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Autore: Sasita    17/02/2012    7 recensioni
Un caso. Un paese lontano, lontano dalla California. La voglia di ricominciare. Una fatidica estrazione.
esigo recensioni!!!
Genere: Azione, Romantico, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Patrick Jane, Teresa Lisbon | Coppie: Jane/Lisbon
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Long Fic Jisbon'
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N.d.a.
Allora, io avverto subito: questo capitolo è lungo. Molto lungo. Spero in questo modo di ripagare l'attesa. Non assicuro niente sulla correzione di alcune parti, perché non le ho rilette dopo averle scritte.
Ero troppo ansiosa di pubblicare.
Vorrei ringraziare con tutto il cuore e con tutte le parole che non mi basterebbero Giada, o Amy90 come è più conosciuta qui su EFP, che ha scritto praticamente tutto questo capitolo. Le avevo affidato il giallo e lei l'ha fatto con una maestria degna di una professionista.
E la ringrazio.
E' stata molto interessante questa scrittura a quattro mani e spero di rifarlo presto! :D
Non mi dilungo oltre: godetevi il capitolo e fatemi sapere che ne pensate!

 


Slowly Going Down

 
 
Teresa
Andava tutto bene. Tutto alla perfezione. Finalmente la vita stava riprendendo il suo corso. Il nostro ruolo al CBI era stato ristabilito, il killer era stato preso e tra lo stupore e lo sdegno di tutti, un traditore era stato scovato.
E alla fine, una vita era cominciata, separandosi dalla mia.
Avevamo fatto indagini senza permesso, ci eravamo introdotti al CBI utilizzando vecchi tesserini e avevamo avuto accesso a dati, database, prove...
Ci eravamo intromessi nelle indagini senza pensarci due volte. E Hightower sapeva tutto.
Ma non aveva mosso un dito per evitarcelo. Alla fin fine, quella donna non era male come avevo sempre pensato.
Si erano tutti congratulati con noi. Stavamo bene.
Io stavo bene.
O, almeno, era quello che continuavo a ripetermi.
Sto bene, sto bene, sto bene.
Ma non era vero.
Io non stavo bene.
Zoe era una bellissima bambina dagli occhi azzurro cielo e i capelli nerissimi, nata dopo una lunga notte d’agonia il nove di maggio.
Io sarei tornata ad essere l’agente capo della squadra 7 della Omicidi di Sacramento.
Grace e Wayne si sarebbero sposati in Settembre.
Kim ed Elise erano finalmente a vivere la loro desiderata luna di miele.
Ed io dicevo a tutti di stare bene.
Era vero: ero finalmente felice, libera da ogni pericolo.
Ma ero incompleta. Avevo bisogno di Patrick per essere davvero completa.
Avevo bisogno di sapere che Zoe era sua.
Avevo bisogno di due braccia e un corpo amato a cui stringermi la notte.
Avevo bisogno di un anima a cui affidare la mia.
Un compagno che mi aiutasse, che mi sostenesse.
Era finito il tempo della Teresa Lisbon tutta lavoro.
Amavo Patrick, ma lui era incostante, incerto, indeciso. E in più non era lì con me.
Avrei ripreso in mano la mia vita, qualsiasi cosa fosse successa sarei stata pronta a reggerne le conseguenze.
E allora, solo allora, sarei stata davvero bene.


Quattro giorni prima

 
 
Grace
Scatti di macchine fotografiche, flash e rumori metallici. Avere la scientifica intorno significa questo.
Dean Cooper giaceva ancora sotto il telo bianco, in attesa di essere trasportato all’obitorio. Tutti gli invitati erano stati allontanati. Alcuni poliziotti si stavano occupando della raccolta di testimonianze, ma sembrava che nessuno si fosse accorto dell’omicidio, fino a che il corpo di Cooper non era crollato sul tavolo, esanime.
Mi rivolsi al tecnico della scientifica che stava imbustando il cibo.
- Prelevate campioni anche dalle cucine. Ci aiuterà a scoprire dove e come è stato avvelenato – indicai la bottiglia di vino – Tenga conto specialmente di quella -  Il tecnico annuì e scomparve dalla mia vista, con un nuovo sacchetto per le prove, pronto a fare i suoi rilievi. In lontananza, vidi Rigsby mentre interrogava il cameriere che aveva servito il tavolo del signor Cooper. Mi avvicinai a loro, proprio mentre gli rivolgeva la domanda più importante. 
- L’etichetta sulla bottiglia è diversa dalle altre bottiglie servite ai tavoli. Può spiegarmi il perché? –
L’uomo si innervosì immediatamente. Ma la saggezza di un poliziotto insegna che la tensione del cameriere, tale Alan, non era determinata da qualcosa che aveva fatto, ma da qualcosa che gli era sfuggito, qualcosa che non conosceva.
- I vini che abbiamo servito stasera erano di due tipi. Devo aver confuso le bottiglie – rispose, balbettando un po’.
- Abbiamo controllato entrambe le bottiglie, ma non si tratta nemmeno della seconda – intervenni io – è possibile che qualcuno abbia sostituito le bottiglie? –
L’uomo scosse la testa – No, assolutamente no! Me ne sarei accorto! –
Rigsby sospirò – Conosceva quell’uomo? –
Il cameriere scattò come se qualcuno l’avesse punto sul braccio – Senta agente Rigsby, non lo conoscevo e tantomeno lo volevo morto. Ero nelle cucine, quando il capocameriere mi ha detto di portare altro vino al tavolo sei. Mi ha indicato il vassoio su cui erano già state appoggiate le bottiglie. L’ho presa, l’ho avvolta nel fazzoletto e l’ho portata al tavolo, l’ho aperta e l’ho lasciata lì. Era accanto a tutte le altre, potevo prenderne una qualsiasi –
Un dubbio aleggiò nella mia mente. – Lei non era addetto al vino –
Il cameriere annuì – Esatto. Ma Bryan era andato a prendere altra acqua dai frigoriferi in cantina. C’era urgenza, e così il capocameriere ha incaricato me –
 
Mentre raggiungevamo la cucina, Rigsby si girò e mi chiese – Come facevi a sapere che non era l’addetto al vino? –
Scrollai le spalle – Non l’ho mai visto con una bottiglia di vino in mano –
- Che occhio! –
Trovammo subito il capocameriere, un uomo che ricordava più un maggiordomo inglese che un direttore di sala.
- Stiamo cercando Bryan Milito – dissi.
- Deve essere in giro da qualche parte – disse, gesticolando con la mano verso la cucina.
- Signor Carlos, come mai una bottiglia del tutto estranea a quelle previste nel menù, è finita sul tavolo del signor Cooper? – chiese Rigsby.
- Non ne ho la più pallida idea – rispose con molta sincerità – ma le posso assicurare che non era nella mia cantina. Non ho mai visto quella bottiglia in vita mia –
- Chi aveva accesso alla cantina? – chiesi.
- Camerieri, io, cuochi se avevano bisogno. Solamente noi –
- Pensa che qualcuno possa essersi introdotto? –
- Ci sono bottiglie di grande valore. È monitorata da un avanzato sistema di allarme. È richiesta l’identificazione tattile. Solo noi possiamo accedervi –
- E nelle cucine? –
- Siamo stati lì per tutto il tempo. Se un estraneo si fosse introdotto dubito che non ce ne saremmo accorti –
 
 
Teresa
Grace si avvicinò e riassunse in poche frasi tutto quello che avevano scoperto.
- E questo Bryan che fine ha fatto? – chiesi.
- Nessuno riesce a trovarlo, ma il direttore di sala ci ha fornito il suo curriculum e la fotocopia dei suoi documenti – rispose lei.
Annuii e mi rivolsi a Rigsby – Tornate al CBI e cominciate dall’identità di questo Bryan. Io mi occuperò della famiglia. Cho è andato via con Elise: lo chiameremo solo se avremo estremo bisogno, ma per il momento possiamo cavarcela da soli –
- Vuoi un passaggio? – chiese Rigsby.
- No, grazie –
Mi incamminai verso un’ambulanza parcheggiata in strada. Mentre percorrevo lo stradino di ghiaia verso la strada principale, un’ondata di nausea travolse il mio stomaco. Il ricordo di ciò che avevo visto, si unì allo sgomento per la chiamata appena ricevuta.
Che cosa significavano quei soldi? Chi li aveva versati?
Provai a interpretare l’accaduto sotto diversi punti di vista, di cui il più ottimistico era sicuramente un errore di sistema. Forse quei soldi non dovevano arrivare al mio conto, ma sul conto di qualcun altro. Forse c’era stato un disguido e presto il direttore mi avrebbe richiamata per dirmi che si erano sbagliati e che presto il mio conto sarebbe tornato a posto.
Ma qualcosa, chiamatelo pure istinto da poliziotto, mi suggerì che non si trattava di un semplice errore.
Sentivo il bisogno di andare a fondo, di indagare. Volevo scoprire cosa fosse successo.
Se non si trattava di un errore, quali altre opzioni restavano?
 
Pochi minuti dopo, stavo parlando con la moglie della vittima. La donna non si era accorta di niente. Era astemia, perciò non aveva nemmeno toccato la bottiglia sospetta. Gli altri commensali al tavolo avevano i bicchieri pieni dalla bottiglia precedente, perciò non aveva preso il vino. La donna non aveva notato nulla di sospetto. Il cameriere aveva aperto la bottiglia di vino sul tavolo e poi si era allontanato. Solo il marito aveva toccato quella bottiglia, da quando era stata portata. Ne dedussi che l’avvelenamento del vino fosse una condizione precedente al servizio del cameriere.
Ma allora chi poteva averlo avvelenato? La bottiglia era sul tavolo assieme alla altre. Un cameriere avrebbe potuto prenderne una qualsiasi e soprattutto portarla a un tavolo qualsiasi.
Il pensiero accese una lampadina nella mia mente. Afferrai il cellulare e chiamai Grace.
- Grace, scava a fondo anche nella vita di Burt, il secondo cameriere. Scopri se aveva un movente –
- Pensi sia lui l’assassino? – chiese. In sottofondo sentii i tasti della tastiera.
- Se quella bottiglia era sullo stesso tavolo delle altre, poteva essere confusa o portata per sbaglio da un altro cameriere, o da Bryan che era l’addetto al vino. Eppure quella bottiglia è stata portata da Burt proprio al tavolo di Cooper: deve esserci una spiegazione –
- Ti chiamo appena scopro qualcosa –
Riagganciai e salii in macchina. Mentre guidavo, pensavo al caso e a quanto fosse complicato quell’omicidio.
Una bottiglia, presumibilmente avvelenata, sul tavolo assieme ad altre cinquanta, portata da un cameriere occasionale ad un tavolo di sette persone. Come faceva l’assassino ad avere la certezza che Dean Cooper avrebbe bevuto? E se non fosse stato Dean Cooper il bersaglio?
Un omicidio del genere, o era opera di un inesperto o era stato un colpo di fortuna. Oppure era stato studiato talmente bene da dare la certezza all’assassino che tutto sarebbe andato secondo i piani.
Le probabilità di riuscita erano molto basse. Perciò doveva esserci qualcosa su cui l’assassino contava, qualcosa di certo che poteva impedirgli di sbagliare.
Ma cosa?
 
 
Rigsby
- Perfetto, grazie –
Appoggiai la cornetta, chiudendo la conversazione, con un entusiasmo quasi fuori luogo. Ruotai la sedia verso la scrivania di Grace, con un aperto sorriso.
- Indovina? –
- Hai risolto l’omicidio? – azzardò lei, senza staccare gli occhi dallo schermo.
Ammiccai con la testa – Purtroppo no, ma forse ci sto andando vicino. Ha chiamato la scientifica: nel tappo di sughero della bottiglia c’è un piccolo foro da siringa. Il veleno è stato iniettato da lì. La cosa sorprendente è che quella bottiglia non risulta in nessuna delle ordinazioni. Non doveva essere presente alla cerimonia –
Lei staccò gli occhi dallo schermo e mi fissò – Come aveva detto Carlos  -
- Già, ma la scientifica è stata attenta anche alle altre di bottiglie. Portano tutte le impronte di Bryan, il primo cameriere, quello addetto al servizio del vino. Mentre la bottiglia avvelenata presenta una sola serie di impronte, e sono di Burt –
Grace sorrise – Quindi o Burt è il colpevole.. –
- O il vero assassino ha fatto in modo che quella bottiglia finisse su quel tavolo –
 
- In quante lingue ve lo devo dire? – il ragazzo si stava decisamente agitando.
- Thomas le tue impronte sono su quella bottiglia – puntualizzai.
Thomas Burt sembrava un’anima in pena. Sudava, si agitava, diventava collaborativo e supplichevole, poi cambia atteggiamento e si avventava contro di me.
- Non l’ho ucciso io! Non sapevo nemmeno chi fosse! – esclamò.
- Ricostruiamo i fatti – mi avvicinai a lui dall’altra parte del tavolo – Tu eri l’addetto alle portate. Eppure il direttore di sala ti ha detto di portare quella bottiglia –
- Bryan Milito non c’era, così ha mandato avanti me – giustificò Burt.
- Bene – confermai io – E perché Bryan non c’era? –
- Stava rimediando a un piccolo incidente in cucina. Una delle cameriere aveva rovesciato un vaso di salsa alle mele sul piano dove doveva essere appoggiata la torta. Era tutto appiccicoso, così Bryan, che era l’unico libero, si è messo a pulire. Quando sono tornato di là, Carlos mi ha detto di portare del vino al tavolo sei. Ho preso la prima bottiglia che ho trovato, dovevano essere tutte uguali! – la sua voce si incrinò, mentre fendeva l’aria con la mano e una lacrima scendeva lungo la sua guancia.
In quel momento, compresi due cose: la prima era che, a meno che Burt non fosse un eccellente attore e avesse sbagliato professione, era innocente. La seconda era che stava passando il peggior momento della sua vita.
- Non sei responsabile – commentai, a voce calma.
Lui scosse la testa, mentre altre lacrime correvano lungo la pelle arrossata dallo sfogo. – Quell’uomo è morto. Se avessi preso un’altra bottiglia.. –
- Thomas, lo volevano morto, avrebbero trovato un altro modo per ucciderlo. Non sei responsabile. Non è tua la colpa, ma di chi l’ha ucciso –
Burt annuì, un po’ rincuorato dalle mie parole.
Dovevo trovare quell’assassino, anche per un altro motivo: Thomas Burt avrebbe finalmente avuto un nome su cui scaricare il peso che stava portando.
 
Quando rientrai nel bullpen, Grace quasi mi investì. Mi corse incontro con un sorriso radioso.
- Ha appena richiamato la scientifica per quelle ultime analisi –
- E…? – chiesi impaziente.
- Abbiamo una pista! –
 
 
Teresa
- Ecco, vede l’ultima transazione? –
Il direttore della banca segnò con una linea nera una cifra a quattro zeri che ancora mi faceva rabbrividire. La transazione era avvenuta alle 10:50, provenienza sconosciuta.
- Non aspettavo questi soldi – commentai. Fu l’unica cosa che riuscii a dire.
- Ovviamente possiamo risalire a chi l’ha effettuata, ma ci serve un mandato –
Annuii con gesto meccanico. – Me ne occupo io –
L’uomo scoppiò a ridere – Già, dimenticavo che è il suo lavoro –
Mi sforzai di sorridere anche io. Salutai il direttore con una stretta di mano e uscii dalla banca con i fogli ben conservati nella mia borsa.
Passai da casa a cambiarmi e tornai al CBI: avevo un mistero da risolvere.
Trascorsi quasi due ore al computer. Io non ero Grace, perciò mi tolsi subito dalla testa l’idea di indovinarci al primo colpo. Seguii la procedura che avevo eseguito un milione di volte, poi applicai i trucchetti che Grace mi aveva insegnato.
Dopo mille cancella e riscrivi, arrivai a una conclusione: il lavoro sporco lo dovevo lasciare a Grace, ora e in futuro!
Ma fui fiera di aver ottenuto almeno un risultato: nonostante la perfetta copertura di chi aveva versato il denaro sul mio conto, avevo scoperto che la transazione era stata effettuata fuori dal confine degli Stati Uniti.
Già, brava Teresa, hai scagionato il tuo Paese. Ora ti manca solo da escludere il resto del mondo...
 
 
Grace
L’eccitazione era del tutto normale. Lo è sempre stata nel nostro lavoro. Quando ti capita in mano una pista non puoi fare a meno di frenare quel ribollio del sangue, un misto di adrenalina e frenesia pura. Bisogna sublimarlo, per evitare che influenzi il lavoro stesso, ma è una sensazione troppo piacevole per cancellarla del tutto.
- Ho fatto qualche ricerca. Bryan Milito era già nel nostro database – spiegò Rigsby, mentre si fermava al semaforo.
- Che ha combinato? – chiesi.
- Furto d’identità! Fino a due anni fa si faceva chiamare Omar McKallister, una falsa identità. Qui viene il bello: non ha mai confessato il motivo. La polizia non ha mai scoperto a cosa gli servisse quell’identità. Lui raccontò di essersela procurata per sfuggire a un brutto giro di teppisti, una sottospecie di banda a cui si era unito da adolescente –
- Ma immagino non sia vero! – commentai.
- Pare di no! Il punto è che Bryan Milito ha precedenti penali, e non solo sull’identità. L’anno scorso l’hanno preso con 100g di coca, non abbastanza per fargli scontare una pena molto lunga, ma abbastanza per gli arresti domiciliari. E poi, bum! – Rigsby mimò con le dita un’esplosione- scompare tutto! –
Aggrottai le sopracciglia – Che significa “Scompare tutto”?! –
Rigsby si esaltò e mi concesse un sorriso trionfante – Qualcuno ha convinto il procuratore a rimuovere la libertà vigilata, per buona condotta e mancanza di prove, cosa piuttosto stupida considerando i 100g di coca –
- E chi è stato? – chiesi, con il cuore a mille.
Rigsby cancellò il sorriso dal suo volto e abbassò le spalle – Non c’è traccia di quel rapporto. All’archivio dicono di aver perso la cartella, e non avendo altro, hanno aggiornato il dossier con un rapporto non ufficiale su quanto successo a Milito –
Puntai lo sguardo oltre il parabrezza, ma in realtà non lo stavo guardando. Arricciai le labbra in un’espressione confusa, cercando una risposta a quell’errore: una banale coincidenza o un vero e proprio sabotaggio?
- Deve significare qualcosa, per forza! – commentò Rigsby – E tu? Quale pista hai da offrire? –
Mi riscossi dai miei pensieri – La scientifica ha identificato il veleno: è comune arsenico. Quello che è rilevante, invece, è che la bottiglia proviene da una collezione privata. L’ha comprata un certo Carlos Paolini, gestore di un’importante azienda vinicola. Tre settimane fa ha subito un furto nella sua cantina: hanno rubato dieci bottiglie, fra cui quella usata per avvelenare  Cooper. Non avevano ancora un nome, ma una serie di impronte. La scientifica ha confrontato le impronte del furto con quelle delle bottiglie. E indovina? – aggiunsi con un sorriso.
Rigsby annuì – Sono di Milito –
-  Esatto! Ora dobbiamo solo trovarlo –
 
Dopo aver raccolto i dossier dalla scientifica, ripartimmo per andare a casa di Milito. Secondo il portiere del palazzo, non rientrava in casa da prima della cerimonia. Il suo appartamento era piccolo e disordinato. Impiegammo quasi due ore per rigirarlo da cima a fondo e non trovammo niente.
Ma qualcosa attirò il mio sguardo. Quel piccolo ago nel pagliaio, un dettaglio talmente minuscolo da sembrare quasi insignificante. Eppure, un poliziotto è attratto, spesso, dai dettagli più insignificanti, non da quelli palesi e scontati. E sono proprio quei dettagli a risolvere i casi. La maggior parte delle volte.
- Rigsby – mormorai.
Lui alzò lo sguardo da un mucchio di fogli sparsi sul tavolino della cucina. – Sì, dimmi –
Alzai l’indice guantato della mano destra e indicai la parete di fronte a me con decisione. - Noti niente di strano? -
Lui mi raggiunse e scrutò la parete con molta attenzione, piegando il capo da una parte all’altra con un’espressione smarrita. – Il quadro è  storto? –
Alzai gli occhi al cielo. – E...? –
- E non capisco dove vuoi arrivare –
Scuotendo la testa mi avvicinai al quadro. Aveva qualcosa di famigliare, ne ero sicura. Solo che non ricordavo dove lo avevo visto. Ma in una casa come quella, disordinata e senza la minima traccia di arredamento, un quadro come quello non aveva nessun senso.
- Dubito che Milito sia talmente devoto all’arte da comprare un quadro e appenderlo alla sua parete – commentai.
Rigsby iniziò a seguire la mia linea di pensiero .  – Magari l’hanno lasciato gli inquilini precedenti –  ipotizzò.
Io scossi la testa – No, ha qualcosa di famigliare –
Lui sorrise – Grace, è un quadro piuttosto comune, lo trovi in tutti i negozi d’arte –
- Sì lo so, ma… sai quando si mette in moto l’istinto? Ecco, io credo che questo quadro sia la chiave per risolvere il caso –
- D’accordo – commentò lui scrollando le spalle – Spostiamolo. –
Ci sistemammo ai lati del quadro e lo sollevammo dal chiodo alla parete. Sapevo di non essere impazzita. Sotto al quadro, nascosta dalla tela, una cassaforte era incastonata nel muro color salmone. Ovviamente era chiusa.
- Chiamo la scientifica – disse Rigsby, e uscì con il telefono in mano.
Sorrisi alla cassaforte.
Infondo, gli anni passati a lavorare con Jane erano serviti a qualcosa: fidati sempre della tua mente e non sbaglierai.
 
Quando la scientifica arrivò, Cho e Lisbon ci avevano raggiunti. Teresa faceva fatica a camminare e a muoversi e sembrava molto più stanca del previsto. Le rivolsi un’occhiata preoccupata e lei improvvisò un sorriso che mi convinse molto poco. Più tardi le avrei parlato.
La scientifica si mise al lavoro e un tecnico dall’aria spocchiosa cominciò a lavorare sulla cassaforte. Passò quasi mezz’ora, in cui tutti eravamo rimasti immobili a guardare il tecnico lavorare, senza fiatare. Solo Rigsby parlò e lo fece per aggiornare Lisbon e Cho degli ultimi avvenimenti. Quando il tecnico finì, prese lo sportello ormai scardinato della cassaforte e sparì dalla nostra vista, borbottando qualcosa di cui captai solo le parole “impronte digitali”, “mettere fretta” e “poliziotti”.
Lasciai l’onore a Rigsby di infilare la mano nel vano della cassa. C’erano solo una pistola, un mucchio di fogli e, rullo di tamburi, tre fiale di arsenico, o così almeno sperai. Facendo molta attenzione, li passammo a una ragazza della scientifica che li imbustò e li mise in una valigetta anticontaminazione.
- Cazzo!- esclamò Rigsby.
Ci voltammo tutti. Aveva aperto la cartellina e ne stava analizzando i fogli con uno sguardo sbigottito.
- Che succede? – chiese Lisbon.
- Non credo volesse uccidere quel povero uomo – commentò Rigsby.
Con un’espressione lugubre, girò i fogli verso di noi. Mi sentii mancare la terra sotto i piedi. Improvvisamente ogni frammento del puzzle tornò al suo posto e l’immagine che vidi non piacque per niente. Ora riuscivo a incastrare ogni cosa alla perfezione, ogni indizio aveva finalmente delle risposte. E non mi piacevano. Sentii ognuno di noi trattenere il respiro. La verità era davanti ai nostri occhi.
Anche se ancora non sapevamo perché.
 
Cho
La mia faccia.
La mia faccia in due, tre, quattro… dieci foto. Le contai passandole da una mano all’altra. Una busta bianca stropicciata accompagnava gli scatti con un semplice messaggio.
 
Uccidilo
 
 
Non aveva senso. Nulla in questa storia aveva senso. Che motivo aveva di uccidermi. Nemmeno lo conoscevo questo Milito.
- Cho , farò assegnare una scorta che ti terrà d’occhio a casa e in ogni momento – disse subito Lisbon, riprendendosi dallo shock.
Ero talmente distratto, che annui senza pensare veramente a quello che aveva detto. Continuavo a chiedermi perché. Cosa c’entravo io? Perché qualcuno avrebbe dovuto uccidermi.
E soprattutto, ora che aveva fallito, ci avrebbe riprovato?
 
Un’ora dopo eravamo tutti nel bullpen. Lentamente stavo riprendendo possesso delle mie facoltà mentali e iniziavo a distinguere le voci e i suoni. Il mondo stava tornando alla sua consistenza originaria e la mia razionalità stava lavorando alla velocità della luce.
Ok, qualcuno mi vuole morto, pensai.
L’unico modo per evitare di dargli vittoria era restare in vita. Non era un ottimistico punto di partenza, ma pur sempre un inizio. E l’unico modo per evitare di restarci secco era scoprire chi e perché mi volesse morto. Quando avviene un omicidio, la tecnica migliore per risolverlo è partire dalla vittima e andare a ritroso. In questo caso la vittima ero io, perciò dovevamo partire a ritroso da me. Ecco perché l’indagine non aveva dato i suoi frutti: eravamo partiti dalla vittima sbagliata.
- Ma perché?- riuscì a mormorare Grace. Era molto spaventata come tutti.
Io stavo recuperando il lume della ragione, cosa molto incomprensibile dagli altri che pensavano fossi sotto shock.
- Sappiamo che Milito era stato incaricato da qualcuno di uccidere Cho – iniziò Lisbon.
- Ma Thomas Burt prende la bottiglia e la porta ad un tavolo qualsiasi, senza sapere di aver appena causato la morte accidentale di Cooper –  continuò Rigsby.
- Quindi Milito scappa e scompare dalla faccia della terra – concluse Grace.
Intervenni io a chiudere l’opera.  – Perché sa di avere fallito e se il suo mandante lo beccasse potrebbe morire. –
- A questo punto resta solo una domanda – intervenne Lisbon – Chi lo ha mandato ad ucciderti? –
Scrollai le spalle – Non ne ho la più pallida idea. Forse non era per me, ma per Elise –
- Ma le foto erano le tue – commentò Grace, con sguardo apprensivo.
Annuii e mi resi conto di aver appena detto una cavolata. La mia capacità di poliziotto vacillava.
- C’è solo un modo per scoprirlo – aggiunsi – Trovare Milito –
 
Quella sera furono i ragazzi della scorta a riportarmi a casa. Elise mi aspettava sulla soglia: Teresa l’aveva chiamata e avvertita. L’aveva messa a conoscenza di quanto era accaduto. Gli svolgimenti di quella storia avevano un retrogusto stranamente agrodolce. Qualcuno voleva davvero vedermi morto, per un motivo o per l’altro. Mi era già capitato di essere in pericolo tanto da rischiare la vita, ma mai, mai così tanto.
Non feci in tempo a finire di salire le scale per arrivare sul pianerottolo dell’appartamento, che Elise mi corse incontro, stringendomi in un abbraccio che sapeva di rimorso. Il suo sguardo vacillò, senza incrociare il mio e rientrò in casa con me al seguito. Non avevo voglia di parlare, come sempre del resto quando c’erano di mezzo i miei sentimenti.
- Mi dispiace, Kim. – mi disse mia moglie, guardandomi finalmente negli occhi – Sono stata stupida ad arrabbiarmi perché volevi seguire le indagini invece di partire per la luna di miele. –
- Non preoccuparti. – le dissi, passandomi una mano sul volto stancamente e sedendomi sul divano. I miei occhi inchiodarono la televisione, dove le immagini piroettavano una luce cangiante. Il volume era spento quindi non avrei potuto capire cosa fosse quel programma neppure se avessi veramente prestato attenzione.
- E invece mi preoccupo. – Elise sospirò – Ho pensato… sai cosa ho pensato, insomma... Io non sono una persona gelosa. Tu questo lo sai. E non ho mai dubitato di te e Teresa... solo che... ci siamo appena sposati ed io... – tacque, rendendosi conto di non essere riuscita a mettere insieme un discorso coerente.
Mi faceva male la testa. – Elise, ti ho detto che non ti devi preoccupare. Capisco. – ripetei, alzandomi in piedi ed avvicinandomi a lei.
- Perdonami se ti ho accusato ingiustamente... E’ stato solo... ero semplicemente arrabbiata. Non penso quelle cose né di te né di Lisbon. –
Tentai un sorriso, ma non mi uscì che una smorfia. – E’ normale. E ti prometto che avremo la nostra luna di miele, quando tutto questo passerà... –
Lei mi abbracciò con tenerezza ed io le passai una mano sulla schiena: sembrava così fragile.
- Ti fa male la testa? – mi domandò quando tornammo sdraiati sul divano e mi vide passare per l’ennesima volta la mano sulle tempie e gli occhi.
- Sono solo un po’ stanco. – risposi. La faccia una maschera granitica.  Non volevo mostrarle la mia paura, la mia angoscia personale. Lei non meritava tutto questo, non meritava quello che già le avevo fatto passare più e più volte. Non meritava il pericolo che ricade perennemente sulle spalle di tutti coloro che commettono l’errore di voler bene a un poliziotto. La strinsi ancora a me, mentre lei mi osservava con una strana compassione.
- Andiamo a letto allora. – disse – Domani immagino dovrai tornare a lavorare. –
Annuì, grato di quella saggia iniziativa che non avevo preso io solo per paura di farla scattare di nuovo come quella mattina, quando le avevo detto che non saremmo partiti per la luna di miele per via di quel maledetto omicidio.
Quella notte dormii un sonno senza sogni, sprofondando nel buio tetro e profondo del riposo vigile, sempre pronto a qualsiasi stimolo esterno. Ci fai l’abitudine quando metti in carcere persone che sono fisiologicamente portate alla violenza. E in quel frangente lì, in cui ancora la persona che mi voleva morto non era finita dietro le sbarre, era ancora più importante per me e soprattutto per Elise che io fossi pronto a tutto; anche a un corpo a corpo nel bel mezzo della notte.
 
 
Rigsby
La stupidità dei criminali non smetterà mai di sorprendermi.
È bastato fare una telefonata alla madre di Bryan Milito e implorarlo di tornare a casa. Preso dal panico per la salute della madre, Milito è tornato indietro. Ha pensato bene di passare prima al suo appartamento, dove c’eravamo noi ad aspettarlo.
Tutto ciò che resta di quella spiacevole giornata è una confessione. Una confessione che cambiò tutto. Le nostre vite, la fiducia nelle persone su cui avevamo sempre contato. Cambiò i nostri incubi e risvegliò fantasmi che speravamo di seppellire per sempre.
Tutto ciò che resta di quella giornata è una lettera. Una lettera e un uomo in lacrime. Un uomo in lacrime e un altro uomo che ha tradito tutti noi.
Quando il colpevole è uno di noi, un poliziotto, il mondo sembra capovolgersi.
E quel giorno si capovolse..
 
 

Tre ore prima

 
 
Grace
- Abbiamo le foto Bryan – ripetei per l’ennesima volta. – E abbiamo la busta –
Milito continuava a fissare le prove disposte sul tavolo della sala interrogatori. Le fissava con sgomento, quasi stesse per vomitare. Aveva gli occhi stralunati, le labbra tremavano, la sua fronte sudava.
- Ora, ci sono due possibilità – ripresi – O mi dici subito chi ti ha dato queste foto, o ti riterrò l’unico assassino di Dean Cooper –
Milito sussultò, come se l’avessero punto con un ago, poi torno nel suo apparente stato di trans. Cominciò a muoversi ritmicamente avanti e indietro.
- Mia madre è malata – sussurrò, talmente piano che dovetti risedermi per sentirlo bene.
- Sta morendo, e la sua malattia è genetica. Due mesi fa i medici mi hanno detto che toccherà anche a me. Potrò salvarmi solo grazie a una nuova terapia, ma costa troppo, non ce lo possiamo permettere. Ho solo cercato di salvarmi la vita… volevo solamente vivere! – strillò, scattando improvvisamente e cominciando a piangere.
Provai un moto di compassione per lui, ma cercai di seppellirlo infondo all’anima: davanti a me c’era un assassino.
- Che cosa è successo? – chiesi.
Lui alzò lo sguardo e vidi tutta la disperazione che provava balenare nei suoi occhi.
- Un giorno squillò il telefono. Un uomo voleva che uccidessi un agente del CBI. Sapeva che lavoravo al ricevimento del matrimonio e sapeva anche che io avevo bisogno di soldi per guarire. Mi offrì una grossa somma di denaro. In cambio dovevo solo consegnare una bottiglia al tavolo di quell’agente –
Presi un lungo respiro – Se avessi portato tu la bottiglia ora un mio collega e caro amico sarebbe morto –
Milito scoppiò a piangere ma io non smisi di infierire.
- E per come è andata, è morto un innocente, una persona che desiderava solamente vivere –
- Anche io lo volevo – commentò lui tremando.
- E per colpa di ciò che ha fatto, nessuno ha ottenuto ciò che voleva - dissi. Fu la goccia che fece traboccare il vaso. Milito iniziò a singhiozzare e appoggiò la testa fra le mani ammanettate. Quando i singhiozzi cessarono, ripresi a parlare.
- Chi ti ha mandato, Bryan? –
La risposta arrivò. Ci volle qualche minuto, ma arrivò.
E mi tolse il respiro..
 
 
 

Due ore dopo

 
 
Teresa
Strinsi la lettera fra le mie dita. Un improvviso vuoto d’aria mi fece girare la testa. Mi appoggiai meglio allo schienale della sedia. Ormai eravamo rientrati tutti in ufficio. Fissavamo tutti il pavimento con aria smarrita. Nessuno aveva ancora avuto il coraggio di leggerla. Spettava a me, ma nessuno mi stava costringendo. Rigsby, Grace aspettavano. Cho era stato richiamato nel bel mezzo della notte a quella svolta improvvisa della situazione. Ed aspettava anche lui, con accanto Elise, che gli cingeva le spalle amorevolmente. Aspettavano tutti che io trovassi il coraggio di farlo. Grace allungò la mano e strinse la mia. Mi feci coraggio, cercai ogni briciolo della mia forza da ogni angolo della mia anima, e cominciai a leggere.
Ad ogni parola, inorridivo. Ma andavo avanti.
 

Mio caro amico. I tempi sono cambiati. Non sono più al sicuro, questo dovresti saperlo. La mia vita è in pericolo, la vita di tutti i nostri seguaci è in pericolo. E sai qual è il mio terrore più grande? Il pensiero che non lascerò niente dietro di me. Se io morirò, nessuno avrà il coraggio di portare avanti la mia causa. Come un fiume ghiacciato non riesce a sciogliere le sue acque con i primi raggi di sole. Deve arrivare il caldo, il sole deve essere più forte. Solo così l’acqua riprenderà a scorrere. Ma quando arriverà qualcuno più forte di me? Se io dovessi perire, chi si prenderà cura del mio disegno? Chi porterà avanti ciò per cui ho lottato? Ed è per questo che ti scrivo: sei il mio amico più caro, il suddito più devoto. Voglio affidare a te questo compito. Promettimi che porterai avanti la mia opera, affinché il palcoscenico non rimanga privo dei suoi attori. Lascia che il sipario si chiuda, lascia che la mia opera arrivi alla fine. Conduci i miei sudditi verso la fine del mio disegno, concludi ciò che io non potrò concludere. E se non troverò la morte, be’, meglio così! Ma se questa lettera ti verrà recapitata prima della mia presunta scomparsa, allora ti prego, rispondi il prima possibile. Sarai tu a portare questo fardello: il fardello del potere. Sii come sono stato io. Mi affido a te. Sai qual è il tuo compito. E sai quando dovrai svolgerlo.

 
Il silenzio piombò come una coltre scura su di noi. Nessuno ebbe il coraggio di commentare. Ma infondo, conoscevamo già la verità. Perché prima di leggere quella lettera, avevamo letto quella scritta da lui, dall’uomo che ci aveva traditi tutti.
- E’…- iniziò Grace.
- Orribile – concluse Rigsby.
Lasciai scivolare la lettera sul tavolo. Le immagini delle ultime due ore vorticarono nella mia mente. Mi sentii strana, confusa, come se qualcuno mi avesse colpito in testa. Le parole della lettera si mescolarono alle scene a cui avevo assistito. Essendo incinta non potevo eseguire io stessa l’arresto, così ero rimasta in disparte ad osservare gli altri.
Un vortice di immagini mi fece ripercorrere quello che avevamo appena vissuto, accompagnato da quelle parole che non volevano uscire dalla mia testa.
 

Mio unico amico, grazie. Sono onorato della decisione che hai preso. Prometto di servirti, di compiere il tuo volere, di continuare la magnifica opera a cui tu stesso hai dato vita e forma. Prometto di essere ciò che tu avresti sempre voluto che io fossi. Prometto di essere per i tuoi seguaci una guida giusta come lo sei stato tu.

 
Eravamo arrivati davanti alla casa armati e pronti a fare irruzioni. Altre due unità si erano unite per dare rinforzo. Non fu difficile sfondare la porta. Dalla mia posizione sicura in macchina vidi Rigsby sfondare l’infisso. E mentre gli agenti entravano, sentii le urla di Rigsby e Grace. Un moto di rabbia si impadronì di me, fino a farmi stare male.
Come aveva potuto?
 

Non commetterò errori. Sarò sempre il fedele amico e seguace che sono stato per te.

 
Quelle parole scorrevano ancora nella mia mente, come se le avessi appena lette.
Le parole che LaRoche aveva scritto a John il Rosso.
 
 
Grace
È rimasto immobile a guardarci, come se fosse sorpreso di vederci lì. Forse pensava di arrivare a Milito prima di noi. O forse pensava di essere abbastanza bravo da farla franca.
 
 

Il mio compito è iniziato. Ho già assoldato qualcuno perché uccida l’agente Kimball Cho. Presto Teresa Lisbon si sentirà minacciata, e quando vedrà i suoi colleghi morire uno ad uno, smetterà di proteggerlo e mi rivelerà dove si trova. Si sentirà minacciata, la paura prenderà il sopravvento. Comincerò con Kimball Cho. Poi sarà la volta di Wayne Rigsby. E poi toccherà alla giovane Grace Van Pelt. Nessuno si salverà. Il tuo ordine verrà eseguito.

 
In un attimo, Rigsby gli ha ammanettato i polsi. Sembrava quasi che non gliene importasse. È stato allora che sono scoppiata. È stato allora che ho perso la calma. Mi sono scagliata contro di lui, dopo aver messo la pistola nella fondina. Nonostante fosse molto più grosso di me gli ho afferrato i lembi della camicia e ho cominciato a tirare, urlando.
- Perché? – strillai.
Lui sorrise, come se fosse divertito da quella reazione così spontanea.
- Per concludere ciò che lui ha lasciato in sospeso –
Sentii delle mani afferrarmi la vita e strapparmi via. Ero così arrabbiata che non riuscivo a respirare. Fu allora che capii: era un mostro. Un mostro esattamente come lo era stato John il Rosso.
 

Non commetterò errori.
Moriranno. Tutti.

 
 
Cho
Strappai Grace dal petto di LaRoche, tirandola via con tutte le mie forze. Quasi mi sentii debole per lo sforzo che avevo fatto, o forse per la rabbia che sentivo montare dentro.
 

Patrick Jane. Anche lui morirà. Il coniglio smetterà di scappare e il suo carnefice lo caccerà fino all’ultima goccia di sangue che sarà in grado di versare. Non mi fermerò fino a che non l’avrò trovato. Sarà mio. E sarà la vittima per te. Ti ricorderò nel momento in cui il mio coltello penetrerà la sua carne. E allora il tuo volere sarà compiuto e io potrò ritirarmi e lasciare tutto in mano ai tuoi seguaci.
 

 
Rigsby lasciò LaRoche a degli agenti e noi cominciammo a perquisire la casa. Teresa era rientrata e ci stava aiutando. Sui nostri visi era palese il sentimento che ci legava tutti: la rabbia. Il disprezzo per un uomo che aveva tradito il suo stesso giuramento per unirsi a un pazzo assassino. Un uomo che aveva rinnegato i suoi colleghi e li aveva condotti al patibolo. L’uomo che aveva tentato di uccidermi, e che presto avrebbe ucciso tutti gli altri.
L’uomo che dava la caccia a Jane.
 
 
Teresa

Puoi fidarti di me. Il tuo segreto è al sicuro. La tua opera verrà compiuta. Kristina verrà liberata a breve. Ho già inviato una lettera ad alcuni amici. Sanno già come fare, sono pronti a liberarla. Quando anche lei verrà ad unirsi alla mia battaglia, la vittoria sarà assicurata. Forse le lascerò l’onore di uccidere Teresa Lisbon, ma solo se farà in modo di meritarselo. E alla fine del gioco, loro saranno morti.
E noi avremo vinto.
Addio, mio caro amico.

 
 
Fu in quel momento che la trovammo. La cassaforte in cui trovammo le lettere. Trovammo anche una ricevuta di un pagamento avvenuto poco prima del matrimonio. La somma che LaRoche aveva promesso a Milito dopo averlo assoldato, era stata versata sul suo conto. Quello incastrava Milito e LaRoche allo stesso tempo. La presenza delle lettere, lo coinvolgeva come principale complice di John il Rosso. Non l’avrebbe fatta franca. I giudici sarebbero stati molto più severi del normale, nonostante si trattasse di un ex poliziotto. Un poliziotto che aveva tradito il suo giuramento.
 
Scossi la testa e tornai al presente. Gli altri erano seduti intorno al tavolo e guardavano il legno come se stessero contemplando la stessa cosa che contemplavo io: le ore precedenti.
Mi riscossi per prima.
- Andiamo ragazzi – mormorai – Abbiamo chiuso questo caso. Ora dobbiamo pensare ad andare avanti –
- Un piccolo errore, un solo sbaglio, e saremmo morti tutti – rispose Cho.
- E Kristina sarebbe stata liberata – aggiunse Grace.
- E Jane… – iniziò Rigsby.
Un fremito generale scosse tutti. Me compresa. Persino la bambina scalciò. Rigsby scosse la testa e rinunciò a ciò che stava per dire.
Abbassai lo sguardo sul tavolo, improvvisamente stanca. Non avevo voglia di farmi coraggio, né di dare coraggio agli altri. Ormai era successo. Avevamo sventrato l’ennesimo tentativo di John il Rosso di ucciderci tutti. Combattevamo contro di lui anche dalla tomba. Cosa potevamo fare se non lottare? Ormai non ci restava altro. E ora che era finita, potevamo starcene seduti in pace a rivivere quelle ore infernali.
Dopo una breve telefonata, Cho era venuto a sapere che due criminali già conosciuti avevano cercato di fare evadere Kristina, ma erano stati presi dalle guardie. Infondo, il piano di LaRoche non era così efficace. Possibile che John lo considerasse il suo più fedele seguace? Di sicuro, non era superiore a lui. Ogni piano di LaRoche era fallito. E ora giaceva in carcere, pronto a essere condannato. E noi ce ne stavamo lì, a riflettere su quanto avevamo rischiato.
Mi alzai per prima, risvegliando gli altri, e tornai nel mio ufficio.
Il lavoro era finito. Ma per me no. Mi mancava un’ultima cosa da fare. Il pensiero delle parole di LaRoche aveva risvegliato in me il desiderio di sapere chi fosse il mio generoso donatore… soprattutto perché pensavo di sapere chi fosse. Ero così ingenua. Come potevo non averci pensato prima.
Durante una pausa caffè, poco prima della svolta nel caso Milito/LaRoche, avevo chiesto a Grace come rintracciare i versamenti sui conti correnti. Grazie a un mandato e alle sue abilità, mi misi al lavoro in fretta e furia, ansiosa di saperne di più. Una leggera contrazione mi prese la pancia. Secondo il medico era normale, soprattutto in momenti di forte stress. Non mi preoccupai e continuai a digitare freneticamente sulla tastiera. Sembravo una versione più lenta di Grace. In poco tempo trovai quello che cercavo.
Il versamento era stato effettuato nel Burundi, a Bujumbura. Chiamai l’ambasciata e dopo infinite ore di attesa e di passaggi di chiamata, rintracciai la persona giusta, che stilò un mandato speciale per farmi avere informazioni su quel versamento. Riuscii a convincerlo che ne andava della sicurezza di una delle agenti del CBI e quindi un livello più contenuto di un protocollo per la sicurezza Nazionale. Fui abbastanza convincente, in effetti.
Così arrivò la risposta.
Quella giornata era iniziata con un omicidio. Il giorno successivo era arrivato l’arresto, l’arresto di un agente corrotto. L’arresto di LaRoche, poliziotto e seguace di John il Rosso. Era arrivato l’arresto di Bryan Milito, un malato che voleva solo avere un’occasione in più per vivere. Un poliziotto corrotto, un assassino, aveva giocato con le sue paure e con i suoi desideri.
Era iniziata così.
E poi la verità: per tutto quel tempo, Jane aveva cercato di aiutarmi. Mi aveva mandato dei soldi, aveva fatto in modo di sostenermi. Come se sapesse la verità. Come se avesse veramente saputo del bambino.
Fu in quel momento che capii che quei due giorni non erano ancora finiti. C’erano altre domande a cui rispondere.
Perché Jane aveva versato quei soldi? Sapeva forse del bambino? E se sì, come faceva a saperlo?
Chiamai Grace, perché era l’unica persona che poteva aiutarmi a non impazzire del tutto. E mi resi conto, per l’ennesima volta, che quella sarebbe stata la giornata più lunga della mia vita.
 
E avevo ragione. Quella giornata mi stava distruggendo. Guardai Grace sbigottita, avvilita anche. La guardai con tristezza e rabbia, come se non riuscissi a credere a tutto quel che stava succedendo. Il cuore mi impazziva nel petto, il sangue mi si riversava sul viso, bollente.
La piccola scalciava.
- Tu… cosa avresti fatto? – le domandai, mettendo una mano avanti come a enfatizzare.
Grace si alzò dalla poltroncina dove un tempo si era seduto Jane per ipnotizzarmi – Gliel’ho detto. Gli ho detto che aspettavi una bambina. – rispose semplicemente, allargando le braccia.
- E, sentiamo un po’, con che diritto? – le chiesi, alzandomi a mia volta a aumentando il volume della voce quasi senza accorgermene.
Mi girava la testa. Non potevo credere che lui sapesse. Ma, più che altro, non volevo ammettere a me stessa che la mia più grande paura fosse che non sarebbe più tornato, adesso. Magari spaventato, magari incerto. Sentivo che l’avrei potuto perdere. Mi aveva promesso di tornare, ma quanto dare credito a delle parole scritte in un momento in cui l’amore, se d’amore si era mai veramente trattato, era forte e deciso?
- Io credevo che... insomma, lui è il padre. Deve prendersi cura di te! – si difese lei, lasciando cadere le mani lungo i fianchi.
- Io non so se lui è il padre, Grace! – gridai, portandomi una mano alla fronte e iniziando a fare su e giù per la stanza – Lo vuoi capire? –
- Ma lui aveva il diritto di saperlo lo stesso! In questo modo potrebbe anche... –
- Cosa? Potrebbe tornare? Tu credi davvero che dirgli che sono incinta lo spronerà a farsi vivo? – esclamai, gli occhi dardeggianti.
- Patrick è un brav’uomo alla fine... –
Si arrampicava sugli specchi, letteralmente. Gli occhi chiari saettavano sui miei, senza riuscire a focalizzarsi. Le guance rosse, le labbra tremanti: tutto mi dimostrava come si sentisse allo stesso tempo in colpa e in ragione. La cosa mi irritò ancora di più.
Volevo bene a Grace, anche se in quel periodo sembrava quasi fossimo coalizzate nei litigi.
- Non tornerà di certo per la bambina! Non siamo in  una fiaba, Grace! – dissi bloccando le braccia sui fianchi.
Una fitta mi trapasso la pancia, ma lasciai perdere. Ero troppo presa dalla discussione.
- Ma... –
- Da quanto tempo glielo hai detto? – chiesi, in tono di scherno.
- Quattro, cinque mesi. – rispose dopo qualche minuto. Affranta.
A quel punto, anche le mie più rosee aspettative crollarono. Non posso mentirvi, ma anche se avevo smesso di credere alle favole da molto tempo non avevo mai smesso di sperare che se mai Jane fosse venuto a conoscenza della bambina si sarebbe fatto vivo al più presto. Ma in cinque mesi aveva avuto solo la geniale idea di passarmi dei soldi.
Niente da dire, anche la peggiore ex moglie del mondo avrebbe potuto dire che da parte dell’ex marito, un contributo del genere era un qualcosa di fin troppo sostanzioso.
Ma io e lui non eravamo certo divorziati. A dire il vero non sapevo neppure come definirci. Eravamo mai davvero stati insieme? Mi aveva mai amata davvero? Era stata tutta una grande presa di giro? A questo punto non riuscivo più a capire cosa stesse capitando. Lui aveva detto di amarmi e io continuavo ciecamente a credergli.
Ma sarebbe tornato davvero? O sarei rimasta ad aspettarlo per troppo tempo, fino a che avrei perso gli anni della mia vita dietro a un sogno irrealizzabile?
- Teresa, va tutto bene? – mi chiede Grace, mettendomi una mano sulla spalla.
Io la guardai irata. No che non andava bene. Niente andava bene.
- Io non so proprio cosa ti sia saltato in testa... non ti prova… - dovetti interrompere la mia arringa, perché una fitta mi aveva spezzato il fiato. Uno strappo che partiva dall’ombelico e finiva all’inguine. Trattenni il respiro, aspettando che il dolore passasse.
- Teresa! – esclamò Grace, indicando il pavimento. E a quel punto la mia mente si spense.
L’ultima parola che mi balenò nella testa, prima di rendermi conto di cosa stava accadendo, fu una soltanto.
Patrick.
 
Dolore. Dolore insopportabile e insostenibile. Urlavo, stringevo i denti, insultavo tutte quelle persone che mi circondavano. Odiavo tutti.
Imprecavo, pregavo di essere uccisa, di essere liberata da quella vita che mi aveva solo fatta soffrire.
Gridavo di lasciar perdere, di smetterla, di togliermi di dentro quella cosa che mi stava facendo soffrire così tanto.
Non riuscivo neppure a chiamarla con il nome che le avevo dato, alla mia bambina.
Odiavo ogni cosa mi stesse attorno.
E gridavo. E spingevo.
I nervi tesi sul collo, le braccia arpionate al lettino, la bocca spalancata alla ricerca disperata di un respiro. Le lacrime a solcarmi il volto.
Mai, mai in tutta la mia vita avevo provato un dolore fisico più grande.
Non tutte le contusioni, tutti gli attriti, tutte i colpi presi durante il mio lavoro. Non i proiettili.
Mi ero sempre lamentata dei dolori di tutti i mesi. Dei mal di testa. Dei mal di schiena.
Che stupida.
Dolore.
Pulsante.
Gridai di nuovo.
Mi arrivarono delle parole, lontane. Dicevano qualcosa come “Spinga, ci siamo quasi. Un ultimo sforzo. E’ fuori...”
Mi dimenai, qualcuno mi fece pressione poco sotto lo sterno.
Spinga.
Mi faceva male anche la gola. Ma quasi non la sentivo.
Ci siamo quasi.
Guardai le persone che mi circondavano, nei loro camici verdolini. Una donna stava piegata davanti a me, si vedeva solo un cappellino color salmone spuntare da là sotto.
Mi gettai indietro con la schiena.
Un ultimo sforzo.
Giurai al cielo che Patrick me l’avrebbe pagata per questo. Anche se non sapevo se era davvero figlia sua, avrebbe pagato. Avrebbe pagato perché sì, perché indipendentemente da tutto lui meritava di sapere quanto mi aveva fatta soffrire, in tutto e per tutto.
E’ fuori.
Gridai un’ultima volta. Poi la vista mi si appannò e un pianto si riversò nell’aria.
Respirai a fatica. L’aria sibilava passando tra le mie labbra pallide e attraverso i denti, fino alla gola dove briciava, quasi scorticando la pelle viva. Un sapore amaro e salato in bocca.
Dovevo essermi morsa la lingua.
Qualcuno ridacchiò e poi qualcosa di caldo mi fu posato sul petto. Aprii gli occhi e osservai tra le lacrime quell’esserino minuscolo che piangeva su di me. Con le braccia tremanti la presi e la avvicinai al volto, la mia Zoe.
Era piccola e con una zazzera di capelli nerissimi sulla testa. Gli occhi erano chiusi, nascosti sotto le palpebre serrate e leggermente gonfie. La abbracciai, quasi dimentica del dolore che avevo appena finito di provare.
Una dottoressa me la tolse dalle braccia con delicatezza, mormorando qualcosa riguardo al “lavare” e “riposare”.
Ero madida di sudore, ma finalmente il respiro si stava regolarizzando.
Mi sentivo svuotata e contemporaneamente riempita.
Era una strana sensazione.
E poi, mentre osservavo la luce giallognola del neon sopra i miei occhi, mi addormentai.










Dice l'autrice:
Non ho molto da aggiungere se non che spero di ricominciare a pubblicare più spesso adesso. Spero, ma non vi assicuro niente...
Che altro posso dire? Spero che questo capitolo vi sia piaciuto e che mi perdoniate per questo mostruoso ritardo.
Wow. Che parto che è stato. Fin troppo simile a quello di Teresa. Fiuh...
Beh, sì, questo è quanto. 
Sasita è tornata con una delle sue long, gente. Recensite, mi raccomando! 

Sasy
 
   
 
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