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Autore: direiellie    20/02/2012    1 recensioni
Vecchia fanfiction ispirata al film 'X-Men Le Origini: Wolverine.' (con pochi altri riferimenti agli altri film della saga) che ho deciso di portare avanti dopo un periodo di pausa abbastanza lungo.
Logan & Emily. Quello che ruota fuori e dentro loro lo scoprirete assieme a me.
Genere: Fantasy, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: James 'Logan' Howlett/Wolverine, Nuovo personaggio
Note: Movieverse | Avvertimenti: Incompiuta
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La mattina seguente quando aprii gli occhi guardai istintivamente l'orologio della cucina, erano circa le 9:30 e il silenzio della casa era sovrano. Prima di elaborare freneticamente le ultime 48 ore pensai di trovarmi nella mia stanza, pronta a gestire un nuovo giorno organizzato la sera precedente, prima di addormentarmi, insieme ad altri mille perché. Fissai per un attimo il soffitto e dopo parecchi minuti mi alzai. Pensai subito dopo a Logan, non sembrava essere in casa; lo immaginai al lavoro tra qualche albero, con la motosega in mano. In cucina trovai un biglietto sul tavolo.
"Sono a lavoro, nel frigo c'è il latte e nella dispensa i cereali, per pranzo fai come se fossi a casa tua"
Sorrisi, sorpresa, non conoscevo Logan, ma tutto mi sarei aspettata di trovare di su quel tavolo, tranne quel post it. 
Mi piaceva l'aspetto della sua camicia su di me. Gironzolai un po' per il soggiorno, curiosa quasi come al solito, poi andai in bagno per cambiarmi e rinfrescarmi, mettendoci più tempo di quanto me ne servisse. Di certo il tempo non mi mancava.
Quando uscii dal bagno per prima cosa misi il post it nello zaino, e con addosso i vestiti di giorni prima pensai che avrei dovuto farmi al più presto un guardaroba. Collegai l'idea ai pochi risparmi che avevo avuto possibilità di portarmi dietro che, certo, sarebbero bastati per qualche giorno, dopodiché? L'idea di chiedere ulteriore aiuto a Logan non mi piaceva. Decisi che avrei pensato a questo la sera, al suo ritorno. 
Non avevo ancora avuto la possibilità di guardare l'intera casa, così, approfittando della sua assenza, feci anche un giro di esplorazione. Il pensiero che poco o niente avrebbe tenuto occupati i miei pensieri mi spaventava molto, per questo ci misi più del dovuto anche in questo.
Oltre la grande sala che affiancava la cucina e un piccolo bagno, la casa che mi ospitava era costituita da altre stanze. Al piano superiore vi era un secondo bagno in cui non avevo osato entrare, ma che avevo visto solo sulla soglia pensando di non voler invadere ulteriormente la privacy di Logan, cosa che però non riuscii a raccontarmi per restare sulla soglia anche di quella che era la sua camera da letto. Il letto matrimoniale affacciava su un'immensa vetrata, grande quanto tutta la parete frontale, e identica a quella che, al piano inferiore, affiancava il divano del soggiorno, ormai il mio nido. Poche altre cose riempivano la sua stanza, e tutte di legno. Un comodino, uno solo, dal suo lato, un comò e un armadio più grande sulla parete di destra. Magari una mensola al suo interno sarebbe spettata a me prima o poi. Il pensiero di avere un'altra casa mi distruggeva, odiavo i cambiamenti come poche altre cose, ma quelli radicali, a volte, facevano al caso mio. Il pensiero di affezionarmi ad una casa che non era la mia mi metteva il panico, ma mai come adesso, in camera di Logan, desideravo che fosse quella la casa di cui avevo bisogno. Posai involontariamente la mano destra sul suo copriletto, accarezzai le lenzuola velocemente, come se mi stesse aspettando qualcuno al piano di sotto, e uscii. La scala che divideva i due piani era una delle cose che mi piacevano di più. In legno anch'essa aveva disegni sul corrimano che mi ricordavano la foresta in cui l'avevo trovato, o lui aveva trovato me. Mi ricordava quel che sognai la notte accompagnata da terriccio umido, anche se nessuna di quelle immagini aveva contorni, niente di messo a fuoco.
Sulla soglia di casa la mattina di Canadian Rockies mi dava il buongiorno, quel che circondava la dimora di legno e vetrate sembrava essere dominato solo da Logan. Mi sentivo l'ospite indesiderato di una tranquillità diversa da quella a cui la mia modesta solitudine era abituata, una tranquillità che ancora non mi apparteneva. Tutto raccontava Logan, dal primo filo d'erba che mi sfiorava le scarpe alla punta della montagna più alta che toccava il cielo.
Avrei voluto scendere anche io in città, non conoscevo nulla di quel posto, ma l'instabilità dentro la quale ancora mi trovavo me lo impedì, così come la paura di lasciare quella casa, unico punto di riferimento, per non trovarla al mio ritorno, e con lei Logan.
Ritrovai lo stato d'animo nato guardando le montagne, gli alberi, il sentiero che con la roulotte ero arrivata su quella collina e quello che con il pick up Logan aveva raggiunto un'altra giornata di lavoro, la città in lontananza... e decisi di riprendere in mano l'album da disegno che avevo sempre con me, seduta sul retro della casa. Il vento che di tanto in tanto mi sfiorava i capelli spezzava i pensieri autodistruttivi che elaborava la mia mente sopra la mano destra che impugnava la matita da disegno. Così occupai il resto della giornata e al rientro di Logan sobbalzai un poco, sentendo i suoi passi pesanti sul parquet dell'ingresso.
«È molto bello» il respiro che chiuse la frase mi scostò la ciocca di capelli che avevo dietro l'orecchio destro.
«Grazie, ho perso un po' la mano.» posai la matita ormai priva di mina e lo guardai. «Il lavoro?» 
Dannazione, non avrei voluto chiederlo, sarei sembrata una sorta di finta moglie che lo stava aspettando a casa, che assurda visione, la buon'educazione mi fregava sempre. Si accorse del mio imbarazzo.
«Ce l'ho ancora» si alzò da terra per rientrare in casa. Raccolsi i fogli precedentemente strappati e accartocciati e le matite, piegai l'album e lo seguii.
«Ehm, grazie del post it» mi piaceva, ci avevo rimuginato su per la maggior parte del tempo in cui stavo disegnando l'essenza di quel luogo. Mi guardò dubbioso, se avesse avuto voglia di rispondere mi avrebbe detto che non era un tipo di azione che meritava gratitudine o qualcosa del genere. Cambiai subito discorso.
«Ho pochi soldi con me, basteranno per qualche giorno contando che dovrò farmi un qualcosa che assomigli a un guardaroba... non sono mai stata giù in città, forse dovrei trovarmi un lavoro, forse... non lo so...»
Durante il giorno non sembrava così difficile esporre la situazione in cui mi trovavo, mi pentii di averne parlato per prima.
«Un lavoro? Quanti anni hai?» osò un mezzo sorriso provocatorio mentre si aprì una birra, appoggiandosi al top della cucina. Ripensai ai casini "adolescenziali" in cui pensava fossi.
«Ho vent'anni» dissi forzandomi, aspettando la sua ovvia reazione.
«Prrfff!» 
Sputò l'ultimo sorso di birra sul tavolo di fronte, portando alla bocca il pugno in cui stringeva ancora la lattina. 
«Cosa?»
Non riuscii a trattenere la risata, gli si leggeva in faccia l'innocenza con cui era sicuro di ciò che sapevo stesse pensando. Feci una smorfia. Vidi il suo sorriso ampliare. 
«Aspetta, non dire niente, lo dico io al posto tuo: cosa? Vent'anni? Te ne avrei dati quindici se non di meno» gesticolai «tu quanti ne hai? È alle donne che non si chiede, dopo tutto, quindi diciamo che per logica merito la risposta.»
Ancora incredulo si sfiorò le lunghe basette, pensieroso.
«Beh, i miei non contano, dopotutto.»
«E allora nemmeno i miei.» 
Sorrisi e girai i tacchi. Sentii il suo sguardo sulle mie spalle.

 

   
 
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