibili, ma si frenò. Tutti avevano diritto ad amare, o almeno a convincersi di amare, specialmente all’età di Vivian, e non voleva negarle un qualcosa di tanto naturale solo perché in futuro sarebbe rimasta sicuramente delusa. Ella era ancora giovane, ancora inconsapevole della malvagità intrinseca alla natura umana, non meritava di aprire gli occhi così presto, di perdere fiducia nei sentimenti sulla soglia dell’età adulta. A meno che, forse, non avesse capito tutto quanto da sola, dopo la tentata violenza che aveva subito nella cappella. Al ricordo del suo corpo bianco e vulnerabile che si contorceva invano nella stretta brutale del giovanotto e della sua testa che picchiava forte sul pavimento, l’uomo si conficcò le unghie nella carne. Se avesse ripescato quel bamboccio arrogante a girovagare nel suo teatro, l’avrebbe fatto pentire di ogni singola stilla di sofferenza inflitta alla sua ospite. E, peraltro, ne avrebbe avuto tutto il diritto; ella stessa aveva affermato d’essere divenuta la sua protetta.
“È strano” sussurrò lei, persa. Erik si distrasse dai suoi progetti vendicativi e la guardò, accorato. Per la prima volta, dopo aver ripensato all’aggressione da lei subita, incominciava a osservarla con occhi protettivi: “Cosa?”
“Che io non sia mai stata innamorata. Neanche da piccola. Neanche nella pubescenza, quando di solito nascono le prime infatuazioni. Forse è stato il mio modo di reagire alla situazione dei miei” sembrava quasi che la giovane parlasse a se stessa: “Mia madre era la contessina Amélie de Bougainville. Oltre alla cospicua dote che i genitori le avevano attribuito, era famosa a causa del canto e compariva a tutti i balli e i ricevimenti più importanti, passando da un uomo all’altro, da una civetteria all’altra, senza mai compromettersi. S’innamorava e si disamorava con la stessa velocità con cui una bettola si riempie di clienti la sera e viveva di passione, di nuove esperienze e di divertimenti trasgressivi. Ma che cosa le ha portato, la sua propensione a correr dietro agli uomini? Il disonore, il disprezzo dei suoi, la perdita della dote, della carriera e del suo titolo. A ventisei anni, non era nessuno. La moglie di un ubriacone, incinta prima delle nozze e solita lanciare sguardi cupidi a qualsiasi uomo incontrasse persino quando passeggiava con il marito. Basandomi sulla sua esperienza, pensavo che l’amore fosse una beffa, un compromesso, una trappola addobbata di false meraviglie…e non volevo concedere a nessuno potere su di me”.
“Avete agito saggiamente” replicò Erik, colpito dalla straordinaria maturità della ragazza: “Quando doni il tuo cuore a qualcuno, è quasi scontato che egli lo calpesterà, negandogli per sempre la possibilità di tornare intero”.
Gli occhi di lei si alzarono di scatto: “Ma non deve essere per forza così”.  
L’uomo alzò un sopracciglio: “Prego?”
“Pensavo…deve esistere il vero amore. Per quanto sciocco o infantile possa sembrare. Deve succedere prima o poi che un unico uomo incontri l’unica donna a cui è destinato, e che stabiliscano un rapporto equo, dando amore e ricevendo amore”.
Forse non era così matura come aveva pensato poco prima. Il vero amore era la favoletta in cui credevano i bambini che leggevano le fiabe di Perrault, privi della consapevolezza necessaria a vedere oltre la superficie e a cogliere i particolari che persino nelle favole rendevano palese l’assenza di una simile utopia. Nessuno aveva mai scoperto il seguito di tali storie, nessuno si era soffermato ad immaginare come sarebbero proseguiti quegli amori che iniziavano e finivano con il primo incontro, il primo bacio, e la successiva e prorompente proposta di matrimonio. Se avessero indagato sulla continuazione delle favole, avrebbero appreso che anche quelle illusioni di amore si sarebbero presto frantumate, lasciando amarezza e rimpianto.
La sua favola con Christine, in cui ella era la principessa dalla voce cristallina e lui l’angelo tenebroso che le prestava aiuto dall’oscurità, ora era verde di marciume e di degrado e aveva perso tutto il suo fascino. Lui era un mostro. E lei una conchiglia graziosa e vuota che cantava le bellezze di altri.
“Quello di cui parlate è solo un sogno, mademoiselle” affermò piano, sorpreso dal proprio tono amaro: “Un’illusione di vetro. Forse esiste un amore del genere, poiché io ho provato qualcosa di assai somigliante, ma non viene mai condiviso da entrambi. Il più delle volte, colui che ne cade vittima resta deluso, poiché i sentimenti dell’altro sono invece lievi e fragili, pronti a volar via alla minima avversità. Sarebbe troppo bello credere in un incontro in cui l’uomo e la donna sono accomunati dallo stesso tipo di amore”.
“Ma dobbiamo crederlo” ribatté lei, scrollando con un gesto deciso la chioma sulla schiena e fissandolo con iridi scintillanti di rabbiosa decisione: “Dobbiamo, o vivere sarebbe inutile!”
Le sorrise tristemente: “Io ci ho creduto, per un poco. Vi sembra la mia una vita utile?”
“Sì. Voi siete il più grande musicista mai esistito al mondo. Potreste sciogliere il cuore dell’umanità con la vostra voce e la vostra destrezza nel mescere le note. Ed è vergognoso, assolutamente ingiusto” mise una particolare enfasi su quell’ultimo aggettivo, rimarcandolo: “Che il vostro aspetto vi impedisca di ottenere la fama che meritereste. Che vi costringa a vivere nella solitudine e nell’isolamento, in questa caverna senza sole, mascherandovi da talpa e celando la vostra vera natura di cigno!”
Erik batté le palpebre. Non c’era neppure un briciolo di falsità nel tono e nell’espressione di Vivian, la sua indignazione era sincera e mentre s’accalorava nel discorso era scattata in piedi, i pugni serrati e le labbra strette, dardeggiando sguardi infuocati per tutta la camera. Un groppo inaspettato gli occluse la gola, un groppo che ricacciò indietro con fatica, sentendo di colpo il peso della sua esistenza ingrata e infelice, il dolore delle mille delusioni che gli erano ricadute addosso gravargli sulle spalle e schiacciarlo al suolo. Se avesse cercato a fondo dentro di sé, forse avrebbe trovato lacrime perdute dopo che Christine era scomparsa e avrebbe pianto di fronte agli occhi solenni e rispettosi della sua ospite, ma l’orgoglio si oppose e si limitò a bisbigliare: “Lo pensate sul serio?”
Lei sollevò la testa, fiera: “Certo. Io vi rispetto e vi ammiro, monsieur. E non provo alcun fastidio guardandovi. Quelle piaghe…sono parte di voi, vi completano e vi rendono quel che siete, vi condannano, ma vi fanno diverso da qualsiasi altra creatura. E la diversità, si sa, esige sempre un prezzo. Ma voi l’avete pagato. Non dovreste portare quella maschera. Non dovreste nascondervi per paura del giudizio di una massa di idioti pregiudicati. Sappiate che con me non avrete mai motivo di coprirvi. Anzi, se anche voi mi rispettate, vi prego di girare a volto scoperto”.
Lui distolse bruscamente il viso, girandolo di lato e fissando la parete con la vista appannata e offuscata. Aveva la sensazione che nel suo cuore si fosse liberato qualcosa, che un nodo si fosse sciolto, restituendogli parte dell’ardore e della leggerezza che l’abbandono di Christine aveva estirpato. Per la prima volta da mesi, si sentiva vivo, si sentiva umano, e sapeva che ciò non andava bene, che se voleva farsi fantasma doveva liberarsi anche dai sentimenti, ma nessuno gli aveva mai detto cose simili, neanche Madame Giry, e non credeva che sarebbe riuscito a sopportare tutto quanto. La sua spalla era rotta, ferita, l’aveva intuito malgrado quel discorso fosse ormai caduto da tempo, ma non tenne minimamente conto di quel particolare e disse parole che giungevano dal centro della sua anima nera di rancore e di peccati: “Io vi aiuterò a rendere significativa la vostra canzone, mademoiselle. Farò in modo che il vostro messaggio giunga al mondo e che in tal modo anche un po’ del mio riesca ad uscire da queste mura. Trasformeremo la vostra creazione in qualcosa di…vero”.
Il volto di lei tremò, trasfigurato da una mescolanza di emozione e di stupore. Le maschere di entrambi erano cadute, s’erano mostrati per quel che erano veramente, e quel patto solenne e commosso era ben più importante dell’accordo stipulato accanto al pianoforte, poiché era sentito in egual misura, in egual misura avrebbe portato sforzo, ma un finale beneficio.
“Grazie” gli fece eco dopo essersi ripresa, un tremito nella voce sicura: “Ma ti prego, dammi del tu…e chiamami Vivian”.
Erik parlò prima che la sua mente razionale e algida potesse fermarlo, prima che la sua vera maschera tornasse ad occultare quell’improvviso sgorgare di emozioni e di parole: “Io sono Erik”.
La ragazza lo guardò, spaventata e colpita.
Le aveva rivelato il suo nome…la sua identità umana.

 
  
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