Capitolo 19
Lentamente
ripresi in mano le redini della mia vita.
Tornai a scuola, nonostante le evidenti difficoltà che
dovevo affrontare per recuperare la parte del programma che avevo
perso, e promisi a me stessa che, scoppiasse la dimensione in cui mi
trovavo, avrei passato l’anno scolastico.
Tutte le volte che lo studio me lo permetteva tornavo
nell’altra dimensione per stare vicina alle persone che
attendevano per il loro ritorno a casa e per verificare come
procedevano i lavori per la costruzione dell’edificio che
sarebbe diventato l’aeroporto dimensionale, del quale ci
sarebbe stata l’inaugurazione tra poche settimane.
A
questo proposito mi resi conto che serviva uno spazio non solo per la
partenza, ma anche per l’atterraggio
nell’altra dimensione, quindi io e i miei genitori ci
impegnammo a cercare il posto adatto, fino a quando non decidemmo di
utilizzare la nostra cantina, nella quale iniziammo a fare una
ristrutturazione totale, creando anche un tunnel – proprio
ciò che odiavo – per far sbucare le persone
teletrasportate nella metropolitana, un luogo piuttosto affollato nel
quale nessuno si sarebbe mai accorto di nulla. Da lì, poi,
sarebbero tornati a casa da soli.
Sapevo
fin da subito che il lavoro da fare sarebbe stato tanto e molto
dispendioso d’energie, almeno fino a quando non mi fossi
abituata del tutto a teletrasportare molte persone per più
volte al giorno, ma non avevo paura e non mi sarei tirata indietro per
nessun motivo al mondo.
Oltre
a tutti questi impegni, feci di tutto per vedere più o meno
regolarmente Nick, il quale, assieme ai suoi fratelli, era stato quasi
rinchiuso nello studio di registrazione dalla sua casa discografica,
per scrivere le canzoni del nuovo album, che sarebbe uscito in
contemporanea al loro ritorno sulla scena musicale, fino ad allora
rimasto segreto.
Aveva davvero pochissimo tempo libero, come sua madre mi aveva
preannunciato, ma grazie al mio dono – che non mi era mai
sembrato così utile – riuscivo a passare un
po’ di tempo con lui quasi ogni sera, prima che si
addormentasse come un sasso con la testa sulla mia spalla, mentre ci
raccontavamo le nostre giornate.
Era
davvero dura tener fede a tutti gli impegni presi e non demoralizzarsi
vivendo una relazione così influenzata dal lavoro di Nick,
ma la mia determinazione era tanta e l’amore per Nick ancora
maggiore. Ci stavamo impegnando, anche opponendoci contro tutti coloro
che potevano ostacolarci, e ci stavamo riuscendo perfettamente.
Per esempio, quando Nick riuscì ad ottenere un giorno libero
dalla casa discografica non ci pensò due volte a passarlo
con me.
Arrivò
a casa mia quasi all’improvviso, senza nemmeno darmi il tempo
di capire cosa stesse succedendo mi avvicinò al viso due
biglietti e, prendendoli fra le mani, mi accorsi che –
purtroppo per me – non si era dimenticato della promessa
fatta.
«Due
biglietti per la partita degli Yankees», esclamai senza
troppa convinzione. Mi ripresi velocemente, per paura di veder
scomparire quel bellissimo sorriso dal suo volto, e provai a mostrarmi
al settimo cielo.
«Wow, è fantastico! Ma come hai fatto a trovarli,
avevo sentito che erano quasi finiti tutti!».
«Un
modo io lo trovo sempre», mi sussurrò
all’orecchio con tono suadente, facendomi avvampare.
«Che
cosa, tesoro?», mi domandò mia madre dal tavolo
della cucina, dove stava ricontrollando gli articoli che avrebbe
pubblicato sul giornale per cui lavorava.
«Vado
con Nick a vedere la partita degli Yankees!», gridai di
rimando, sperando ardentemente che non dicesse qualche cavolata che
avrebbe compromesso tutto.
Ovviamente, nessuno ascoltò le mie preghiere silenziose.
«Tesoro,
ma tu hai sempre detto che…».
«Che
non vedevo l’ora di andare a vedere gli Yankees con
Nick!», gridai più forte per sovrastare la sua
voce, girandomi e guardandola in modo eloquente.
«Oh
sì, puoi scommetterci», disse allora, per poi
tornare a guardare i propri scarabocchi, borbottando tra sé.
Mi
voltai di nuovo verso Nick e gli sorrisi smagliante. «Vado a
cambiarmi, ci metto due secondi. Aspettami qui».
Corsi
su in camera mia, mi misi le mani nei capelli e poi sospirai per
calmarmi: infondo avrei passato un’intera giornata con Nick,
non sarebbe stata poi la fine del mondo se da qualche altra parte o ad
una partita di baseball!
Mi
cambiai in fretta, arraffai la prima borsa che mi capitò
sotto il naso e la riempii con le cose essenziali, poi galoppai
giù dalle scale, sorridendo a Nick che mi aspettava seduto
sul divano.
Sperai che, una volta rimasta sola, mia madre non avesse rovinato
tutto, ma dalla sua espressione non riuscii a capirlo e continuai nella
mia farsa a fin di bene.
«Sono
pronta!».
Uscimmo
di casa e Nick mi aprì la portiera come un vero cavaliere,
io entrai in auto e lo vidi mentre faceva il giro per mettersi al posto
di guida. Nel frattempo guardai i biglietti che ancora stringevo in
mano e mi accorsi che aveva preso i posti migliori, a pochissimi metri
dal campo.
«Ti
saranno costati una fortuna», biascicai, guardandolo con la
coda dell’occhio.
«No,
io sono abbonato, ho lo sconto!».
«Oh…»,
mi portai una mano di fronte alla bocca e scoppiai a ridere.
«Certo, avrei dovuto immaginarlo».
In
quei mesi passare del tempo con lui era diventato così raro
che solo stare in auto insieme, a cantare a squarciagola le canzoni che
passavano alla radio, era già fantastico ai miei occhi.
Tanto che non pensai più a dove eravamo diretti e per un
po’ mi dimenticai del baseball, godendomi semplicemente quel
momento.
Quando
arrivammo, fu quasi uno shock. Quasi,
perché Nick non mi diede nemmeno il tempo per capire come mi
sentissi al solo pensiero che avrei dovuto fingere di divertirmi e di
capirci qualcosa: mi prese semplicemente per mano e mi
trascinò dentro lo stadio in cui si sarebbe svolto
l’incontro.
Mi fece sedere al mio posto e subito se ne andò per comprare
da bere e da mangiare, dicendomi che non aveva voglia di aspettare
l’omino dei panini, come lo chiamava lui. Così
rimasi sola, seduta così vicina al campo da sembrare di
esserci finita dentro e da aver paura che una palla da baseball mi
arrivasse dritta in faccia.
Sentii delle voci sotto di me e mi alzai per vedere come fosse
possibile, solo allora mi resi conto che eravamo proprio sopra la
panchina degli Yankees!
«Oh
mio Dio, altro che marito ossessionato! È pazzo,
è pazzo», dissi a mezza voce, sbalordita.
Quando
tornò con un paio di sandwich e due bibite, lo guardai fisso
negli occhi con la forte tentazione di dirgli in faccia quello che
avevo pensato, ma ancora una volta il suo sorriso mi impedì
di farlo.
Così gli presi dalle mani il mio panino e la mia lattina di
aranciata e scalai di un posto per farlo sedere.
La
partita ebbe inizio una decina di minuti dopo e quando Nick vide i
giocatori degli Yankees correre verso il diamante e posizionarsi, si
alzò in piedi ed iniziò ad incitarli. Io, rossa
di imbarazzo per le persone dietro di noi, lo presi per un braccio e
con la forza lo feci sedere di nuovo al suo posto.
Nick all’inizio mi guardò contrariato, poi
ridacchiò e mi strinse in un abbraccio inaspettato.
«Sono
così felice di essere qui con te…», mi
disse e mi prese il volto fra le mani per guardarmi negli occhi, poi
tirò fuori un cappellino dallo zainetto che si era portato
dietro. Feci solo in tempo a vederne il colore e il famosissimo simbolo
bianco in rilievo – le iniziali dei NY Yankees –
perché me lo mise subito in testa, per poi soffermarsi a
guardare come mi stava.
«Ti
dona! Il blu è il tuo colore!»,
esclamò, poi tutto felice si voltò a vedere la
sua squadra del cuore che, essendo fuori casa, aveva la
possibilità di attaccare per prima e quindi di giocare il
primo inning.
Durante
tutto il corso della partita, Nick si soffermò spesso a
spiegarmi tutto ciò che accadeva in campo ed ad elencarmi
ogni ruolo dei giocatori, anche se io non gli chiedevo mai niente.
Pian piano iniziai ad appassionarmi io stessa, a fargli le domande
più strane che mi venissero in mente, ma lui rispondeva
sempre sorridendo. Con il suo entusiasmo riuscì persino a
farmi pregare che gli avversari sbagliassero il tiro o venissero
eliminati e a farmi scattare in piedi come una molla insieme a lui
quando gli Yankees vincevano un inning.
Il suo era stato un vero e proprio miracolo: mai e poi mai avrei
pensato che sarebbe riuscito a farmi piacere il baseball!
Quando
la partita terminò, uscimmo dallo stadio ancora euforici per
la vittoria dei nostri
beniamini, ricordandoci ancora tutti i colpi che erano riusciti a fare,
tra cui ben quattro fuoricampo.
«Grazie
per essere venuta con me», disse Nick una volta seduto al
volante, con una mano sulle chiavi nel cruscotto e gli occhi fissi nei
miei. Stavo per rispondergli dicendo che era stato un piacere, che mi
ero divertita tantissimo, ma lui non mi lasciò nemmeno
iniziare e aggiunse: «Nonostante il baseball non ti
piaccia».
Sgranai
gli occhi ed ebbi paura che il mento mi fosse finito in grembo,
talmente tanta era stata la sorpresa. «E tu… tu
come fai a saperlo?», balbettai.
Nick
accennò un sorriso. «L’ho capito subito,
dalla prima volta in cui ne abbiamo parlato. Avrei voluto dirtelo, ma
tu recitavi così bene che mi sembrava un peccato
interromperti!».
Abbassai
lo sguardo, unendo le mani sulle gambe. «Mi
dispiace», mugugnai, davvero mortificata.
«È che a te il baseball piace così
tanto… non volevo farti rimanere male, così mi
sono detta che una piccola bugia a fin di bene non avrebbe fatto male a
nessuno, ma poi le cose mi sono sfuggite di mano
e…».
Nick
però si lasciò andare ad una leggera risata.
«Amore, non sono arrabbiato. L’ho capito subito che
non avevi cattive intenzioni e devo dire che mi sono anche divertito
guardandoti nei panni di una tifosa!».
«Pff,
simpaticone», gli tirai un pugnetto sulla spalla e risi anche
io. «So che me ne pentirò, ma… non ho
finto per tutto il tempo, oggi. Il baseball non è poi tanto
male, anzi… mi sono divertita davvero! E il merito
è tutto tuo».
Il
sorriso di Nick si allargò a dismisura e mi
attirò a sé per baciarmi sulle labbra.
«Allora per Natale regalo l’abbonamento anche a
te!».
«Non
ci provare, Nicholas Jerry Jonas!», gridai, col viso
paonazzo. Lui rise e rimase lì per un po’,
appoggiato con il mento alla mia spalla. Sentivo il suo respiro fra i
capelli, sulla pelle del collo, e pensai che lui era la cosa
più bella che mi fosse mai capitata.
«Resti
a cena da me?», gli domandai in un sussurro.
«Se
non sono di disturbo…».
«Questo
mai».
***
Il
Natale fu alle porte in modo quasi inaspettato, un po’
perché quei mesi impegnativi e difficili volarono e un
po’ perché il clima della cittadina in cui vivevo
e della villa Jonas sul promontorio a picco sul mare
nell’altra dimensione non mi facevano ricordare per nulla il
Natale, che dalla mia smisurata passione per i film lo collegavo sempre
a un clima rigido e alla neve.
La
mia famiglia fu invitata a casa dei Jonas per la cena della Vigilia di
Natale e in teoria sarebbe dovuta venire anche la famiglia di Ale, ma
alla fine venne soltanto lei perché gli altri avevano
già accettato di andare alla cena organizzata dai suoi
nonni, con cui la mia migliore amica non aveva proprio buoni rapporti
per un motivo che non avevo mai saputo.
Sta
di fatto che ci trovammo tutti ad Hollywood, nell’enorme
villa dei genitori di Nick, Joe e Kevin, e purtroppo venni a sapere che
i Jonas Brothers sarebbero arrivati leggermente in ritardo
perché si erano dovuti fermare più del previsto
allo studio di registrazione.
Seduta
in uno dei due bovindi presenti sulla facciata della villa, nella
speranza di vedere i fari della loro auto illuminare il vialetto fino
al garage, ancora mi chiedevo perché dovevano lavorare anche
la Vigilia di Natale. Mi era quasi inconcepibile.
Intanto
ascoltavo la musica con le cuffiette dell’mp3 nelle orecchie.
Mi piaceva lasciarmi cullare dalla voce di Nick quando lui non era con
me. Le canzoni in cui lui cantava da solo, quelle con un tono
più blues, mi piacevano di più, ma questo non
l’avrei mai detto agli altri due Jonas: si sarebbero offesi a
morte!
Nick era così trasparente per quanto riguardava le emozioni
e soprattutto nelle sue canzoni esse si potevano leggere come fossero
state scritte sotto ogni nota. Per esempio sapevo che tra le canzoni
che amavo di più ce n’era qualcuna che era stata
scritta e dedicata a suo tempo a delle ragazze che erano venute
evidentemente prima di me, ma non mi importava: ascoltare quelle
canzoni era un piacere, perché potevo guardare ed immergermi
direttamente nell’anima di Nick.
Ale
mi vide seduta lì da sola, con un’espressione
demoralizzata e triste sul viso, e corse a tirarmi su di morale. Non so
come sperasse di riuscirci, visto che strappandomi una cuffia
dall’orecchio aveva commesso un atto punibile con
l’abbandono in un’altra dimensione, ma si sarebbe
inventata sicuramente qualcosa.
«Su
col morale, è Natale!», mi strillò
nell’orecchio, per poi sedersi al mio fianco con un visetto
angelico che non la rappresentava per niente.
«Vorrei
soltanto che fossero già qui», borbottai.
«Anche
io, cosa credi! Solo che non faccio la depressa come te! Se Nick ti
vedesse così preferirebbe di gran lunga tornare in
studio!».
Riuscì
a farmi scappare una risata e mentalmente la ringraziai per questo.
Senza di lei come avrei fatto?
Sentii
il cellulare vibrarmi tra le dita e il cuore cominciò a
pomparmi più velocemente il sangue nelle vene, facendomi
quasi venire caldo.
«È
Nick?», mi domandò Ale. «Ti si sono
illuminati gli occhi all’improvviso!».
«Sì,
è lui», risposi raggiante. «Gli avevo
detto di farmi uno squillo quando era qua vicino».
«Bene,
allora è fatta! Finalmente si mangia!».
Come
faceva a pensare al cibo? Solo all’idea di vedere Nick a me
si era chiuso lo stomaco, già stracolmo di farfalline!
Ale
alitò sul vetro della finestra alle sue spalle e con il dito
disegnò un cuore, dentro il quale poi comparvero le luci dei
fari che avevo sperato di vedere fino a qualche minuto prima. Erano
arrivati!
Mi
alzai e di corsa raggiunsi la parte opposta del salotto, da cui potevo
vedere l’ingresso, stando attenta a non inciampare nel mio
vestito verde, lo stesso che avevo messo per gioco la prima volta che
mi ero ritrovata rinchiusa nella villa dei Jonas, che avevo indossato
alla festa organizzata da Charlotte e le altre due cheerleader e che
non avevo proprio potuto fare a meno di portare nella mia dimensione:
ormai ci ero fin troppo affezionata e sapevo che anche Nick vi era
legato, tanto che avevo pensato di indossarlo di nuovo per fargli una
sorpresa. Infondo sarebbe stato il nostro primo Natale
insieme… doveva essere speciale.
Sentii
i loro genitori accoglierli appena entrati, sentii anche Ale e mio
fratello salutarli, e infine sentii Nick che chiedeva: «Ma
Ary dov’è?».
Abbassai
lo sguardo, trovando molto interessanti le mie mani che tremavano
leggermente sui ricami floreali color argento del corpetto. Quando ebbi
la forza di risollevarlo, incontrai subito quello di Nick, che si
teneva con una mano alla parete, sulla soglia del salotto. Riconobbi
quella sua espressione vagamente stupita e finalmente sorrisi,
sistemandomi il ciuffo di capelli bianchi dietro l’orecchio.
Nick
mi venne vicino e mi prese le mani nelle sue fredde, portandosele sul
petto. Non aveva mai smesso di fissarmi negli occhi e pensai che se
avesse continuato così sarei morta entro la fine di quella
serata.
«Sei
bellissima», mi sussurrò, ancora un po’
spaesato.
Ridacchiai
e gli passai una mano fra i capelli ricci, scostandoglieli dalla
fronte. «Tu lo sei sempre, anche quando lavori
troppo».
«È
colpa tua se lavoro troppo, sai?».
«Mia?
Che cosa c’entro io?».
«Penso
sempre a te, in ogni minuto, in ogni secondo, e non riesco mai a
concentrarmi abbastanza. Dobbiamo sempre registrare una decina di volte
prima che venga bene».
Gli
posai l’indice sulla punta del naso e scossi il capo
lievemente. «Vorresti per caso che ti consoli?».
«No»,
appoggiò la fronte alla mia. «Io amo pensarti,
anche se questo va a discapito del mio lavoro… in un certo
senso».
Corrugai
la fronte. «Che cosa vuoi dire?».
«Lo
scoprirai quando uscirà il nuovo album».
Detto questo, finalmente mi baciò, posando le mani sulla mia
schiena e spingendomi contro il suo petto.
«Piccioncini,
quando siete pronti eh!», gridò Ale
dall’enorme cucina, dove si erano riuniti già
tutti per iniziare quella benedetta cena.
«Sarà
meglio andare», gli dissi ridacchiando, accarezzandogli le
labbra con due dita.
«Va
bene, ma dopo riprendiamo da dove siamo rimasti», mi
sussurrò all’orecchio, dandomi poi un bacio sul
collo.
La
cena andò benissimo, la mia famiglia e quella dei Jonas, per
quanto fossero diverse per stili di vita ed abitudini, avevano subito
fatto amicizia, tanto che per esempio mio fratello e Frankie, il
più giovane dei Jonas, non facevano altro che parlare e
discutere di videogiochi.
Dovetti anche fare i complimenti a Denise, perché non avevo
mai mangiato così bene in vita mia. Ovviamente questo non
glielo dissi davanti a tutti, perché sapevo che mia madre
altrimenti si sarebbe offesa a morte e, poverina, le avrei dato
ragione! Ma se io ero così imbranata in cucina, dovevo pur
aver preso da qualcuno…
Quando
finimmo di cenare, ci spostammo tutti in salotto ad aspettare la
mezzanotte per andare alla Messa di Natale.
Raggiunsi
Ale e Joe che si erano seduti sul tappeto, proprio accanto al grande
albero di Natale pieno di luci, e feci segno a Nick di mettersi vicino
a noi, ma lui mi sorrise e indicò la cucina con un cenno del
capo, dicendo: «Torno subito».
Sapevo
cosa doveva fare e, anche se un po’ riluttante, mi alzai per
seguirlo. Lo trovai seduto al tavolo, sparecchiato da una parte per
permettergli di fare più comodamente
quell’operazione che mi metteva sempre un sacco
d’ansia. Sua madre era seduta al suo fianco e sembrava
tranquilla quanto lui.
Mi avvicinai e gli posai una mano sulla spalla.
«Ehi,
c’è qualcosa che non va?», mi chiese,
vedendomi così pallida e preoccupata.
«No,
niente… voglio vedere».
Nick
accennò un sorriso divertito. «Non scherzare Ary,
non hai mai voluto vedere perché ti impressioni…
Guarda, anche adesso, sembra che tu debba svenire da un momento
all’altro e non ho ancora fatto niente!».
«Lo
so, ma… voglio superare questa cosa, perché,
insomma… fa parte della tua vita e voglio starti
vicino».
Con
la coda dell’occhio vidi sua madre sorridere addolcita con le
mani sulle labbra, poi si alzò e mi indicò il suo
posto.
«Lo lascio nelle tue mani, allora».
Annuii,
anche se stavo tremando.
Mi sedetti al suo fianco e guardai sua madre uscire dalla cucina,
lasciandoci soli. Posai lo sguardo sul macchinario elettronico che
serviva per controllare il livello glicemico nel sangue, il pungidito
e, nella scatoletta accanto, le siringhe con le dosi di insulina.
Mi portai una mano sulla fronte e lo guardai sconsolata.
«Dev’essere
orribile», mormorai con le lacrime agli occhi.
«Ma
no, non è vero», mi sorrise dolcemente e mi
passò una mano sulla guancia. «È solo
questione di abitudine. Adesso calmati».
Chiusi
gli occhi e respirai profondamente per calmarmi, poi mi concentrai di
nuovo sui vari strumenti di misurazione.
«Vai, sono pronta».
«Mi
prometti di non svenire?».
Annuii, anche se non ero del tutto sicura di riuscire a mantenere
quella promessa.
«Okay,
allora». Nick iniziò, avvicinando
l’indice al pungidito. «Per prima cosa devo
prendere una goccia di sangue». Lo guardai trattenendo il
fiato, ma durò davvero pochissimo e non mi fece vedere
nulla, quando posò quella goccia nel misuratore elettronico.
Dopo qualche secondo sullo schermo comparve un numero e Nick si sporse
verso di me per farmi vedere meglio.
«In
questo caso sono dentro la norma, non ho bisogno di fare
l’iniezione per adesso».
«Okay,
bene», risposi sollevata.
«Sarà
per la prossima volta, così imparerai a farmi
l’iniezione».
Mi
portai di nuovo la mano sulla fronte, sentendo la testa riempirsi
d’aria solo al pensiero. «Una cosa alla
volta».
Nick
ridacchiò e mi posò un bacio sulla fronte.
«Stavo scherzando, amore. Adesso, prendi
quell’agenda nera e la penna che hai di fianco al braccio e
scrivi quello che ti dico io».
Presi
fra le mani l’agendina e la osservai, sfogliandola
velocemente. Riconobbi subito la sua scrittura. Ogni giorno
c’erano scritti numeri simili a quello comparso sullo schermo
del macchinario.
Tolsi il tappo alla penna e in modo ordinato, copiando lo schema che
aveva usato il giorno precedente, annotai i risultati della glicemia
ottenuti e ciò che aveva mangiato in maniera particolare.
«Questo
serve per controllare i cambiamenti della glicemia e, nel caso ci
fossero cose strane, chiamare il diabetologo», mi
spiegò.
«Uhm,
capito».
«Perfetto.
Abbiamo finito, raggiungiamo gli altri».
«Di
già?», domandai stupita.
Lui
ridacchiò. «Di solito è
l’iniezione che porta via un po’ di tempo, ma se si
tratta solo di un controllo è molto veloce. Tu stai
bene?».
«Sì,
tutto a posto. E… grazie».
«E
di che cosa?». Sistemò tutto nella sua valigetta e
mi avvolse un braccio intorno alle spalle, portandomi in salotto dagli
altri.
Aspettammo
tutti insieme la mezzanotte, sfogliando valanghe di album fotografici
dei piccoli Jonas Brothers. Io e Ale fummo sul punto di scoppiare a
ridere o a piangere diverse volte: erano così teneri e dalle
facce simpatiche!
Nick, poi, era qualcosa di spettacolare. Non avevo mai visto un bambino
più bello di lui.
Rimasi
ad osservare una sua foto, doveva avere circa dieci anni, un
po’ più a lungo del previsto e tutti se ne
accorsero.
«Vuoi
voltare pagina o no?», mi domandò Joe, piuttosto
irritato: gli dava fastidio non essere al centro
dell’attenzione come al solito, a quel vanitoso!
«Sì,
io…».
Nick
rise intenerito e mi avvolse il collo con le braccia, baciandomi sui
capelli.
Un
flash mi colpì all’improvviso e sollevando lo
sguardo vidi il padre dei fratelli Jonas munito di macchina fotografica.
Alla mia espressione quasi sconvolta, rispose: «Dovremo pure
completare questo album! Fatene una migliore, quella di prima non credo
sia venuta… bene», ridacchiò ed io
avvampai.
Nick
accostò il viso al mio ed io mi sforzai di sorridere, ma
alla fine fui costretta a farlo perché mi fece il solletico
con la mano posata sul mio fianco. Mi accorsi che anche mentre ridevamo
insieme, minacciandoci con i cuscini del divano, il suo papà
aveva continuato a scattare foto. Ero proprio curiosa di vederle, a
quel punto.
Poi
toccò a Joe ed Ale, che si erano esibiti in un photoshoot di
boccacce, e pose davvero da oscar, e alla fine toccò a Kevin
e Danielle, i due sposini.
L’avevo conosciuta per la prima volta quella sera e a
malapena ci eravamo rivolte la parola, ma da come mi guardava sembrava
che trasudasse gratitudine da tutti i pori, come se le avessi salvato
la vita e fosse in eterno debito con me. Non riuscivo nemmeno
immaginare quanto avesse sofferto quando suo marito – come
suonava strano! – era scomparso e non sapevo se sapesse tutta
la verità, ma non c’era davvero bisogno che mi
ringraziasse e speravo di averglielo fatto capire con un sorriso.
«È
quasi mezzanotte, sarà meglio iniziare ad avviarci verso la
chiesa», disse la madre dei Jonas.
Nick
annuì e si alzò, trascinandomi su con
sé e guardandomi intensamente negli occhi per un attimo. Non
capii ciò che mi volesse dire, ma lo scoprii poco
più tardi, con enorme sorpresa e gioia.
«Prima
di andare, però, vorrei fare una cosa»,
dichiarò. Tutti rimasero sbigottiti a quelle parole e
calò un silenzio di tomba, tanto che mi parve di sentire in
maniera fin troppo forte il cuore battermi nella cassa toracica.
Nick si inginocchiò di fronte a me, tenendomi una mano nella
sua, e con l’altra tirò fuori dalla tasca della
giacca elegante un piccolo cofanetto di velluto blu.
«Arianna
McEagle», disse con voce incerta, anche lui emozionato, ma
sorridente.
Arrossii nel sentir pronunciare il mio cognome da lui – era
così strano! – e il cuore mi batté
ancora più forte nel petto, come se volesse fuggire per
tuffarsi di fianco a quello di Nick.
«Mi vuoi sposare?».
Credetti
di svenire, ma poi mi ricordai quella volta sulla spiaggia, quando per
la prima volta me lo aveva chiesto e io avevo accettato, e mi calmai.
Chiusi gli occhi, mentre un morbido sorriso mi incurvava le labbra
all’insù. Quando li riaprii, lucidi di lacrime, mi
inginocchiai di fronte a lui per incatenare perfettamente lo sguardo al
suo, lasciandolo un po’ sorpreso.
«Ne
sarei onorata», sussurrai, per poi gettargli le braccia al
collo e stringerlo forte.
Lui
incominciò a ridere, come quella prima volta, e le statue
dei nostri familiari ed amici finalmente si mossero, animati da una
gioia che scosse anche i loro cuori. Il padre di Nick
incominciò di nuovo a fare foto a raffica, girandoci intorno
come un vero e proprio paparazzo, Ale iniziò a lanciare
urletti d’eccitazione, Joe iniziò a gridare
perché Nick non l’aveva avvertito, mia madre
scoppiò a piangere come una fontana, mio padre provava a
consolarla e mio fratello ancora non sapeva bene cosa fare e si
guardava intorno spaesato.
Nick
mi prese il viso fra le mani e mi posò vari baci a stampo
sulle labbra, poi concentrò la sua attenzione sul cofanetto
che teneva in mano.
«Non hai nemmeno guardato l’anello»,
disse, mettendo su un falso broncio.
«Scusa,
ma pensavo ad altro in quel momento!», risposi, sentendo
anche io quella felicità incontenibile che spingeva in
qualche modo per fuoriuscire dal mio corpo: con una risata, un pianto,
un urlo, non importava. Optai comunque per la risata e Nick si
unì a me, contagiato.
Quando
ci calmammo abbastanza, aprì il cofanetto e me ne
mostrò il contenuto. Era un semplice anello
d’argento, con un diamante incastonato al centro, ed era
bellissimo proprio per questo.
Lo tirò fuori dalla custodia con cautela e me lo
infilò al dito, leggermente commosso.
«Oh
su, non fare così!», lo rimproverai dolcemente,
accarezzandogli le guance. «Nick, è meraviglioso.
Tu, sei meraviglioso. E ti amo più della mia stessa
vita».
Nick
non rispose, annuì soltanto con la testa, e capii che
ricambiava tutto ciò che avevo detto. Sapeva che se avrebbe
aperto bocca gli sarebbe scappato un singhiozzo, quindi aveva preferito
evitare. Lo accolsi tra le braccia e lo cullai, fino a che non si
sfogò un poco.
«Scusa»,
mi disse subito, spazzando via le lacrime dal viso. «Ma tu mi
fai proprio un brutto effetto».
«Ah,
è così?! Beh, posso sempre fare in tempo a
rimangiarmi tutto quello che ho –!». Mi
tappò la bocca con un bacio e tutti quelli intorno a noi si
misero ad applaudire, ora che l’entusiasmo era un
po’ scemato.
«Non
vorrei proprio fare la guastafeste», disse Denise con la voce
rotta dal pianto: anche lei, come mia madre, s’era lasciata
andare all’emotività. «Ma siamo in
ritardo per la Messa!».
Io
e Nick ci guardammo negli occhi per un istante e fu come vedere il
futuro: entrambi sapevamo esattamente che questo sarebbe stato un nuovo
inizio per noi e per quanto difficile potesse essere, noi ce
l’avremmo fatta sicuramente.
***
Conclusa
la Messa di Natale, ci ritrovammo tutti nel piazzale della chiesa, al
freddo della notte e coi visi illuminati solo dalle luminarie appese ai
lampioni che costeggiavano le strada.
Ci scambiammo tutti gli auguri, dandoci baci e abbracci e rabbrividendo
ogni volta che ci allontanavamo da un corpo caldo per passare ad un
altro.
Ale
fu l’ultima che incontrai e lei mi gettò le
braccia al collo, stringendomi fortissimo e tirandomi un po’
in disparte per parlare.
«Tu lo sapevi che te lo avrebbe chiesto, vero? Non dire di
no, perché sono sicura che tu non ti saresti mai comportata
con tanta tranquillità se non avessi saputo
nulla!».
«Okay,
lo ammetto», ridacchiai. «Me lo aveva
già chiesto, forse anche più di una
volta… ma l’ultima volta è stata dopo
il mio ricovero in ospedale, quando siamo rimasti soli nella villa dei
Jonas nell’altra dimensione».
«E
per quale assurdo motivo non mi hai detto niente?!»,
strillò a bassa voce, picchiandomi sul braccio.
Io
risi ancora. «Neanche Nick ha avvisato qualcuno,
perché te la prendi solo con me?».
«Perché
tu sei la mia migliore amica e credevo che una cosa del genere fosse
una di quelle da dire assolutamente fra migliori
amiche!»,
ribadì il concetto un paio di volte, facendomi roteare gli
occhi verso il cielo scuro.
«Okay,
mi dispiace infinitamente. Posso farmi perdonare in qualche
modo?».
I
suoi occhi si illuminarono all’improvviso.
«Sarò la damigella d’onore?».
«Certo».
Lanciò
un gridolino e mi gettò di nuovo le braccia al collo.
«Sei perdonata, allora!».
«Perfetto»,
dissi, divertita. «Allora torniamo dagli altri».
«No,
aspetta!», mi prese per il braccio e mi trascinò
di nuovo a sé. «Ti devo chiedere una
cosa!».
«Che
cosa?».
«Io,
ecco…Giusto per non fare figure di cacca, anche se credo di
averne già fatta una…».
Con
la fronte aggrottata, le presi le mani nelle mie e dissi con calma:
«Spiegati meglio Ale!».
«Vedi,
un paio di settimane fa, tipo… Joe ed io siamo usciti e
quando mi ha accompagnato a casa, sfruttando il fatto che in casa non
ci fossero i miei genitori, gli ho chiesto se voleva entrare, ma
lui…».
Un
sorriso più che divertito comparì sulle mie
labbra. «Ha… gentilmente
rifiutato?».
«Non
ridere Ary, ci sono rimasta veramente male! Ma non gli ho chiesto il
motivo: mi vergognavo troppo per quello che era successo. Quella sera
ho fatto delle ricerche e mi chiedevo se allora…».
Avevo
già capito dove voleva andare a parare, ma vederla in
difficoltà con quell’argomento in cui si era
sempre destreggiata alla grande era davvero uno spasso!
«Cosa?», domandai.
«Allora
è vera quella storia, che loro non…».
La guardai di traverso, fingendo ancora di non capire.
«Sì, loro non… Dai, hai capito! Per via
di quell’anello…».
«L’anello
della purezza, dici?».
Lei
mi guardò in modo eloquente e scoppiai definitivamente a
ridere.
«Quindi
è vero?!», esclamò a voce fin troppo
alta e con un tono che sembrava quasi scandalizzato. «Fino al
matrimonio loro non…».
Annuii
col capo, senza nemmeno immaginare come sarebbero andate a finire le
cose…
«Non
ci posso credere… Ma quindi tu e Nick ancora
non…!».
Il
mio viso perse immediatamente colore, nonostante facesse
così freddo da renderlo arrossato, e il sorriso che avevo
avuto fino a quel momento scomparve.
Le gettai in fretta una mano sulla bocca, per farla tacere, e i suoi
occhi si illuminarono ancora di più, tanto da potervi
leggere dentro: “E ora chi è che ride?!”
Si
liberò dalla mia stretta, sogghignò e disse:
«Secondo me è per questo che te lo sposi,
altroché. Così almeno potete
finalmente…!».
Rossa fino alle punte dei capelli, ma con sguardo severo, provai di
nuovo ad azzittirla contro la sua volontà, ma lei si
divincolò e mi lanciò uno sguardo di sfida.
«Non
mi guardare così, lo sai perfettamente che stai sparando un
sacco di cavolate!», sbottai. «Io ho detto di
sì a Nick perché lo amo e voglio passare tutta la
vita con lui, non di certo per quello che dici tu, sciocca!».
Ale
sollevò improvvisamente gli occhi ed ebbi un brutto
presentimento. Lentamente mi voltai e alle mie spalle c’era
proprio Nick, che mi sorrise dolcemente.
«T-tu…
da quanto sei qui?», balbettai.
«Quanto
basta», disse chinandosi sul mio viso, per posarmi un lieve
bacio sulle labbra.
Il
freddo sparì in un attimo, stretta fra le sue braccia, e non
avrei mai voluto farne a meno, ma Nick mi prese per mano e mi
portò dalle nostre famiglie.
«Andiamo,
tesoro?», mi domandò mia madre, guardando
dolcemente anche Nick. «Si sta facendo davvero tardi e ho
detto a Denise che saremmo molto felici se domani venissero loro a
pranzo da noi!».
«Stai
scherzando?». Ero praticamente sconvolta: mia madre e la
cucina erano proprio incompatibili!
«Certo
che no!».
«Allora
cucina papà, spero!».
Mia
madre mise su un broncio, facendo sorridere Nick, che mi
guardò: chissà, forse aveva notato qualche
somiglianza fra noi due.
Mio
padre avvolse un braccio intorno alle sue spalle e la strinse a
sé. «Se io sarò lo chef, tua madre
sarà il mio primo cuoco».
A quelle parole mamma si addolcì e distolsi lo sguardo: mi
faceva troppo strano vederli scambiarsi quelle smancerie!
Nick non sembrava avere quel tipo di problema e li guardava quasi al
settimo cielo. Avrei pagato oro per sapere a che cosa stesse pensando,
ma forse ce l’avevo davanti agli occhi la risposta: al futuro.
Le
nostre famiglie si salutarono ancora una volta ed io sussurrai a Nick
qualche parola nell’orecchio prima di baciarlo sulle labbra e
raggiungere i miei genitori, mio fratello e Ale.
Salimmo in auto e la mia migliore amica, seduta al mio fianco, mi
pizzicò il braccio.
«Vai
da Nick, dopo?», mi chiese a bassa voce.
Annuii, raggiante, e lei sbuffò afflosciandosi sul sedile.
«Quanto invidio te e il tuo –!».
«Perché,
Ale? Sono sicura che anche Joe prima o poi ti chiederà di
sposarlo!», disse mia madre, con le labbra arricciate in un
sorrisino.
Ale
avvampò, negando agitando le mani di fronte al petto.
«Non ci tengo a sposarmi così giovane!».
Sorrisi,
pensando che anche io la prima volta avevo reagito in quel modo ed ora
al dito portavo un anello di fidanzamento.
Una
volta accompagnata Ale, tornammo a casa anche noi. Ci augurammo la
buona notte e ognuno si rintanò nella propria stanza.
Sdraiata
sul mio letto, al buio e nel silenzio che regnava in tutta la casa,
continuai a guardare l’anello che portavo
all’anulare della mano sinistra fino a quando non fui sicura
che tutti stessero dormendo. Allora chiusi gli occhi.
Pochi secondi dopo, con espressione serena sul viso, mi strinsi alla
schiena di Nick, sotto alle coperte.
«Hai
fatto presto», mi sussurrò, voltandosi ed
abbracciandomi. «Meglio così, iniziavi
già a mancarmi».
Sorrisi,
soffocando una risata leggera sulla sua gola. «Io stento
ancora a credere che diventerò tua moglie».
Fissò
gli occhi nei miei e mi scostò il ciuffo di capelli bianchi
dalla fronte. «E perché mai?».
«Perché
mi vedo ancora troppo giovane… mai avrei immaginato di
sposarmi così presto. Tutti quelli che mi conoscono
penseranno che sarà un matrimonio riparatore, o dettato dal
fatto che tu sei famoso. Non so se riuscirò a
sopportarlo».
«Scommetto
invece che ci riuscirai benissimo, perché sai qual
è la verità». Dopo qualche secondo di
silenzio, ridacchiò.
«Perché
ridi?».
«Ti
immagini un marmocchio tutto nostro? Sarebbe uno spasso!».
«Nick,
per piacere, una cosa alla volta!», dissi scandalizzata,
portandomi due dita sugli occhi. Non eravamo ancora sposati e
già pensava ad un bambino! Era malato, decisamente.
«Piuttosto,
a quando le nozze?», domandai. «Dovremmo decidere
una data…».
Nick
si voltò a guardare il soffitto, facendomi posare la testa
sulla sua spalla. «Da quello che ho capito, dopo
l’uscita del nuovo CD ci sarà un periodo di
promozione, un paio di mesi, e poi un piccolo tour
mondiale…».
«Scusa,
ma come fa un tour mondiale ad essere piccolo?».
Lui
rise lievemente e mi posò un bacio sulle labbra.
«L’estate prossima? Verso giugno, magari,
così non è troppo caldo».
«Giugno…
Subito dopo gli esami? Riuscirò a stare a dietro alla
scuola, alla dimensione parallela, a te, al
matrimonio…».
«Se
vuoi possiamo anche posticipare, per me non…».
«No,
giugno mi piace come mese», risposi con un sorriso.
«E ce la farò, devo
farcela».
«Così
mi piaci», sussurrò ad un soffio dalle mie labbra.
Gli
presi il viso fra le mani ed annullai la distanza tra noi. Mentre mi
baciava fece scorrere la mano sul mio fianco, sfiorandomi la pelle e
provocandomi mille brividi, e raggiunse la mia mano sinistra, su cui
trovò l’anello che mi aveva regalato.
«Mi
sono riscattato dall’altra volta?», mi chiese,
posando la fronte contro la mia.
«Oh
sì, decisamente… hai fatto tutto proprio in stile
Nicholas Jerry Jonas».
Ci
sorridemmo e stretti in un abbraccio ci addormentammo.
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Ciao a tutti! :D
Beh, questo è un altro capitolo molto dolce e, come dire...
non si può non essere contenti per Nick e Ary, che stanno
per veder realizzato il loro sogno d'amore, nonostante le tante
difficoltà e il lavoro di Nick! *-* Sono proprio una bella
coppia, si completano!
Voi che ne pensate? Come al solito sono ansiosa di conoscere il vostro
giudizio, negativo o positivo che sia ;)
Ringrazio chi ha letto e commentato lo scorso capitolo, ossia ___Unbroken
e Chiare_skyscraper
:)
Al prossimo capitolo, che...
accidenti, è l'ultimo! D: Ma
in compenso sarà un po' più lunghetto :)
Allora ciao! Vostra, _Pulse_