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Autore: Mary Black    22/02/2012    10 recensioni
Tom smise di bere all'improvviso.
L'aria si era fatta gelida e sul palato aveva ancora quel gusto, quel gusto straziante da tanto che era dolce... Sapeva di rose, di sangue, di salmastro come il mare, di brividi, di lacrime.
Un tremito violento lo scosse fin nel profondo dell'anima, il bicchiere gli sfuggì di mano... e in quel momento sul mondo scese la tenebra.
Lei sorrise, spietata.
Il sapore, ineluttabile ed indistruttibile, gli ustionò la lingua. Aveva la gola riarsa, la voce uccisa.
Lei.
La vide ridere e si sentì scivolare via, via, lontano, oltre le stelle, oltre l'universo, oltre gli occhi celesti di Cecilia e il suo profumo di viole e miele, via, lontano, così lontano... Girava e volteggiava nel buio, e quel salato in bocca si faceva sempre più acuto, più spaventoso, più vivo.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Merope Gaunt, Tom Riddle Sr.
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Altro contesto
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Era libera.
Libera.
Persino quella parola suonava strana, aliena, nella mente di Merope Gaunt, ultima discendente di sesso femminile di Salazar Serpeverde, come manifestava orgogliosamente il medaglione al suo collo.
Avrebbe dovuto mostrarsi onoratissima di tale casato, sosteneva suo padre, ma lei non era dello stesso avviso. Secondo lei erano tutti in miseria... certo, non avrebbe mai detto una cosa del genere in presenza del genitore.
Ma lei era sola. Era libera.
Il fratello, Orfin, era stato arrestato per aver aggredito un Babbano e avrebbe scontato tre anni ad Azkaban, e suo padre, Orvoloson, ci sarebbe stato sei mesi per aver colpito il funzionario del ministero.
E lei era libera. E il Babbano, che la sua famiglia avrebbe tanto disprezzato, soleva cavalcare proprio vicino a casa sua.
Merope sapeva cosa doveva fare, sapeva come salvarsi.

Aveva atteso quel giorno con ansia spasmodica.
Sapeva quando Tom Riddle – con quei capelli neri, e quelle ciglia lunghissime, la pelle chiara come avorio – prediligeva andare a cavallo da solo, senza quella sgualdrina – Cecilia, tesoro – che talvolta lo accompagnava. Ci andava nel tardo pomeriggio, quando sotto la coltre di foglie, che gettava una luce verdastra sui suoi bei lineamenti, il caldo era totalizzante. Lo spiava spesso, mentre sostava riposandosi all’ombra dei grandi alberi che circondavano la catapecchia in cui lei dimorava.
Ma si era impegnata, ed era pronta.
Aveva preparato la pozione, che ora giaceva in un’elegante caraffa di limonata esalando i suoi vapori – odorava di colline, di menta, di chiar di luna -, e si era data da fare per sistemare, almeno esteriormente, la casa: niente più serpenti morti ovunque, né altre cose sinistre.
Inoltre, aveva resuscitato un vecchio abito di seta di sua madre e l’aveva reso presentabile, scoprendosi più abile di quanto non fosse mai stata.
Aveva scoperto, in fondo, di essere versata in molte, moltissime cose.
Così si era appostata alla finestra, nervosa ed irrequieta come una fiera chiusa in gabbia.

Lui era arrivato alla solita ora, sul suo cavallo nero, la pelle chiara e riccioli corvini che gli piovevano scompostamente sulle tempie.
Gli occhi, blu scuro, si muovevano senza interesse, blandamente socchiusi, lungo la catapecchia davanti alla quale si era fermato.
Cadente, ricoperta di edera e licheni. Sempre al buio per via di tutti quegli olmi. Un posto inquietante, non per altro ci viveva il “pazzo del villaggio” con i due figli storpi.
Ma non aveva avuto nemmeno il tempo di scacciare quel pensiero trasognato che la porta si era aperta cigolando e ne era uscita la figlia di quel vecchio maniaco, che fortunatamente era stato portato via qualche settimana prima.
Tuttavia, lei non si comportò come suo solito, fuggendo terrorizzata appena lo scorgeva, e per questo catturò la sua attenzione.
Aveva qualcosa di... diverso.
La bella fronte del giovane Riddle si era aggrottata, donandogli un’espressione di assorta contemplazione, di studiata circospezione.
L’aveva guardata mentre si avvicinava, timida.
Non la si poteva definire bella, proprio no. Aveva una sorta di fascino, dato dall’ accozzaglia di tutti i suoi difetti, ma Tom, che aveva una fidanzata alta, snella e bionda, trovava poco appetitosa una creaturina del genere.
Quanti anni poteva avere? Diciotto, venti? Pareva una bambina, pallida e sbattuta, con occhiaie discrete sotto gli occhi, che avevano un leggero strabismo... non abbastanza lieve, comunque, da poter essere additato scherzosamente come “strabismo di Venere”. La mascella, poi, era troppo squadrata, anche se ben si intonava agli zigomi alteri.
Il corpo invece non era male. Un po’ magra, ma abbastanza armoniosa da risultare attraente... Inoltre, Riddle non ricordava di averla mai vista così in ordine, sebbene in effetti l’avesse scorta ben poche volte e sempre di sfuggita.
Portava un abito di seta, nero, senza maniche e scollato, lungo fino alle ginocchia. I lunghi capelli scuri le scendevano ondulati fin sul fondoschiena, l’espressione era statuaria.
Magari per un’avventura poteva andare, anche se, vista la famiglia, era meglio non arrischiarsi. Non ne valeva proprio la pena.
Tra le mani, notò Tom, teneva un bicchiere colmo fino all’orlo di un liquido perlaceo, deliziosamente invitante. Lo tese timidamente verso di lui.
“Ti va un po’ di limonata?” era rossa in viso mentre parlava, e non le donava, “Fa davvero caldo...”
Riddle la squadrò, poi si esibì in un sorriso splendido e accettò la bevanda. La guardò fisso mentre sorseggiava la limonata, squisita... seppur non avesse un gusto convenzionale, né tantomeno riconoscibile.
Peccato per gli occhi storti, quel nero liquido era davvero intrigante. E aveva anche una bella bocca, rossa di piaceri tutti da scoprire.
Tom smise di bere all’improvviso.
L’aria si era fatta gelida e sul palato aveva ancora quel gusto, quel gusto straziante da tanto che era dolce... Sapeva di rose, di sangue, di salmastro come il mare, di brividi, di lacrime.
Un tremito violento lo scosse fin nel profondo dell’anima, il bicchiere gli sfuggì di mano... e in quel momento sul mondo scese la tenebra.
Lei sorrise, spietata.
Il sapore, ineluttabile ed indistruttibile, gli ustionò la lingua. Aveva la gola riarsa, la voce uccisa.
Lei.
La vide ridere e si sentì scivolare via, via, lontano, oltre le stelle, oltre l’universo, oltre gli occhi celesti di Cecilia e il suo profumo di viole e miele, via, lontano, così lontano... Girava e volteggiava nel buio, e quel salato in bocca si faceva sempre più acuto, più spaventoso, più vivo.
E nella sua mente soffusa splendette il suo viso.
Lei. Lei.
Scese, o cadde o rotolò o scivolò – ma che importava? -, giù da cavallo. Vacillò verso di lei, che tese le braccia per accoglierlo contro il suo corpo spigoloso, il sorriso sornione ancora al suo posto.
Volteggiava ancora il buio nella sua testa, e vide milioni di costellazioni e i suoi occhi d’inchiostro che ammiccavano in ogni dove, come buchi neri in cui persino la luce si perdeva.
La strinse a sé, inspirò il suo odore grezzo, di ferro lucente e tormenti. Affondò il volto in quei capelli setosi, come se non potesse farne a meno, come se fosse l’ultima volta che poteva vederla.
L’adorazione che provava lo rendeva folle, arrendevole.
Puntò le iridi blu cielo su quel viso sgraziato, e si immolò.
“Mio per sempre” sussurrò lei sulle sue labbra, e in quel momento Tom, ad un millimetro da quel sapore stregato, sarebbe stato pronto a giurarlo col proprio sangue.
Amortentia, il filtro d’amore più potente del mondo.

Scapparono via, solo loro due.
Si sposarono in cima a una scogliera, con due persone fermate a caso a fare da testimoni, il cielo livido come sfondo, il mare scosso da voraci turbinii. Le prime gocce di pioggia fecero in tempo a bagnare il volto inondato di lacrime di Merope, prima che Tom la prendesse in braccio ed entrasse nella camera d’albergo in cui avrebbero consumato il matrimonio.
Fecero l’amore. Fu sua, mille volte.
Mille volte appagò la sua lussuria, col cuore ardente spezzato da terribili angosce.
Lo sapevi, sciocca ragazzina, cosa stavi facendo? Lo sapevi cosa stavi creando? Lo sapevi chi portavi nel tuo ventre già dalla prima notte?

Tom, nel loro appartamento a Londra, che rincasava con dei fiori.
Rose rosse.
Merope si toccò distrattamente la vita, dove già sentiva crescere quell’abominio, la bestia.
Il loro bambino.
E si perse in un ricordo lontano, aveva dodici anni appena.
Si figurava sul prato fuori casa a leggere quel volume di pozioni e veleni. Un libro antico, un altro cimelio di famiglia.
Lo trovava raccapricciante, troppo cruento e malefico; ma aveva trovato la ricetta di un filtro d’amore, e sembrava tanto innocuo, terribilmente fuori luogo in un volume come quello!
L’aveva mandata a memoria per sfizio e ricordava – oh, come lo ricordava perfettamente quell’attimo! Il sole le aveva incendiato una ciocca di capelli bruniti fino a farli sanguinare di luce e lei aveva socchiuso le palpebre mentre leggeva rapidamente una postilla d’avvertimento, e come rimbombavano la voce sibilante di suo padre che la chiamava dalla cucina e la risata strascicata di Orfin – di aver avvertito una fitta di inquietudine.
“Particolare attenzione si dovrà portare nell’uso di questo filtro, in quanto è fortemente sconsigliato generare sotto il suo effetto. La creatura nata da quest’unione non potrebbe mai provare amore e sarebbe per ciò un nemico impareggiabile, ma imprevedibile.”
Aveva avuto degli incubi, dopo. Aveva sognato bambini con risa agghiaccianti tra i denti e occhi scarlatti, vuoti come un’ampolla rotta.

Sì, lo sapevi.
Sapevi che avresti creato qualcuno che non poteva amare, che non avrebbe mai capito tutti i tuoi tormenti, le tue pene. Sapevi che il frutto di un’adorazione blasfema, tenuta insieme dall’Amortentia, avrebbe generato un mostro, un pericolo, un bambino che non sarebbe mai stato innocente, corrotto nel tuo grembo, per i tuoi capricci, senz’anima.
Eppure tu speravi che avesse il suo volto stupendo e la sua voce dolce come zucchero, ulteriori armi su una creatura come quella.


Aveva smesso di dargli il filtro una mattina d’inverno.
Il dolore la stava dilaniando.
Non poteva continuare, non poteva tollerarlo un minuto di più.
Non riusciva nemmeno più a guardare quei lineamenti perfetti, quella bocca morbida che ogni notte si posava sul suo collo. Non poteva più toccare la sua pelle fredda, quando facevano l’amore non sopportava quegli occhi blu, immensi e privi di tutto, che la osservavano attraverso una pallida imitazione di sentimento.
E lei lo amava talmente tanto...
L’avrebbe certamente ricambiata, soprattutto ora che la gravidanza era così a buon punto.
Aveva smesso di drogarlo e, giorno dopo giorno, aveva visto ricomparire un’espressione prima confusa e poi sprezzante sul suo viso. Le attenzioni per lei erano sparite, la notte non la cercava più.
In capo a una settimana lui era tornato padrone di sé, ed erano due estranei.
Tom era chiaramente terrorizzato, e Merope insieme a lui, come mai era stata in vita sua. Non riusciva più neanche a spostare una pentola con la magia, come quando abitava con suo padre!
Poi una sera lui aveva fatto le valigie mentre lei sedeva a guardare fuori dalla finestra dei passerotti in amore. Ricordava di non aver neanche sentito le lacrime che le scorrevano copiose lungo le guance, di portare il vestito di quando gli aveva somministrato l’Amortentia la prima volta, di sentire freddo, tanto freddo.
E di amare disperatamente la creatura nel suo ventre... perché era una parte di lui.
Se n’era andato senza una parola e lei non aveva neppure provato a fermarlo.
Lo sguardo di raccapriccio che riservava al suo grembo gonfio era un motivo sufficiente a inchiodarle i tendini alla sedia.

Aveva patito la fame gli ultimi mesi della sua vita. Aveva venduto il medaglione per una miseria e aveva partorito in un orfanotrofio babbano.
Aveva sperato di morire con tutta se stessa e sapeva che stava per succedere, pallida e con il sangue – quel suo sangue così puro, perfetto – che non smetteva di fiottarle dal ventre, sudata e ansante, in lacrime.
Vedeva gli sguardi angosciati delle donne che l’avevano aiutata a mettere al mondo il suo bambino e, in quegli ultimi preziosi istanti, aveva chiesto che glielo portassero.
L’aveva tenuto tra le braccia con la poca forza che aveva, più di volontà che fisica.
Si era sentita scoppiare il cuore prima di adorazione e poi, quando quel piccolino aveva spalancato i suoi meravigliosi occhi blu, di terrore.
Avrebbe voluto gridare: “Uccidetelo, uccidetelo prima che ci uccida tutti!”, ma era stato solo un momento, perché il bambino aveva proteso una manina verso il suo viso ed era riuscita soltanto a biascicare, nel pianto, poche parole.
“Deve chiamarsi Tom Orvoloson Riddle, come il padre e come il nonno... Oh, Dio, spero tanto assomigli a suo padre... Tom...”
Pochi minuti dopo era morta e Lord Voldemort aveva cominciato la sua vita.
“Un mostro, un pericolo, un bambino che non sarebbe mai stato innocente, corrotto nel tuo grembo, per i tuoi capricci, senz’anima.”

  
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