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Autore: Linn_CullenBass    20/02/2012    2 recensioni
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Alice ha 15 anni e una vita all’apparenza normale, monotona. Si sveglia alle 6 e corre per non perdere il pullman che la porta in un liceo che ha scelto senza nemmeno pensarci troppo.
Ride, sempre.
Ma nessuno però sa. Nessuno è a conoscenza di quello che nasconde, qualcosa di troppo duro. Ogni sera, infatti, torna casa e scoppia in un pianto disperato. Poi, quando le lacrime continuano a cadere, lei prende un coltellino. E taglia così un piccolo lembo di pelle. Guarda il sangue correre giù, e sente meno male. Meno male della vita che qualcuno le ha riservato.
Suo padre torna sempre a casa ubriaco. Prende la bottiglia e continua a bere. La vede, la insulta. E se va bene finisce lì. E i lividi sul suo corpo ne sono la prova. E i lividi sul corpo della madre anche.
E alla ragazza altro non resta che piangere, senza qualcuno con cui parlare.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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                                            Capitolo2.

 








Non riusciva ad alzarsi dal letto.

Sentiva sonno, troppo sonno, ed era tutta intorpidita. Ancora, come tutte le mattine, sentiva un grande dolore alla testa. E il braccio, bruciava. Sembrava andasse a fuoco. Non se ne curava, però. Lasciava andare il fuoco, anzi, voleva che questo s’irradiasse e la divorasse. Voleva evadere, voleva andare via.
Ogni mattina, così, prima di partire, pensava sempre a cosa sarebbe potuto accadere quel giorno. Ogni tanto, aveva la fottuta voglia di scappare, di andare via. Ma ogni volta, puntualmente, cedeva e rimaneva, Alice. Perché pensava alla madre, al dolore che le avrebbe procurato.

Un po’ come il suicidio.

Ogni tanto se ne stava lì a fissare quel coltello che teneva in mano. Ogni tanto lo premeditava, malsanamente. Ma sempre, per merito del senso di colpa, respirava ancora.

Lei stessa ogni tanto ammetteva di non fidarsi di sé stessa. Lei stessa, ogni tanto, pensava “ ci sarò domani?” tutto dipendeva da cosa il suo cuore decideva. Perché, come tutte le adolescenti del mondo, era il suo cuore a comandare.

Poi, arrivava alla fermata.

Lì c’era sempre qualcuno. Qualcuno con cui scambiare due parole, qualcuno a cui non riferiva nemmeno quello che aveva visto la sera prima. In un certo senso, si vergognava. Anche se era fottutamente sbagliato, e lei lo sapeva. Lei non aveva niente di cui vergognarsi. Era solo nata nel posto sbagliato.

Spesso però la vedeva in un modo diverso, positivo. Tentava di aggrapparsi sui vetri, scivolando, pensando che se era stata scelta per tanto dolore, voleva dire che era abbastanza forte da reggerlo.

E poi, pensava alle parole che qualcuno disse: “Dio non fa’ soffrire così tanto i suoi figli se non per prepararli ad una gioia più grande”. E aspettava, questa gioia, Alice.

Poi arrivava il pullman.

Saliva, guardava gli altri. Immaginava le loro vite felici, ma non ne era sicura. Perché come poteva fingere lei, anche gli altri potevano farlo. Certo, però, dubitava che qualcuno vivesse la sua storia.

“ Ehi, dove scendiamo?”

Tranne lei.

Judi, la ragazza che di più assomigliava ad una “ migliore amica”, invece sapeva cosa voleva dire.

Lei non aveva problemi a parlarne, diceva che la faceva sentire meglio. Lei ne parlava, con Alice. Lei poteva capirla.

Lei sembrava VOLERLE BENE davvero.

E questo era quanto bastava a mantenerla in vita, in vita davvero.

“terminal” rispondeva, tutti i giorni.

Ci aveva messo ben undici anni per darle fiducia. Da piccole, erano migliori amiche. Poi qualcuno si è messo in mezzo e, prima delle medie, si erano addirittura un po’ perse. Ma è bastata una storia, un’ estate e un po di lacrime, per farle unire di nuovo.Se non altro, piangevano insieme.

Poi arrivava a scuola.

Passava circa mezz’ora, era quello il tempo che ci metteva per arrivare in città.

Si fermava, accendeva una sigaretta. Non ci pensava molto, non c’era nessuno che potesse incriminarla alle 7.40 del mattino.

Tempo 10-15 minuti in un freddo invernale che se ne stava alla stessa temperatura del suo cuore, Alice entrava poi in lì, in quella scuola che a lei piaceva, specialmente per chi ci stava dentro. E poi, lì, poteva davvero essere felice. Perché sapeva che chi prima se n’era andato, ora non sarebbe tornato per farle male.

- Ciao Ali!-

La voce di Rachele era allegra, quasi, se era possibile, colorata. Colorata come il suo modo di fare, che la ragazza adorava.

Non sapeva perché, ma le strasmetteva  un’allegria particolare, di quelle che hanno effetto per tutta la giornata. Ecco cosa le piaceva, poter sorridere sempre. Era la sua meta, il suo scopo preciso.

Ali VENERAVA Rachele, se era possibile. Era convinta che sapesse che c’era qualcosa che non andava.

Ma lei, non poteva dire nulla.

- Come va?-

- Bene.- risponde, la ragazzina.

Passando il suo cuore in rassegna,  cerca solo quel piccolo sprazzo di gioia che poteva permetterle di sorridere per tutto il tempo, quello che la rendeva pazza e anche un po’ idiota certe volte. Era quello che usava per difendersi.

Alice, pensava che facendo così, la gente non pensasse che fosse triste. Lei non pensava che fosse triste.

Doveva autoconvincersi.

La mattinata, passava monotona, sempre uguale. Passavano veloci 5 ore, e poi filava a casa di nuovo su quel maledetto pullman.

Arrivava a casa, e sperava di non trovare nessuno.

Poi prendeva qualcosetta così da mangiare, perché non voleva esagerare. E poi, perché spesso aveva lo stomaco chiuso al punto da non riuscire a buttare giù nemmeno un chicco di riso.

Le prendeva l’ansia, la paura che qualcuno arrivasse e iniziasse ad insultarla. Ogni qual volta sentiva il rumore delle macchine girare quel vialetto ghiaioso, fin troppo stretto, si fiondava alla finestra e cominciava a dare di matto.

Era una reazione normale, per quanto riguardava la sua vita.

Quei giorni, la madre lavorava in quella fabbrica al pomeriggio.

E lei, non aspettava altro che stare da sola e continuare a piangere, a volte anche per l’intera giornata.

Alice, voleva soltanto vivere come una persona normale, senza capire, a volte che non lo sarebbe stata mai.

Voleva solo dormire tranquilla, la notte. Senza doversi continuamente svegliare, a volte non dormire affatto, dalla paura.

C’erano volte, invece, essa appuntp prendeva il sopravvento, ed incominciava a vomitare.

Non mangiava molto, Ali. Non mangiava perché stava male e poi tutto le sarebbe rimasto sullo stomaco. E questo lo sapeva bene.

Acceso il computer, la sua pazienza svanisce. La piccola Ali, che a 15 anni non sa più come si fa a respirare, ogni tanto, guarda la posta in arrivo.

 - avanti…-

Mormora, battendo il piede ad un ritmo frenetico.

Scorre la pagina, per vedere se qualcuno l’ha contattata.

No, nessuno.

Soltanto stupide notifiche di facebook o spam che nemmeno lei apriva più ed eliminava direttamente.

Ormai, la speranza andava sfumando.

Se ne andava un po’ come tutto quello che aveva toccato, come un sogno il mattino dopo. Ogni tanto stava meglio, una canzone riusciva a tirarla su, ma altre volte, era proprio quella che la distruggeva.

Allora spegneva e ci rinunciava.

Se non era quella la sua strada, allora avrebbe dovuto accettarlo.

 

La sera stessa, Alice, incontra un mucchio di siti di agenzie. Non esita, invia domande su domande, richieste su richieste. Tutto perché vuole dimostrare qualcosa anche a se tessa.

Perché vuole dimostrare qualcosa a sua madre. Ai suoi amici, che non le credevano affatto.

Poi, di nuovo, spegne il computer e comincia a scrivere. Incomincia e sembra non volersi fermare. Questa volta, niente lacrime, niente sangue. Solo un mucchio di parole, fiumi e fiumi di parole, che si stampano inevitabilmente sulla carta bianca, senza bisogno di commenti inutili.

 

 

   
 
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