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Autore: TonyCocchi    20/02/2012    5 recensioni
Attraverso i vari momenti della storia russa, ecco la storia della vita del nostro Russia, Ivan Braginski, sin da quando era un bambino che non conosceva ancora i girasoli. La sua famiglia, le sue battaglie, come crebbe, come divenne, pian piano, così grande.
[Accenni di Russia X Ucraina]
Genere: Avventura, Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Bielorussia/Natalia Arlovskaya, Polonia/Feliks Łukasiewicz, Russia/Ivan Braginski, Turchia/Sadiq Adnan
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Hetalia - Russia (storia)

Un caloroso “Ehilà a tutti!” dal sottoscritto ai lettori di questa mia nuova e ambiziosa fic. Talmente ambiziosa che non so se riuscirò a portarla avanti con costanza ora che tra breve ricominceranno i corsi alla mia università, ma spero comunque che l’ispirazione e il tempo di scrivere non manchino e che il risultato vi piaccia! ^_^

In caso contrario, trasformerò la fic unitaria in una serie di one-shot; si vedrà…

Lo spunto iniziale è la mia passione per il personaggio di Russia, di cui vorrei proporvi (grazie wikipedia per le preziose informazioni) la sua storia, sin da quando l’enorme e ambizioso Ivan Braginski non era che un figlioletto di uno dei piccoli tanti stati della Russia di allora.

Buona lettura, spero vi piaccia (anche perché per scrivere solo questo primo capitolo, sei pagine di word, ci sono volute quasi tre ore! XD)!

 

PS: GERMANIA X ITALIA ORA E SEMPRE!

 

PPS: Colonna sonora consigliata per il capitolo: http://www.youtube.com/watch?v=7CbxBiPArkc

 

 

 

CAPITOLO 1 – La scoperta dei girasoli

 

 

I larici si innalzavano rigogliosi e altissimi tutto intorno. Il sole riusciva a giungere alla terra solo in sparute chiazze dai contorni frastagliati.

Un tappeto di foglie, pigne ed aghi secchi si spandeva sotto di essi, dove quel giorno, in cui la primavera aveva inizio, una donna portava il proprio figlioletto in braccio attraverso il bosco, senza fatica e senza paura, verso la sorpresa che gli aveva promesso.

Ad ogni passo, un crepitio saliva su alle loro orecchie e a quelle degli alberi più in alto ancora. Al suo passaggio, i lembi della tunica bianca e del mantello di pelliccia carezzavano il suolo appena calpestato.

La donna sembrava sapere così bene dove stava andando da non preoccuparsi minimamente dei pericoli che potevano incorrere, tutti soli, racchiusi nell’ombra e nel silenzio della foresta.

Era fiducia. Fiducia nella terra che calpestava, e nella natura che la circondava.

Una fiducia che venne onorata e ricambiata, poiché nulla turbò lei, o il bimbo, lungo il faticoso tragitto. Gli abeti, signori della foresta, e le loro bianche sorelle betulle sembravano farsi da parte al loro passaggio, scortarli, guardarli con tenerezza e giurar loro protezione dai pericoli che dietro di essi potevano star nascosti.

Lei aveva l’aspetto di una chioccia, florida in viso e in corpo, con un sorriso sempre presente tra le grandi guance; i capelli rossicci come foglie d’autunno scendevano tortuosi dietro le sue spalle.

Le braccia, altrettanto paffute ed altrettanto forti, reggevano un bambino che nell’aspetto non aveva che pochi anni, coi capelli così chiari da sembrare più bianchi che biondi. Si reggeva al vestito e alla spalla della madre, e mostrava, al centro del viso innocente, il suo identico buffo nasone.

Oltre al colore dei capelli, solo un altro dettaglio distingueva quella gigantessa e il suo degno frutto: gli occhi di lui, curiosamente viola.

“Manca molto?” chiese il piccolo.

“No, la tua sorpresa è lì: dove gli alberi finiscono.”

Il bambino guardò in avanti e socchiuse gli occhi, perché da lì la luce, approfittando dell’ombra che si diradava e infine spariva, si divertiva a fargli il dispetto di abbagliarlo con dei piccoli lampi.

“Che sorpresa è?”

“Voglio mostrarti qualcosa che ti piacerà.”

Cosa poteva esserci di così bello da far decidere a sua madre di fare tutta quella strada da nord? Non si era stancata? Meno male che non faceva più tanto freddo in quel periodo, altrimenti coi suoi piedi scalzi avrebbe faticato molto di più.

“Ecco.”

Proprio allora, invece di spalancarli, strinse i suoi occhi, bruciati dall’improvviso sbucar fuori dal bosco.

Allora la mamma gli prese la mano dietro cui si era riparato e la scostò piano, dicendogli dolcemente: “Guarda, Russia.”

I suoi occhi si abituarono e il fiato del bimbo venne mozzato dallo scoprirsi in cima ad un declivo, oltre il quale si stendevano ampie e verdi pianure fino all’orizzonte, solcate da enormi fiumi di cui sembrava poter sentire il potente rombo, e, portando di nuovo l’occhio vicino, appena sotto di loro, vide anche un ondulante prato di alti steli, che terminavano in tante punte acuminate del colore dell’oro.

“Ti piacciono?”
“Che cosa sono?”
“Andiamo a vederli più da vicino, su!” disse iniziando ad avventurarsi con cautela giù dalla pur dolce discesa, per raggiungere il campo con quegli strani fiori.

Russia però non guardava solo quei fiori, guardava tutto.

Non aveva mai visto così tanta… luce.

Quando per la prima volta gli avevano detto che il colore vero del cielo era l’azzurro e non il grigio chiaro aveva pensato ad uno scherzo: vedeva quasi sempre il secondo e quasi mai il primo dopotutto.

Quando per la prima volta gli avevano detto che lontano c’erano persone che non avevano bisogno di camini per sentire il caldo, si era sentito triste di essere nato in un posto così gelato.

Ma allora quanto si erano spinti lontano per vedere tutto ciò?

Il freddo c’era ancora; il vento soffiava arrossandogli labbra e guance, dandogli la sicurezza di essere ancora a casa; ma il cielo era dell’azzurro più bello che avesse mai visto, l’erba, gli arbusti e le coltivazioni sotto quel cielo erano di un verde così luminoso che sembravano brillare da sole, e la neve sembrava solo un lontano ricordo.

Tutto era così chiaro agli occhi, tutto così allegro e colorato.

Tornò col naso all’ingiù e si vide circondato da quegli strani fiori, immerso sempre più in quel laghetto giallo, via via che sua madre, Moscovia, avanzava lentamente nel fitto degli steli.

Non erano belli come i fiori che le bambine si facevano mettere nei capelli dai genitori nei giorni di festa, scuri e pelosi dentro e tutti appuntiti fuori, ma a lui piacevano.

“Che cosa sono?”
“Si chiamano girasoli. Si chiamano così perché seguono il sole. Osserva: hanno tutti la “faccia” rivolta verso di lui.”

Quel dettaglio così strano lo fece di nuovo sospirare dalla sorpresa.

“Lo seguono: sanno che sono vivi grazie a lui e quindi lo accompagnano per tutto il suo tragitto di giorno. Poi vanno a dormire, e non appena lui rispunta si svegliano e si voltano a salutarlo, contenti di rivederlo.”

Ormai Russia aveva la certezza che nessuno di quei fiorellini che aveva visto fino a quel momento potevano competere con loro, così grandi e così… vivi!

“Posso prenderne uno? Voglio portarlo a casa! Però… Da noi il sole non c’è quasi mai…”
Moscovia rise: “Ma cosa dici?”
Lo posò a terra: “Raccoglilo pure.”
“Posso?”
“Avanti!”

L’aveva portato lì per quello in fondo.

Russia ne cercò con gli occhi uno speciale, e quando anche se era uguale a tutti gli altri fu completamente certo di averlo trovato, lo afferrò con le mani avvolte dai guanti senza dita e lo tirò fuori dal terreno.

Lo guardò: era quasi più alto di lui.

Moscovia si inginocchiò: “A lui il sole non mancherà, e lo sai perché?”

Russia, abbracciato al suo primo girasole, fece no con la testa.

“Perché siamo già a casa, non devi portarlo da nessuna parte. A te sarà sembrato lontano, ma in realtà anche questa è la nostra terra. La tua terra.”

Incredulo, Russia si guardò intorno, ma piccolo com’era, poteva vedere solo il fitto di steli o farsi finire negli occhi le foglie.

Allora lei lo sollevò, afferrandolo sotto le braccia, e gli mostrò nuovamente il campo, il paesaggio che lo circondava, il bosco di sempreverdi da cui erano venuti, il grande cielo sopra di lui.

“Tu sei anche questo, Russia.”

Spazi immensi. Vento che non da solo i brividi, ma spazza l’aria, la fa linda e profumata, fa sembrare vivi alberi e fiori, danzare l’erba. Luce che brilla in un modo che in quei paesi dove il sole picchia sempre e l’aria è sempre calda e pesante non conoscono.

“Io…”

“Si…”

Lo sistemò tra le sue braccia e lo baciò in fronte.

“Ascolta, Russia…” –disse guardando negli occhi il bimbo- “Il fiore che hai in mano segue sempre la luce, anche tu devi essere così. Per quanto possa fare freddo, per quanto le nuvole e la pioggia possano tenerti al buio la maggior parte del tempo, per quanto il posto dove vivi potrà sembrarti difficile e malvagio, o insensibile, o addirittura morto, ricordati che dietro le nuvole il sole c’è sempre, e vuole che tu lo segua. Perché da lui c’è la vita… il calore… l’amore…”

Forse Russia era troppo piccolo per quelle parole così difficili. Le aveva ascoltate a bocca aperta, colto dai brividi, affascinato dal tono della sua voce e dal misterioso e bellissimo messaggio che voleva trasmettergli, che forse avrebbe presto dimenticato.

Sperando non fosse così, Moscovia lo baciò di nuovo sulla fronte, e poi avvolse nella sua enorme mano la manina che stringeva il girasole.

“Segui sempre il sole.”

“Si, mamma!”

La abbracciò e poi, ridendo, ricominciò a guardarsi intorno, perché non ne aveva ancora avuto abbastanza… di sé stesso! Per vedere meglio, chiese alla mamma di sollevarlo sulle sue spalle.

Cominciò a scrutare da tutte le parti, come una vedetta, mentre lo reggeva per le caviglie e col robusto collo.

“… Oh! Guarda!”

Si girò verso sinistra e vide, nell’erba alta che si stendeva in quella direzione, subito dopo i girasoli, una sagoma alta e slanciata farsi largo tra le spighe e venire nella loro direzione. A quanto pare qualcun altro aveva approfittato della bella giornata per andare a passeggio.
“Zio Kiev! È zio Kiev!”

“Che sorpresa!” si rallegrò anche la mamma.

“Andiamo da lui!”
“Va bene.”

Uscirono dal campo e il mare brillante di fili, alcuni dorati, altri di tanti altri tipi di verdi chiari, li carezzò al loro passaggio.

Infine, arrivarono abbastanza vicini all’uomo da riconoscerne la lunga chioma bionda, i lineamenti, e infine il sereno sorriso.

“Moscovia.” la salutò, omaggiandola chinando di poco il capo.

Il principato di Kiev, il più rispettato e potente tra coloro che abitavano la Rutenia al di qua degli Urali, nonché suo zio preferito, nell’aspetto si dimostrava per certi versi più giovane rispetto alla madre, per il volto rasato, il candore della propria pelle, il fluire della chioma di fili d’oro, simile a quella di una donna.

Ma per altri, invece, come era in realtà, ben più vecchio: il bel viso aveva i lineamenti maturi, decisi che sembravano scolpiti, era magro, ma molto alto, e ben dritto, solenne, tutt’uno con la sua tunica verde scuro. Questa scendeva dal collo ai piedi, tenuta in vita da una cintura di cuoio dalla fibbia argentata, da cui solitamente, ma non quel giorno, pendeva una spada; sul verde spiccavano vari inserti dorati, e gli orli delle maniche in pelliccia.

“Kiev.” –si inchinò lei, più profondamente- “Mi fa piacere rivederti.”

Moscovia si accorse che, esattamente come lei, il suo figlioletto stava ammirando con gli occhi spalancati ciò che Kiev si era portato lì quel giorno al posto della spada.

“Non dirmi che quella che hai in braccio è tua figlia!” si congratulò la paffuta Moscovia.

Il chiarore di Kiev lasciò il posto a un paterno rossore: “Lei è Ucraina.”

Moscovia e il potente principato non si vedevano da un bel po’, e la novità la riempì li gioia. La bimba, che nascondeva la faccia contro quella del papà, indossava una veste bianca con una mantellina gialla, e portava calde scarpette di pelle come quelle che era riuscita a comprare a Russia per il suo ultimo compleanno.

“Posso vederla?” chiese proprio lui, scalpitando un po’ per far capire alla madre che voleva si avvicinasse.

Come lei fece un passo avanti, Russia iniziò già ad allungare una mano cercando di toccarle una spalla; forse così si sarebbe girata, ma non ci arrivava.

“Ucraina, dai, salutalo!” la incoraggiò il serafico Kiev, e la piccola si voltò.

Aveva gli occhi grandi e azzurri, e i capelli di un biondo chiarissimo, come quelli del bimbo; pallido in confronto all’abbagliante giallo del girasole che ancora stringeva forte nella sua mano, ma capace di restituire agli occhi tanti bellissimi riflessi grazie a quel sole primaverile così sfavillante. Erano tagliati corti, e cadevano in avanti giù sulla fronte, e sui lati giù fino alle orecchie.

Ad Ivan sembrò che indossasse come una scodella d’oro per cappellino.

“È la bambina più bella del mondo!”

“Oh, ma sentitelo il nostro piccolo corteggiatore!” -rise Moscovia- “Perché non le dai un bacino allora?”

Lui era sulle spalle della madre, ma la differenza era colmata dall’altezza dello zio e così, ben sorretto dalla sua mamma, poté sporsi per toccarle la guancia con le labbra.

“Io sono Russia.” si presentò prima del tocco.

Ucraina non conosceva ancora molte parole per capire, o per esprimere i propri sentimenti, ma doveva essere contenta quanto lui. Infatti sorrise, e poi tornò a nascondersi.

“Bel fiore quello che hai lì.” sviò il discorso Kiev, carezzando la testa alla sua timidissima primogenita.

“Grazie!” –sorrise Russia- “Con questo saprò sempre dov’è il sole, anche quando fuori c’è la bufera!” –spiegò, agitandolo entusiasta.

“Russia, adesso sarà meglio avviarci a casa: se non gli diamo acqua e un po’ di terra seccherà.”

“Oh, no! Non voglio che muoia!”
“Allora andiamo, che al villaggio potrebbero stare in pensiero. Saluta lo zio ed Ucraina.” -disse, accomiatandosi con un secondo inchino.
“Ciao zio Kiev! Ciao ciao Ucraina!”

“Ciao Russia. Buon viaggio Moscovia.” salutò il principato, mentre Ucraina provava ad imitarlo, agitando la mano come faceva lui.

“Russia sta crescendo bene, vero? Cresci presto anche tu, piccola mia.” disse riprendendo la loro passeggiatina di inizio primavera.

 

Moscovia, fattolo scendere dalle proprie spalle, lo caricò nuovamente sulle instancabili braccia, ripercorrendo a ritroso i suoi passi.

Russia continuava a guardarsi dietro le spalle, rattristandosi sempre di più mentre Kiev tornava ad essere un lontano puntino.

Beati loro, si disse, che sono ricchi e possono passeggiare quanto vogliono. Beati poi perché vivevano più giù rispetto a loro, dove il tempo era un po’ meno brutto.

Sentì la madre sospirare e riprendere fiato dopo la salita che li aveva riportati in cima al colle: il bosco di larici, smisurato, altissimo, avvolto nell’ombra, si stendeva di nuovo dinanzi a loro.

Russia diede un ultimo sguardo alla valle dietro di sé, ai suoi fiumi e ai suoi campi coltivati, e mentre i suoi occhi si riabituavano alla poca luce, le iridi viola si fissarono sul suo fiore.

Sembrava lui stesso un piccolo sole.

Lo guardò e sorrise, come fosse stato quello vero.

Anche se era finita presto, era stata una giornata magnifica.

Aveva visto per la prima volta i bellissimi fiori che seguono sempre la luce, e la bellissima bimba con la coppetta dorata sulla testa, con cui non vedeva l’ora di giocare insieme.

Aveva scoperto che il mondo in cui viveva era tanto vario, e non sempre brutto e freddo.

 

“Tu sei anche questo, Russia.”

 

Abbracciò il suo girasole e chiuse gli occhi, addormentandosi subito, cullato dal rumore dei passi di mamma Moscovia che si inoltrava nel fitto della foresta, sparendo dietro i maestosi e irti alberi, diretta verso il camino di casa.

 

 

NOTE STORICHE

Ci troviamo nella Russia del XII-XIII secolo circa. Allora ovviamente, la “Rutenia”, come la chiamavano in occidente, non era dominata da uno stato unitario, ma era invece suddivisa in un numerosi principati. Tra questi il più forte era lo stato di Kiev (l’odierna capitale dell’Ucraina), che per lungo tempo non fu solo uno dei tanti, bensì, per la sua forza e il suo prestigio, esercitò una predominanza su tutti gli altri. Questa sorta di primitiva confederazione di principati slavi prendeva il nome di “Rus di Kiev”, esteso dal Mar Baltico fin quasi al Mar Nero, dalla Polonia agli Urali; è proprio dal termine “Rus” che è derivata la parola “Russia”, ovvero il nostro (per ora “piccolo”) Ivan Braginski.

Kiev era allora una città fiorente e in stretti rapporti con l’ancora vivente Impero Bizantino. Mosca invece, da cui sarebbe un giorno ascesa la Russia odierna, era ancora una piccola e per nulla ricca città di un principato minore, chiamato Vladimir, e in seguito Moscovia.

  
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