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Autore: Aurora_Salinas    17/02/2012    0 recensioni
Questa è la storia semplice di un amore che nasce, cresce, si consuma, si corrompe, cede, riprende fiato in un'altalena di sensazioni ed emozioni che seguono le curve della vita, nel corso degli anni. Questa è la storia semplice di Guido e Benedetta nel tempo che li ha visti crescere e cambiare, trasformarsi, diventare adulti attraverso la gioia e il dolore, dai banchi della scuola elementare agli esami dell'università, tra musica condivisa, notti in bianco, amici persi e ritrovati. Questa è la storia semplice di ognuno di noi, di quando ci siamo innamorati per la prima volta e, anche solo per un attimo, abbiamo creduto fosse per sempre.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il lampo spezzò il cielo con la violenza di un grido. L’elettricità possedeva l’aria e non si potevano più distinguere i contorni delle nuvole: tutto era scuro, di quel grigio polvere che fa pizzicare il naso a guardarlo. E faceva freddo. Agosto sembrava inverno, mentre cambiava volto nel turbinare del vento e nel sorriso delle signore che chiudevano le persiane, con malinconia, come se avessero già avvertito, nel profumo della pioggia che veniva, un vago sentore d’autunno.
Guido non aveva il coraggio di correre, chissà perché. Si sentiva come se tutta quell’elettricità che ammorbava l’aria fosse uscita da lui, lasciandolo orfano di ogni forza vitale. Camminava lentamente, infilando un passo dietro l’altro con un’attenzione particolare, come se stesse realizzando una collana con quelle belle perline di legno che comprava sua madre. Lei creava gioielli. E le piaceva tanto quel verbo, “creare”, perché era l’unico verbo in grado di avvicinare l’uomo a dio, diceva lei. Si chiamava Eugenia, che in una qualche lingua antica significava “ben nata” o qualcosa del genere, ma Guido non ricordava con esattezza. Lui si chiamava così perché era nato in una notte di tempesta, con tutta quella pioggia che si spezzava contro i vetri, urlando, e tutto quel vento che, chissà, forse somigliava a quello che adesso infuriava tra le strade. E in quella notte di pioggia di otto anni addietro, sua madre e suo padre erano saliti in macchina quando tutti gli altri erano ben chiusi in casa, nascosti dai mattoni e dalle porte e dai vetri delle finestre. Loro avevano sfidato la strada a luce spenta, nel buio della tempesta, con i lampioni che funzionavano uno sì e l’altro no, e il vento che faceva sbandare la macchina. La mamma lo ripeteva sempre, “siamo arrivati in ospedale solo grazie a dio”. Parlava sempre di dio, la mamma, come se fosse il suo migliore amico o qualcosa del genere. Guido non capiva come si potesse avere una cosa invisibile per migliore amico. Certo, anche lui aveva un amico immaginario, ma si chiamava Marco e non aveva la presunzione di credersi dio.
Insomma, quella notte erano arrivati in ospedale solo grazie “alla guida di dio”, sempre secondo la mamma, e per questo Guido si era chiamato Guido e non Mario o Andrea o chissà quale altro nome. A Guido piaceva il nome Guido perché lo faceva sentire a casa. Era un nome nel quale sentirsi al sicuro, e starci comodi.
La pioggia stava arrivando. La sentiva. Ed era convinto di averla sentita anche in quel lontano giorno del 1992, quando era nella pancia della mamma ma già premeva per uscire. Forse per questo amava la tempesta, soprattutto quando veniva in agosto. O meglio, amava il “momento prima”: quell’insieme di istanti carichi d’elettricità che anticipano la furia e se ne stanno lì, zitti zitti, in successione. Fotografie di un’ultima quiete.
“Ehi! Ehi aspetta!”
Guido neanche si voltò, quando udì quella vocina pigolare. Aveva fretta d’andare a casa e non voleva seccature. E poi, quella era la voce di una bambina, e le bambine erano rognose. Portavano sempre guai, le bambine. L’aveva capito in prima elementare, quando aveva cercato di stringere amicizia con la figlia del bidello e i suoi compagni di classe l’avevano preso in giro per mesi, dicendo che anche lui sarebbe finito a “pulire i cessi”, letteralmente. Da quel momento, non aveva più voluto stringere amicizia con le bambine.
“Ehi! Bimbo! Aspetta!”
Oh madonna. Guido sbuffò, seccato, e si decise a voltarsi. E la vide. Era così piccola che l’avresti potuta schiacciare come una coccinella, sotto le scarpe. E somigliava un po’ a una coccinella, in effetti, con quel vestitino rosso a pois.
“Che vuoi?” le domandò, scontroso, senza fermarsi del tutto. Continuava a spostare il peso da un piede all’altro rimanendo sul posto, come per dimostrare che aveva fretta e che non voleva essere scocciato.
“Torniamo insieme? Ho paura.” disse lei, con quella vocina che era così sottile e acuta da risultare fastidiosa. Era uno spillo nell’orecchio, quella voce.
“Non gridare, ti sento. Io non ti accompagno, eh? Voglio andare a casa presto.”
“Ma casa mia è proprio di fronte alla tua!”
Guido corrugò la fronte, perplesso.
“E tu come lo sai?” le chiese.
In quel momento, un tuono terribile rotolò per la strada e s’infranse contro i muri di tutte le case, contemporaneamente.
La bambina si coprì le orecchie con le mani, e gli occhi le si riempirono di lacrime.
“Tu come lo sai?” insistette Guido, stringendo i pugni sui fianchi in atteggiamento di sfida.
“Ti vedo tutti i giorni, dalla finestra. Giochi con le biglie, e poi ti cadono sempre nei tombini.”
La voce della piccola tremava dallo spavento, mentre l’eco del tuono si sparpagliava su tutte le cose, vibrando.
“Va bene, ti credo. E perché stai qui tutta sola? I tuoi genitori ti fanno uscire da sola anche se sei così piccola?” chiese Guido, sinceramente incuriosito.
La bambina assunse un’espressione corrucciata, quasi offesa.
“Non sono piccola! Ho otto anni!”
Guido non poté trattenere una risata.
“Abbiamo la stessa età, però io non ho paura e tu invece sì!” e rise, spavaldo, mentre un nuovo tuono veniva, ancora più forte di quello che l’aveva preceduto, e faceva tremare le parole e i pensieri.
Il vento bombava il caschetto nero della bambina, la faceva sembrare un disegno da manga giapponese.
“Mamma è a casa con la febbre, e io dovevo comprarle il miele.” spiegò, con quella vocina lì che tremava e che dava proprio sui nervi, a sentirla, e sollevò un sacchetto di carta dell’erboristeria.
“E il tuo papà? Dov’è?”
“Lavora. E tu perché sei solo?”
Guido si strinse nelle spalle, con aria di superiorità.
“Io non ho bisogno di nessuno.” rispose, sicuro di sé.
E venne la pioggia, con la furia improvvisa di tutte le cose che hanno aspettato tanto, prima di venire, e che arrivano poi così quando meno te l’aspetti.
“Mamma!” urlò la bambina, senza più riuscire a controllare il terrore che, almeno sino a quel momento, aveva più o meno contenuto.
Guido fingeva di essere tranquillo ma qualcosa, sotto la pelle, formicolava e faceva quasi male. Era una sensazione che molti avrebbero definito “paura”, ma lui non voleva darle un nome. Non voleva sentirsi debole. E poi, adesso aveva qualcuno da proteggere.
“Vieni con me.” disse, con fare protettivo, porgendo la mano alla bambina ormai in lacrime.
Lei non si mosse.
“Come ti chiami?” le chiese allora, con la voce più dolce che potesse modulare.
“Benedetta.” disse lei in un soffio, e glielo dovette ripetere tre volte perché lui non sentiva, nel fragore della pioggia.
E Guido pensò che quel nome sarebbe piaciuto tanto a sua madre. “Benedetta da dio”, avrebbe detto, senza ombra di dubbio.
“Posso chiamarti Benny?”
“No. Mi dà di coniglio.”
“Coniglio si dice Bunny, non Benny. Me lo ricordo bene perché abbiamo imparato a memoria una canzone, a scuola, e...”
“E’ uguale. Io mi chiamo Benedetta.”
“Benedetta.”
“Benedetta.”
“Okay. Adesso mi dai la mano?”
Lei gli porse un pugnetto stretto stretto che sembrava un gomitolo, tutto bagnato di pioggia, e lui lo strinse.
“Ti porto a casa. Dimmi bene dov’è.”
S’incamminarono, insieme. I passi erano pesanti. Lasciavano impronte sull’asfalto.

  
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