Era
libera.
Libera.
Persino quella parola suonava strana, aliena, nella mente di Merope
Gaunt,
ultima discendente di sesso femminile di Salazar Serpeverde, come
manifestava
orgogliosamente il medaglione al suo collo.
Avrebbe dovuto mostrarsi onoratissima di tale casato, sosteneva suo
padre, ma
lei non era dello stesso avviso. Secondo lei erano tutti in miseria...
certo,
non avrebbe mai detto una cosa del genere in presenza del genitore.
Ma lei era sola. Era libera.
Il fratello, Orfin, era stato arrestato per aver aggredito un Babbano e
avrebbe
scontato tre anni ad Azkaban, e suo padre, Orvoloson, ci sarebbe stato
sei mesi
per aver colpito il funzionario del ministero.
E lei era libera. E il Babbano, che la sua famiglia
avrebbe tanto
disprezzato, soleva cavalcare proprio vicino a casa sua.
Merope sapeva cosa doveva fare, sapeva come salvarsi.
Aveva atteso quel giorno con ansia spasmodica.
Sapeva quando Tom Riddle – con quei capelli neri, e quelle ciglia
lunghissime,
la pelle chiara come avorio – prediligeva andare a cavallo da solo,
senza
quella sgualdrina – Cecilia, tesoro – che talvolta
lo accompagnava. Ci
andava nel tardo pomeriggio, quando sotto la coltre di foglie, che
gettava una
luce verdastra sui suoi bei lineamenti, il caldo era totalizzante. Lo
spiava
spesso, mentre sostava riposandosi all’ombra dei grandi alberi che
circondavano
la catapecchia in cui lei dimorava.
Ma si era impegnata, ed era pronta.
Aveva preparato la pozione, che ora giaceva in un’elegante caraffa di
limonata
esalando i suoi vapori – odorava di colline, di menta, di
chiar di luna
-, e si era data da fare per sistemare, almeno esteriormente, la casa:
niente
più serpenti morti ovunque, né altre cose sinistre.
Inoltre, aveva resuscitato un vecchio abito di seta di sua madre e
l’aveva reso
presentabile, scoprendosi più abile di quanto non fosse mai stata.
Aveva scoperto, in fondo, di essere versata in molte,
moltissime cose.
Così si era appostata alla finestra, nervosa ed irrequieta come una
fiera
chiusa in gabbia.
Lui era arrivato alla solita ora, sul suo cavallo nero, la pelle chiara
e
riccioli corvini che gli piovevano scompostamente sulle tempie.
Gli occhi, blu scuro, si muovevano senza interesse, blandamente
socchiusi, lungo
la catapecchia davanti alla quale si era fermato.
Cadente, ricoperta di edera e licheni. Sempre al buio per via di tutti
quegli
olmi. Un posto inquietante, non per altro ci viveva il “pazzo del
villaggio”
con i due figli storpi.
Ma non aveva avuto nemmeno il tempo di scacciare quel pensiero
trasognato che
la porta si era aperta cigolando e ne era uscita la figlia di quel
vecchio
maniaco, che fortunatamente era stato portato via qualche settimana
prima.
Tuttavia, lei non si comportò come suo solito, fuggendo terrorizzata
appena lo
scorgeva, e per questo catturò la sua attenzione.
Aveva qualcosa di... diverso.
La bella fronte del giovane Riddle si era aggrottata, donandogli
un’espressione
di assorta contemplazione, di studiata circospezione.
L’aveva guardata mentre si avvicinava, timida.
Non la si poteva definire bella, proprio no. Aveva una sorta di
fascino, dato
dall’ accozzaglia di tutti i suoi difetti, ma Tom, che aveva una
fidanzata
alta, snella e bionda, trovava poco appetitosa una creaturina del
genere.
Quanti anni poteva avere? Diciotto, venti? Pareva una bambina, pallida
e
sbattuta, con occhiaie discrete sotto gli occhi, che avevano un leggero
strabismo... non abbastanza lieve, comunque, da poter essere additato
scherzosamente come “strabismo di Venere”. La mascella, poi, era troppo
squadrata, anche se ben si intonava agli zigomi alteri.
Il corpo invece non era male. Un po’ magra, ma abbastanza armoniosa da
risultare attraente... Inoltre, Riddle non ricordava di averla mai
vista così
in ordine, sebbene in effetti l’avesse scorta ben poche volte e sempre
di
sfuggita.
Portava un abito di seta, nero, senza maniche e scollato, lungo fino
alle
ginocchia. I lunghi capelli scuri le scendevano ondulati fin sul
fondoschiena,
l’espressione era statuaria.
Magari per un’avventura poteva andare, anche se, vista la
famiglia, era
meglio non arrischiarsi. Non ne valeva proprio la pena.
Tra le mani, notò Tom, teneva un bicchiere colmo fino all’orlo di un
liquido
perlaceo, deliziosamente invitante. Lo tese timidamente verso di lui.
“Ti va un po’ di limonata?” era rossa in viso mentre parlava, e non le
donava, “Fa
davvero caldo...”
Riddle la squadrò, poi si esibì in un sorriso splendido e accettò la
bevanda.
La guardò fisso mentre sorseggiava la limonata, squisita... seppur non
avesse
un gusto convenzionale, né tantomeno riconoscibile.
Peccato per gli occhi storti, quel nero liquido era davvero
intrigante. E
aveva anche una bella bocca, rossa di piaceri tutti da scoprire.
Tom smise di bere all’improvviso.
L’aria si era fatta gelida e sul palato aveva ancora quel gusto, quel
gusto
straziante da tanto che era dolce... Sapeva di rose, di sangue, di
salmastro
come il mare, di brividi, di lacrime.
Un tremito violento lo scosse fin nel profondo dell’anima, il bicchiere
gli
sfuggì di mano... e in quel momento sul mondo scese la tenebra.
Lei sorrise, spietata.
Il sapore, ineluttabile ed indistruttibile, gli ustionò la lingua.
Aveva la
gola riarsa, la voce uccisa.
Lei.
La vide ridere e si sentì scivolare via, via, lontano, oltre le stelle,
oltre l’universo,
oltre gli occhi celesti di Cecilia e il suo profumo di viole e miele,
via,
lontano, così lontano... Girava e volteggiava nel buio, e quel salato
in bocca
si faceva sempre più acuto, più spaventoso, più vivo.
E nella sua mente soffusa splendette il suo viso.
Lei. Lei.
Scese, o cadde o rotolò o scivolò – ma che importava?
-, giù da cavallo.
Vacillò verso di lei, che tese le braccia per accoglierlo contro il suo
corpo
spigoloso, il sorriso sornione ancora al suo posto.
Volteggiava ancora il buio nella sua testa, e vide milioni di
costellazioni e i
suoi occhi d’inchiostro che ammiccavano in ogni dove, come buchi neri
in cui
persino la luce si perdeva.
La strinse a sé, inspirò il suo odore grezzo, di ferro lucente e
tormenti.
Affondò il volto in quei capelli setosi, come se non potesse farne a
meno, come
se fosse l’ultima volta che poteva vederla.
L’adorazione che provava lo rendeva folle, arrendevole.
Puntò le iridi blu cielo su quel viso sgraziato, e si immolò.
“Mio per sempre” sussurrò lei sulle sue labbra, e in quel momento Tom,
ad un
millimetro da quel sapore stregato, sarebbe stato pronto a giurarlo col
proprio
sangue.
Amortentia, il filtro d’amore più potente del mondo.
Scapparono via, solo loro due.
Si sposarono in cima a una scogliera, con due persone fermate a caso a
fare da
testimoni, il cielo livido come sfondo, il mare scosso da voraci
turbinii. Le
prime gocce di pioggia fecero in tempo a bagnare il volto inondato di
lacrime
di Merope, prima che Tom la prendesse in braccio ed entrasse nella
camera d’albergo
in cui avrebbero consumato il matrimonio.
Fecero l’amore. Fu sua, mille volte.
Mille volte appagò la sua lussuria, col cuore ardente spezzato da
terribili
angosce.
Lo sapevi, sciocca ragazzina, cosa stavi facendo? Lo sapevi
cosa stavi
creando? Lo sapevi chi portavi nel tuo ventre già dalla prima notte?
Tom, nel loro appartamento a Londra, che rincasava con dei fiori.
Rose rosse.
Merope si toccò distrattamente la vita, dove già sentiva crescere
quell’abominio,
la bestia.
Il loro bambino.
E si perse in un ricordo lontano, aveva dodici anni appena.
Si figurava sul prato fuori casa a leggere quel volume di pozioni e
veleni. Un
libro antico, un altro cimelio di famiglia.
Lo trovava raccapricciante, troppo cruento e malefico; ma aveva trovato
la
ricetta di un filtro d’amore, e sembrava tanto innocuo, terribilmente
fuori
luogo in un volume come quello!
L’aveva mandata a memoria per sfizio e ricordava –
oh, come lo ricordava perfettamente quell’attimo! Il sole le aveva
incendiato una ciocca di capelli bruniti fino a farli sanguinare di
luce e lei
aveva socchiuso le palpebre mentre leggeva rapidamente una postilla
d’avvertimento,
e come rimbombavano la voce sibilante di suo padre che la chiamava
dalla cucina
e la risata strascicata di Orfin – di aver avvertito una
fitta di
inquietudine.
“Particolare attenzione si dovrà portare nell’uso di questo filtro, in
quanto è
fortemente sconsigliato generare sotto il suo effetto. La creatura nata
da
quest’unione non potrebbe mai provare amore e sarebbe per ciò un nemico
impareggiabile, ma imprevedibile.”
Aveva avuto degli incubi, dopo. Aveva sognato bambini con risa
agghiaccianti
tra i denti e occhi scarlatti, vuoti come un’ampolla rotta.
Sì, lo sapevi.
Sapevi che avresti creato qualcuno che non poteva amare, che
non avrebbe mai
capito tutti i tuoi tormenti, le tue pene. Sapevi che il frutto di
un’adorazione
blasfema, tenuta insieme dall’Amortentia, avrebbe generato un mostro,
un
pericolo, un bambino che non sarebbe mai stato innocente, corrotto nel
tuo
grembo, per i tuoi capricci, senz’anima.
Eppure tu speravi che avesse il suo volto stupendo e la sua voce dolce
come
zucchero, ulteriori armi su una creatura come quella.
Aveva smesso di dargli il filtro una mattina d’inverno.
Il dolore la stava dilaniando.
Non poteva continuare, non poteva tollerarlo un minuto di più.
Non riusciva nemmeno più a guardare quei lineamenti perfetti, quella
bocca
morbida che ogni notte si posava sul suo collo. Non poteva più toccare
la sua
pelle fredda, quando facevano l’amore non sopportava quegli occhi blu,
immensi
e privi di tutto, che la osservavano attraverso una pallida imitazione
di
sentimento.
E lei lo amava talmente tanto...
L’avrebbe certamente ricambiata, soprattutto ora che la gravidanza era
così a
buon punto.
Aveva smesso di drogarlo e, giorno dopo giorno, aveva visto ricomparire
un’espressione
prima confusa e poi sprezzante sul suo viso. Le attenzioni per lei
erano
sparite, la notte non la cercava più.
In capo a una settimana lui era tornato padrone di sé, ed erano due
estranei.
Tom era chiaramente terrorizzato, e Merope insieme a lui, come mai era
stata in
vita sua. Non riusciva più neanche a spostare una pentola con la magia,
come
quando abitava con suo padre!
Poi una sera lui aveva fatto le valigie mentre lei sedeva a guardare
fuori
dalla finestra dei passerotti in amore. Ricordava di non aver neanche
sentito
le lacrime che le scorrevano copiose lungo le guance, di portare il
vestito di
quando gli aveva somministrato l’Amortentia la prima volta, di sentire
freddo,
tanto freddo.
E di amare disperatamente la creatura nel suo ventre... perché
era una parte
di lui.
Se n’era andato senza una parola e lei non aveva neppure provato a
fermarlo.
Lo sguardo di raccapriccio che riservava al suo grembo gonfio era un
motivo
sufficiente a inchiodarle i tendini alla sedia.
Aveva patito la fame gli ultimi mesi della sua vita. Aveva venduto il
medaglione per una miseria e aveva partorito in un orfanotrofio babbano.
Aveva sperato di morire con tutta se stessa e sapeva che stava per
succedere,
pallida e con il sangue – quel suo sangue così puro, perfetto
– che non
smetteva di fiottarle dal ventre, sudata e ansante, in lacrime.
Vedeva gli sguardi angosciati delle donne che l’avevano aiutata a
mettere al mondo
il suo bambino e, in quegli ultimi preziosi istanti, aveva chiesto che
glielo
portassero.
L’aveva tenuto tra le braccia con la poca forza che aveva, più di
volontà che
fisica.
Si era sentita scoppiare il cuore prima di adorazione e poi, quando
quel piccolino
aveva spalancato i suoi meravigliosi occhi blu, di terrore.
Avrebbe voluto gridare: “Uccidetelo, uccidetelo prima che ci uccida
tutti!”, ma
era stato solo un momento, perché il bambino aveva proteso una manina
verso il
suo viso ed era riuscita soltanto a biascicare, nel pianto, poche
parole.
“Deve chiamarsi Tom Orvoloson Riddle, come il padre e come il nonno...
Oh, Dio,
spero tanto assomigli a suo padre... Tom...”
Pochi minuti dopo era morta e Lord Voldemort aveva cominciato la sua
vita.
“Un mostro, un pericolo, un bambino che non sarebbe mai stato
innocente,
corrotto nel tuo grembo, per i tuoi capricci, senz’anima.”