Un
caloroso “Ehilà a tutti!” dal sottoscritto ai lettori di questa mia nuova e
ambiziosa fic. Talmente ambiziosa che non so se riuscirò a portarla avanti con
costanza ora che tra breve ricominceranno i corsi alla mia università, ma spero
comunque che l’ispirazione e il tempo di scrivere non manchino e che il
risultato vi piaccia! ^_^
In
caso contrario, trasformerò la fic unitaria in una serie di one-shot; si vedrà…
Lo
spunto iniziale è la mia passione per il personaggio di Russia, di cui vorrei
proporvi (grazie wikipedia per le preziose informazioni) la sua storia, sin da
quando l’enorme e ambizioso Ivan Braginski non era che un figlioletto di uno
dei piccoli tanti stati della Russia di allora.
Buona
lettura, spero vi piaccia (anche perché per scrivere solo questo primo
capitolo, sei pagine di word, ci sono volute quasi tre ore! XD)!
PS:
GERMANIA X ITALIA ORA E SEMPRE!
PPS:
Colonna sonora consigliata per il capitolo: http://www.youtube.com/watch?v=7CbxBiPArkc
CAPITOLO 1 – La scoperta dei girasoli
I
larici si innalzavano rigogliosi e altissimi tutto intorno. Il sole riusciva a
giungere alla terra solo in sparute chiazze dai contorni frastagliati.
Un
tappeto di foglie, pigne ed aghi secchi si spandeva sotto di essi, dove quel
giorno, in cui la primavera aveva inizio, una donna portava il proprio
figlioletto in braccio attraverso il bosco, senza fatica e senza paura, verso
la sorpresa che gli aveva promesso.
Ad
ogni passo, un crepitio saliva su alle loro orecchie e a quelle degli alberi
più in alto ancora. Al suo passaggio, i lembi della tunica bianca e del
mantello di pelliccia carezzavano il suolo appena calpestato.
La
donna sembrava sapere così bene dove stava andando da non preoccuparsi
minimamente dei pericoli che potevano incorrere, tutti soli, racchiusi
nell’ombra e nel silenzio della foresta.
Era
fiducia. Fiducia nella terra che calpestava, e nella natura che la circondava.
Una
fiducia che venne onorata e ricambiata, poiché nulla turbò lei, o il bimbo,
lungo il faticoso tragitto. Gli abeti, signori della foresta, e le loro bianche
sorelle betulle sembravano farsi da parte al loro passaggio, scortarli,
guardarli con tenerezza e giurar loro protezione dai pericoli che dietro di
essi potevano star nascosti.
Lei
aveva l’aspetto di una chioccia, florida in viso e in corpo, con un sorriso
sempre presente tra le grandi guance; i capelli rossicci come foglie d’autunno
scendevano tortuosi dietro le sue spalle.
Le
braccia, altrettanto paffute ed altrettanto forti, reggevano un bambino che
nell’aspetto non aveva che pochi anni, coi capelli così chiari da sembrare più
bianchi che biondi. Si reggeva al vestito e alla spalla della madre, e
mostrava, al centro del viso innocente, il suo identico buffo nasone.
Oltre
al colore dei capelli, solo un altro dettaglio distingueva quella gigantessa e
il suo degno frutto: gli occhi di lui, curiosamente viola.
“Manca
molto?” chiese il piccolo.
“No,
la tua sorpresa è lì: dove gli alberi finiscono.”
Il
bambino guardò in avanti e socchiuse gli occhi, perché da lì la luce,
approfittando dell’ombra che si diradava e infine spariva, si divertiva a
fargli il dispetto di abbagliarlo con dei piccoli lampi.
“Che
sorpresa è?”
“Voglio
mostrarti qualcosa che ti piacerà.”
Cosa
poteva esserci di così bello da far decidere a sua madre di fare tutta quella
strada da nord? Non si era stancata? Meno male che non faceva più tanto freddo
in quel periodo, altrimenti coi suoi piedi scalzi avrebbe faticato molto di
più.
“Ecco.”
Proprio
allora, invece di spalancarli, strinse i suoi occhi, bruciati dall’improvviso
sbucar fuori dal bosco.
Allora
la mamma gli prese la mano dietro cui si era riparato e la scostò piano,
dicendogli dolcemente: “Guarda, Russia.”
I
suoi occhi si abituarono e il fiato del bimbo venne mozzato dallo scoprirsi in
cima ad un declivo, oltre il quale si stendevano ampie e verdi pianure fino
all’orizzonte, solcate da enormi fiumi di cui sembrava poter sentire il potente
rombo, e, portando di nuovo l’occhio vicino, appena sotto di loro, vide anche un
ondulante prato di alti steli, che terminavano in tante punte acuminate del
colore dell’oro.
“Ti
piacciono?”
“Che cosa sono?”
“Andiamo a vederli più da vicino, su!” disse iniziando ad avventurarsi con
cautela giù dalla pur dolce discesa, per raggiungere il campo con quegli strani
fiori.
Russia
però non guardava solo quei fiori, guardava tutto.
Non
aveva mai visto così tanta… luce.
Quando
per la prima volta gli avevano detto che il colore vero del cielo era l’azzurro
e non il grigio chiaro aveva pensato ad uno scherzo: vedeva quasi sempre il
secondo e quasi mai il primo dopotutto.
Quando
per la prima volta gli avevano detto che lontano c’erano persone che non
avevano bisogno di camini per sentire il caldo, si era sentito triste di essere
nato in un posto così gelato.
Ma
allora quanto si erano spinti lontano per vedere tutto ciò?
Il
freddo c’era ancora; il vento soffiava arrossandogli labbra e guance, dandogli
la sicurezza di essere ancora a casa; ma il cielo era dell’azzurro più bello
che avesse mai visto, l’erba, gli arbusti e le coltivazioni sotto quel cielo
erano di un verde così luminoso che sembravano brillare da sole, e la neve
sembrava solo un lontano ricordo.
Tutto
era così chiaro agli occhi, tutto così allegro e colorato.
Tornò
col naso all’ingiù e si vide circondato da quegli strani fiori, immerso sempre
più in quel laghetto giallo, via via che sua madre, Moscovia, avanzava
lentamente nel fitto degli steli.
Non
erano belli come i fiori che le bambine si facevano mettere nei capelli dai
genitori nei giorni di festa, scuri e pelosi dentro e tutti appuntiti fuori, ma
a lui piacevano.
“Che
cosa sono?”
“Si chiamano girasoli. Si chiamano così perché seguono il sole. Osserva: hanno
tutti la “faccia” rivolta verso di lui.”
Quel
dettaglio così strano lo fece di nuovo sospirare dalla sorpresa.
“Lo
seguono: sanno che sono vivi grazie a lui e quindi lo accompagnano per tutto il
suo tragitto di giorno. Poi vanno a dormire, e non appena lui rispunta si
svegliano e si voltano a salutarlo, contenti di rivederlo.”
Ormai
Russia aveva la certezza che nessuno di quei fiorellini che aveva visto fino a
quel momento potevano competere con loro, così grandi e così… vivi!
“Posso
prenderne uno? Voglio portarlo a casa! Però… Da noi il sole non c’è quasi mai…”
Moscovia rise: “Ma cosa dici?”
Lo posò a terra: “Raccoglilo pure.”
“Posso?”
“Avanti!”
L’aveva
portato lì per quello in fondo.
Russia
ne cercò con gli occhi uno speciale, e quando anche se era uguale a tutti gli
altri fu completamente certo di averlo trovato, lo afferrò con le mani avvolte
dai guanti senza dita e lo tirò fuori dal terreno.
Lo
guardò: era quasi più alto di lui.
Moscovia
si inginocchiò: “A lui il sole non mancherà, e lo sai perché?”
Russia,
abbracciato al suo primo girasole, fece no con la testa.
“Perché
siamo già a casa, non devi portarlo da nessuna parte. A te sarà sembrato
lontano, ma in realtà anche questa è la nostra terra. La tua terra.”
Incredulo,
Russia si guardò intorno, ma piccolo com’era, poteva vedere solo il fitto di
steli o farsi finire negli occhi le foglie.
Allora
lei lo sollevò, afferrandolo sotto le braccia, e gli mostrò nuovamente il
campo, il paesaggio che lo circondava, il bosco di sempreverdi da cui erano
venuti, il grande cielo sopra di lui.
“Tu
sei anche questo, Russia.”
Spazi
immensi. Vento che non da solo i brividi, ma spazza l’aria, la fa linda e
profumata, fa sembrare vivi alberi e fiori, danzare l’erba. Luce che brilla in
un modo che in quei paesi dove il sole picchia sempre e l’aria è sempre calda e
pesante non conoscono.
“Io…”
“Si…”
Lo
sistemò tra le sue braccia e lo baciò in fronte.
“Ascolta,
Russia…” –disse guardando negli occhi il bimbo- “Il fiore che hai in mano segue
sempre la luce, anche tu devi essere così. Per quanto possa fare freddo, per
quanto le nuvole e la pioggia possano tenerti al buio la maggior parte del tempo,
per quanto il posto dove vivi potrà sembrarti difficile e malvagio, o
insensibile, o addirittura morto, ricordati che dietro le nuvole il sole
c’è sempre, e vuole che tu lo segua. Perché da lui c’è la vita… il calore…
l’amore…”
Forse
Russia era troppo piccolo per quelle parole così difficili. Le aveva ascoltate
a bocca aperta, colto dai brividi, affascinato dal tono della sua voce e dal
misterioso e bellissimo messaggio che voleva trasmettergli, che forse avrebbe
presto dimenticato.
Sperando
non fosse così, Moscovia lo baciò di nuovo sulla fronte, e poi avvolse nella
sua enorme mano la manina che stringeva il girasole.
“Segui
sempre il sole.”
“Si,
mamma!”
La
abbracciò e poi, ridendo, ricominciò a guardarsi intorno, perché non ne aveva
ancora avuto abbastanza… di sé stesso! Per vedere meglio, chiese alla mamma di
sollevarlo sulle sue spalle.
Cominciò
a scrutare da tutte le parti, come una vedetta, mentre lo reggeva per le
caviglie e col robusto collo.
“…
Oh! Guarda!”
Si
girò verso sinistra e vide, nell’erba alta che si stendeva in quella direzione,
subito dopo i girasoli, una sagoma alta e slanciata farsi largo tra le spighe e
venire nella loro direzione. A quanto pare qualcun altro aveva approfittato
della bella giornata per andare a passeggio.
“Zio Kiev! È zio Kiev!”
“Che
sorpresa!” si rallegrò anche la mamma.
“Andiamo
da lui!”
“Va bene.”
Uscirono
dal campo e il mare brillante di fili, alcuni dorati, altri di tanti altri tipi
di verdi chiari, li carezzò al loro passaggio.
Infine,
arrivarono abbastanza vicini all’uomo da riconoscerne la lunga chioma bionda, i
lineamenti, e infine il sereno sorriso.
“Moscovia.”
la salutò, omaggiandola chinando di poco il capo.
Il
principato di Kiev, il più rispettato e potente tra coloro che abitavano la
Rutenia al di qua degli Urali, nonché suo zio preferito, nell’aspetto si
dimostrava per certi versi più giovane rispetto alla madre, per il volto
rasato, il candore della propria pelle, il fluire della chioma di fili d’oro,
simile a quella di una donna.
Ma
per altri, invece, come era in realtà, ben più vecchio: il bel viso aveva i
lineamenti maturi, decisi che sembravano scolpiti, era magro, ma molto alto, e
ben dritto, solenne, tutt’uno con la sua tunica verde scuro. Questa scendeva
dal collo ai piedi, tenuta in vita da una cintura di cuoio dalla fibbia
argentata, da cui solitamente, ma non quel giorno, pendeva una spada; sul verde
spiccavano vari inserti dorati, e gli orli delle maniche in pelliccia.
“Kiev.”
–si inchinò lei, più profondamente- “Mi fa piacere rivederti.”
Moscovia
si accorse che, esattamente come lei, il suo figlioletto stava ammirando con
gli occhi spalancati ciò che Kiev si era portato lì quel giorno al posto della
spada.
“Non
dirmi che quella che hai in braccio è tua figlia!” si congratulò la paffuta Moscovia.
Il
chiarore di Kiev lasciò il posto a un paterno rossore: “Lei è Ucraina.”
Moscovia
e il potente principato non si vedevano da un bel po’, e la novità la riempì li
gioia. La bimba, che nascondeva la faccia contro quella del papà, indossava una
veste bianca con una mantellina gialla, e portava calde scarpette di pelle come
quelle che era riuscita a comprare a Russia per il suo ultimo compleanno.
“Posso
vederla?” chiese proprio lui, scalpitando un po’ per far capire alla madre che
voleva si avvicinasse.
Come
lei fece un passo avanti, Russia iniziò già ad allungare una mano cercando di
toccarle una spalla; forse così si sarebbe girata, ma non ci arrivava.
“Ucraina,
dai, salutalo!” la incoraggiò il serafico Kiev, e la piccola si voltò.
Aveva
gli occhi grandi e azzurri, e i capelli di un biondo chiarissimo, come quelli
del bimbo; pallido in confronto all’abbagliante giallo del girasole che ancora
stringeva forte nella sua mano, ma capace di restituire agli occhi tanti
bellissimi riflessi grazie a quel sole primaverile così sfavillante. Erano
tagliati corti, e cadevano in avanti giù sulla fronte, e sui lati giù fino alle
orecchie.
Ad
Ivan sembrò che indossasse come una scodella d’oro per cappellino.
“È
la bambina più bella del mondo!”
“Oh,
ma sentitelo il nostro piccolo corteggiatore!” -rise Moscovia- “Perché non le
dai un bacino allora?”
Lui
era sulle spalle della madre, ma la differenza era colmata dall’altezza dello
zio e così, ben sorretto dalla sua mamma, poté sporsi per toccarle la guancia
con le labbra.
“Io
sono Russia.” si presentò prima del tocco.
Ucraina
non conosceva ancora molte parole per capire, o per esprimere i propri
sentimenti, ma doveva essere contenta quanto lui. Infatti sorrise, e poi tornò
a nascondersi.
“Bel
fiore quello che hai lì.” sviò il discorso Kiev, carezzando la testa alla sua
timidissima primogenita.
“Grazie!”
–sorrise Russia- “Con questo saprò sempre dov’è il sole, anche quando fuori c’è
la bufera!” –spiegò, agitandolo entusiasta.
“Russia,
adesso sarà meglio avviarci a casa: se non gli diamo acqua e un po’ di terra
seccherà.”
“Oh,
no! Non voglio che muoia!”
“Allora andiamo, che al villaggio potrebbero stare in pensiero. Saluta lo zio
ed Ucraina.” -disse, accomiatandosi con un secondo inchino.
“Ciao zio Kiev! Ciao ciao Ucraina!”
“Ciao
Russia. Buon viaggio Moscovia.” salutò il principato, mentre Ucraina provava ad
imitarlo, agitando la mano come faceva lui.
“Russia
sta crescendo bene, vero? Cresci presto anche tu, piccola mia.” disse
riprendendo la loro passeggiatina di inizio primavera.
Moscovia,
fattolo scendere dalle proprie spalle, lo caricò nuovamente sulle instancabili
braccia, ripercorrendo a ritroso i suoi passi.
Russia
continuava a guardarsi dietro le spalle, rattristandosi sempre di più mentre
Kiev tornava ad essere un lontano puntino.
Beati
loro, si disse, che sono ricchi e possono passeggiare quanto vogliono. Beati
poi perché vivevano più giù rispetto a loro, dove il tempo era un po’ meno
brutto.
Sentì
la madre sospirare e riprendere fiato dopo la salita che li aveva riportati in
cima al colle: il bosco di larici, smisurato, altissimo, avvolto nell’ombra, si
stendeva di nuovo dinanzi a loro.
Russia
diede un ultimo sguardo alla valle dietro di sé, ai suoi fiumi e ai suoi campi
coltivati, e mentre i suoi occhi si riabituavano alla poca luce, le iridi viola
si fissarono sul suo fiore.
Sembrava
lui stesso un piccolo sole.
Lo
guardò e sorrise, come fosse stato quello vero.
Anche
se era finita presto, era stata una giornata magnifica.
Aveva
visto per la prima volta i bellissimi fiori che seguono sempre la luce, e la bellissima
bimba con la coppetta dorata sulla testa, con cui non vedeva l’ora di giocare
insieme.
Aveva
scoperto che il mondo in cui viveva era tanto vario, e non sempre brutto e
freddo.
“Tu sei anche questo, Russia.”
Abbracciò
il suo girasole e chiuse gli occhi, addormentandosi subito, cullato dal rumore
dei passi di mamma Moscovia che si inoltrava nel fitto della foresta, sparendo
dietro i maestosi e irti alberi, diretta verso il camino di casa.
NOTE
STORICHE
Ci
troviamo nella Russia del XII-XIII secolo circa. Allora ovviamente, la “Rutenia”,
come la chiamavano in occidente, non era dominata da uno stato unitario, ma era
invece suddivisa in un numerosi principati. Tra questi il più forte era lo
stato di Kiev (l’odierna capitale dell’Ucraina), che per lungo tempo non fu
solo uno dei tanti, bensì, per la sua forza e il suo prestigio, esercitò una predominanza
su tutti gli altri. Questa sorta di primitiva confederazione di principati slavi
prendeva il nome di “Rus di Kiev”, esteso dal Mar Baltico fin quasi al Mar Nero,
dalla Polonia agli Urali; è proprio dal termine “Rus” che è derivata la parola “Russia”,
ovvero il nostro (per ora “piccolo”) Ivan Braginski.
Kiev
era allora una città fiorente e in stretti rapporti con l’ancora vivente Impero
Bizantino. Mosca invece, da cui sarebbe un giorno ascesa la Russia odierna, era
ancora una piccola e per nulla ricca città di un principato minore, chiamato Vladimir,
e in seguito Moscovia.