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Autore: _Ape_    22/02/2012    1 recensioni
Heracles aveva sempre voluto un immenso bene a sua madre, da che aveva memoria. Nutriva nei suoi confronti quel misto d’amore e ammirazione che non si limitavano all’affetto che un figlio poteva provare nei confronti della madre, era convinto che il suo cuore fosse troppo piccolo per poter contenere tutto l’amore nutrito nei confronti di quella donna che, nell’infanzia, era stata il perno della sua esistenza.
[...]
La prima volta che le esternò i suoi sentimenti, la donna rise di una cristallina e melodiosa risata che solo lei era capace di fare, baciandolo poi sulla fronte.
«Questo è perché sono la tua arché.» fu il commento della madre, che, lasciandosi scappare un’ultima risata gioiosa, lo lasciò solo a riflettere sull’oscura frase.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Grecia/Heracles Karpusi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sou arché eimi

 

Heracles aveva sempre voluto un immenso bene a sua madre, da che aveva memoria. Nutriva nei suoi confronti quel misto d’amore e ammirazione che non si limitavano all’affetto che un figlio poteva provare nei confronti della madre, era convinto che il suo cuore fosse troppo piccolo per poter contenere tutto l’amore nutrito nei confronti di quella donna che, nell’infanzia, era stata il perno della sua esistenza. Tutto gravitava attorno alla sua figura, tutto con lei aveva inizio e fine, tutto poteva esistere solo perché c’era lei a mostrarglielo.

 

La prima volta che le esternò i suoi sentimenti, la donna rise di una cristallina e melodiosa risata che solo lei era capace di fare, baciandolo poi sulla fronte.

«Questo è perché sono la tua arché.» fu il commento della madre, che, lasciandosi scappare un’ultima risata gioiosa, lo lasciò solo a riflettere sull’oscura frase.

All’epoca il significato di quella parola non gli era del tutto chiaro: “arché” significa origine, genesi, però, conoscendo la madre e il suo sottile ingegno, dubitava che intendesse dire “Mi vuoi bene perché ti ho generato.”, ma quello era un cruccio troppo complicato per la sua mente puerile, e ben presto lo accantonò, soggiogato dall’invitante ombra di un olivo profumato sotto cui schiacciare un pisolino. Heracles si stese sul soffice prato verde e fresco, con la testa lievemente poggiata sul fusto dell’olivo, che con le sue poche fronde permetteva al volto del piccolo di ripararsi dai flebili raggi del sole crepuscolare, mentre il rustico paesaggio greco s’imbruniva lentamente. Chiudendo gli occhi, il piccolo Heracles si lasciò dolcemente cullare dal tepore dell’ultima luce di quella giornata primaverile tra le braccia di Morfeo.   

 

Afferrò con la paffuta e tozza mano da bambino la bianca e soffice veste che la donna indossava. Anche se ve ne fossero state miliardi uguali, l’avrebbe distinta tra tutte, quella di sua madre. Emanava una buona fragranza, un misto di olivo, argilla e salsedine, un odore pungente che penetrava con prepotenza nelle sue piccole narici, un profumo che sapeva di lei.

«Mammina…» pronunciò con tono infantile, la voce rotta dai singhiozzi e le gote rosse e rigate dai solchi delle pesanti lacrime che ancora fiottavano candide dagli occhioni verdi, verdi come quelli che lo stavano fissando di rimando, trasmettendo tutta la dolcezza che solo una madre poteva dedicare al figlio di cinque anni che tremava dal pianto dinnanzi a lei.

«Hai fatto un brutto sogno, Heracles?»

Il bimbo si limitò a scuotere il capo con veemenza, tirando su col naso per cercare di darsi un po’ di contegno, ma il suo tentativo fu vano, le copiose lacrime non volevano saperne di cessare.

La donna, piegando le labbra in un sorriso materno, portò la candida mano a carezzare la liscia guancia del figlio, asciugandola dall’umido pianto. Gli erano sempre piaciute le mani di sua madre: grandi come quelle di un forte protettore, ma sottili e affusolate, dal tocco così lieve e aggraziato da farne innamorare all’istante chiunque.

«Vuoi dormire con me, stasera?» chiese con una punta d’apprensione.

Il piccolo Heracles rifiutò mutamente l’invito della madre, agitando il capo per far segno di no.

La donna sospirò intenerita, quasi orgogliosa, anche se quell’esalazione d’aria sembrava contenere un’amara sfumatura d’agrodolce rassegnazione, che si perse nell’aria serale. Suo figlio, lo stesso bimbo che a tre anni coglieva ogni occasione per intrufolarsi nel caldo lettone della madre per dormire assieme a lei, si stava facendo grande. «Allora vuoi raccontarmi il tuo sogno?»

«Non è stato bello, mammina. Ho avuto tanta paura!» il piccolo sembrò quasi sputare quelle parole, tanti furono la violenza e il terrore che le accompagnavano quando si gettò ad abbracciare la leggiadra veste che velava le gambe della donna.

«Ero… - iniziò poi a raccontare singhiozzando, il volto ancora premuto sulla stoffa immacolata – Ero davanti ad un albero, un grande albero. Un albero così grande che toccava il cielo con i rami, mamma! All’inizio i rami erano pieni di grandi foglie verdi, che poi sono ingiallite e cadute, come in autunno! Solo che non era autunno, mamma! Era troppo presto! Le foglie dell’albero sono poi cresciute di nuovo, e sono nati anche i fiori, mamma! E… E poi… Dopo i fiori è uscita della frutta, poi la frutta è caduta e l’albero ha iniziato a perdere le foglie, di nuovo! Ed è successo per un po’ di volte, mammina!» urlò, allontanandosi dalla pallida veste e iniziando a dimenare agitato le piccole braccia.

La madre, adagiandosi al suolo con delicatezza, invitò il piccolo a sederlesi accanto, quello che le stava raccontando il figlio aveva tutta l’aria di essere un ònar, un sogno premonitore.

«E poi, mamma, ero in una casa! Al centro c’era una di quelle grandi pietre bianche coi disegni e i buchi che abbiamo anche in casa!»

La donna accennò un sorriso divertito, l’innocente goffaggine con cui il figlio descriveva il sogno l’inteneriva «Una colonna?»

«Sì, una colonna! Era grandissima anche quella, mamma!» esclamò il piccolo allargando le braccia per indicare l’imponenza della colonna, nel parlarne l’aveva assalito una buffa eccitazione, come se quello che stava raccontando fosse il più bello dei sogni «Era alta alta e bianca, e sembrava tanto forte… era bellissima!» Sembrava te, mamma.

Il piccolo fece una pausa, portandosi il pollice alla bocca, mentre ai lati dei begli occhi verdi si formarono di nuovo grossi lacrimoni. Stavano arrivando al cuore dell’incubo. «Poi la colonna ha iniziato a rompersi… C’era un gatto, mamma, un grosso gatto! Era bianco e aveva delle macchie rosse sulla coda, e aveva il muso che non si vedeva, era come se avesse una maschera… Che paura, aveva iniziato a colpire la colonna, mamma! La colpiva forte,  la mordeva, la graffiava… Alla fine si è rotta, e… e… e poi…- il piccolo tirava forte col naso, le lacrime calde rotolavano di nuovo inarrestabili sulle sue guance – Il gatto mi ha rapito, mamma Mi ha portato via!» urlò stringendosi convulsamente alla vita della madre.

«Su, Heracles, basta, calmati.» sussurrò la donna, carezzando amorevolmente il minuto capo del figlio, mentre con un braccio gli cingeva il corpicino scosso dai tremiti.

Passarono alcuni minuti così, Heracles che abbracciava la madre, continuando a singhiozzare disperato, e lei che lo consolava con tutta la premura di cui era capace, ma il piccolo non voleva saperne di calmarsi.

«Vuoi che ti racconti una storia?»

Il figlio annuì deciso, mentre stritolava tra le manine paffute la stoffa del vestito della madre.

La donna sorrise. L’unico modo per far calmare il piccolo Heracles era sempre stato raccontargli storie, era come ipnotizzato dai suoi bei racconti narranti di dei ambiziosi e vendicativi, dee invidiose e potenti, uomini forti e desiderosi di potere, eroi astuti, mostri spaventosi e oracoli controversi.

«Allora oggi ti racconterò della dea Notte e dei suoi figli. Solo se mi prometti di smettere di piangere, però.» fu la tenera ammonizione che la madre gli dedicò, asciugandogli delicatamente le gote con le affusolate mani, al che il bambino annuì nuovamente, cercando di calmarsi quanto più poteva.

«Devi sapere, Heracles, che in principio c’era il Caos, cioè un miscuglio universale e disordinato della materia, in cui nulla si riusciva a distinguere: il cielo era come la terra, che era come il mare; una massa informe e indescrivibile. Dal Caos, poi, iniziarono a formarsi delle divinità, queste però erano torbide, malevole e capricciose. Il primogenito fu Fato, la cui volontà era insindacabile. Fato era potentissimo e molto pericoloso, nessun Dio aveva la possibilità di opporsi alle sue decisioni. – Heracles ascoltava estasiato il racconto della madre, assorbendo ogni parola che le sue labbra articolavano come un’arida spugna assorbe l’acqua limpida del fiume in cui viene immersa – Dopo Fato nacquero molte altre divinità, come Erebo, un tenebroso abisso senza fondo, la bieca Discordia, la triste Vecchiaia e, per finire, Notte, una divinità sì buia e misteriosa, ma che portava con sé riposo e buoni consigli. Notte ebbe, a sua volta, molti figli, alcuni concepiti con Erebo, come Etero, Emera o Caronte, altri le nacquero spontaneamente, come le Parche, che gestivano la durata della vita di ogni essere umano. Questa misteriosa e oscura divinità ebbe due gemelli: Hypnos e Thanatos. Essendo gemelli, i loro poteri erano simili: il primo, a cui presto furono affiancati i fratelli Morfeo, Fobetore e Fantaso, aveva un potere tale da far addormentare uomini e dei, solo momentaneamente, però. Il secondo, invece, nacque dotato di possenti ali nere, un cuore di ferro e di viscere di bronzo, e i suoi poteri, nonostante non potessero estendersi sugli dei immortali, erano capaci di addormentare le persone per sempre, e…» la donna stava per continuare il suo racconto, quando si accorse che il piccolo Heracles ormai le giaceva inerme sul grembo, il torace si alzava e abbassava ritmicamente, mentre la sua mente stava probabilmente vagando nell’onirico mondo di Morfeo. Le sfuggì una tenere carezza dietro la nuca del figlio che dormiva.

Portando una bruna ciocca di capelli dietro l’orecchio, continuando a carezzare il volto del piccolo lasciò che sulle sottili e rosee labbra si dipingesse un amaro sorriso.

Il figlio aveva avuto un ònar. Un pessimo ònar.

Magna Grecia si era sempre distinta tra tutti gli altri imperi antichi per la sua cultura, la raffinatezza e l’immensa saggezza che la contraddistinguevano, quel portamento regale che l’aveva portata a soggiogare anche chi era riuscito a conquistarla con la forza pura. Suo figlio avrebbe dovuto presto prendere il suo posto, sarebbe toccato a lui affascinare gli altri con elegante intelligenza e raffinata eloquenza.

Il suo momento stava per giungere.      

Delicatamente, prese il figlio in braccio, cullandolo con affetto.

Si è fatto più pesante.

Heracles stava crescendo in fretta, molto in fretta. Quasi trovava difficoltà nell’accoglierlo tra le lattee braccia, che fino a pochi anni prima le sembravano così grandi e forti per una creatura fragile  come il neonato che accoglievano. Cresceva in fretta, ma non abbastanza da esser preparato ad affrontare il fato che l’attendeva.

Trasse un profondo sospiro, che sapeva d’un misto d’angoscia e rassegnazione.

«Almeno un altro po’… – borbottò, rivolgendosi ad un interlocutore immaginario – Come puoi lasciare Heracles solo, Thanatos? Come puoi non avere pietà di una creatura tanto piccola?»

Fece una pausa. Un altro sospiro le uscì di bocca, quasi spontaneo.

«Non per niente le tue viscere sono in bronzo e il tuo cuore non è altro che un gelido accumulo di nero ferro. I sentimenti non possono sfiorarti senza rischiare di esser risucchiati nel vorticoso oblio delle tue oscure spire.» si rispose da sola, per poi immergersi in un nuovo istante di meditativo silenzio.

«E’ ancora troppo piccolo. – ripeté, le labbra si muovevano meccanicamente – Non la prenderebbe con filosofia. Non saprebbe prenderla con filosofia. Anche perché non sa nemmeno cosa sia, la filosofia, non gliel’ho ancora spiegato.»

Con un andamento raffinato e fiero, leggiadro, veloce e composto come quello di una gatta, attraversò gli ampi corridoi in pietra battuta dell’immensa dimora sua e di suo figlio, il piccolo che ancora le sonnecchiava beatamente in braccio, accucciato come un indifeso micetto nell’incavo tra spalla e collo. Si fermò solo quando giunse dinnanzi alla stanza dove il piccolo Heracles dormiva in completa solitudine.

Lì, immobile, sembrava una bellissima statua marmorea, dal portamento regale capace di incutere impotenza e soggezione anche nel più ostile dei nemici, dallo sguardo che trasmetteva quel misto di forza e saggezza, da quella particolare e spartana bellezza che le donava un’aria mistica, divina.

Aspettò qualche istante prima di adagiare con tutta la premura di cui era capace il bambino nel suo giaciglio, donandogli un’ultima, tenera, carezza e sorridendo quando vide il piccolo contorcersi e mugolare per il fastidio provocatogli dalla superficie setosa del suo letto, così fredda rispetto alla tiepida pelle della madre.

Gli lasciò un ultimo bacio sulla fronte, prima di lasciarlo solo a dormire nella stanza. Lei sarebbe andata a riflettere un po’ all’aria aperta. Osservare il cielo le aveva sempre fatto bene, le stelle la facevano sentire protetta, sorvegliata, mai sola. Misteriosi punti di luce posti su un’oscura tela, posta così lontano dalla terra da esser irraggiungibile per i comuni mortali. Solo gli dei e gli eroi avevano il diritto di toccarla, solo chi aveva vissuto una vita gloriosa poteva aspirare a farne parte, un giorno.

Si affacciò ad una delle finestre di casa, troppo strette per far passare un uomo robusto, ma adatte alle minute spalle della donna, la luce lunare le illuminò flebilmente i tratti del volto e il braccio a cui era appoggiato per sorreggersi e scrutare al meglio il cielo scuro. Il plenilunio conferiva una particolare luminosità a quella sera.

La donna fissava incantata la sfera di candida luce bianca. Secondo il sogno del figlio, non avrebbe vissuto ancora a lungo; se tutto fosse andato per il meglio, massimo sei, sette anni.

Mentre il pallore della luna si rifletteva tutt’intorno e sulla sua lattea pelle, Magna Grecia continuava a riflettere sul significato del sogno premonitore del suo piccolo Heracles.

«L’albero che fiorisce e appassisce – mormorò – sta ad indicare il tempo che passa. La colonna sono io, suppongo. Solo io posso rappresentare la stabilità di mio figlio, è troppo piccolo per poter contare sulle proprie forze. Il misterioso gatto dal volto nell’ombra rappresenta il mio assassino.» si raggomitolò meglio nelle spalle, appoggiando poi la schiena ad uno dei freddi stipiti in pietra della finestra, rimuginando sul nefasto futuro che l’attendeva, i lineamenti belli e severi, aggrottati in una tesa espressione addolorata, erano illuminati dai fiochi raggi lunari, mentre fiumi di pensieri torbidi come il mare in tempesta turbinavano nella sua mente.

Rimase a lungo in quella posizione, a riflettere. Riflettere sulla sua vita, su quella di suo figlio, su quella del loro impero. Era curioso come anni prima se ne sarebbe infischiata di morire.

Lei era Magna Grecia, anche se fosse morta, sapeva che avrebbe lasciato un segno permanente nell’animo del mondo, chiunque l’avrebbe ricordata con onore e stima, e questo le bastava. Le bastava finché non le nacque Heracles.

Quel piccolo pigrone dai vispi occhi verdi aveva totalmente sconvolto i suoi piani di vita: con lui sentiva di non aver del tutto adempiuto al compito che le era stato assegnato, far vivere il figlio senza l’amore e il sostegno degni della migliore delle madri le avrebbero impedito di cadere nelle braccia dell’insensibile Thanatos in pace. Gli voleva troppo bene per poterlo lasciare solo al mondo.

Serrò nervosa una mano attorno all’altro sottile avambraccio, quello che sorreggeva il volto, finché le nocche non divennero di un curioso colore ancor più biancastro del naturale color latte della pelle della donna.

«Dovrò insegnargli quanto più possibile. Devo farlo per me, per poterlo lasciare un po’ più tranquilla. Devo farlo per lui, per sapere che il mio figlioletto un giorno potrà sbocciare e fiorire ancor più bello e forte di quanto lo sia stata io.»

Le parole che pronunciò, determinate e ferme, furono portate via dalla fresca brezza primaverile, ma la promessa che racchiudevano, quella non si sarebbe smossa nemmeno col più forte dei venti di Eolo. 

La donna gettò un’ultima occhiata alla luna, il pallido bianco immerso nei suoi occhi creava una lieve sfumatura di grigio nella limpida iride verde chiaro, per poi avviarsi, seria e composta verso la sua stanza. Nonostante la quiete trasmessa dall’elegante e fluida camminata, nell’animo della donna ruggiva forte il suo ultimo desiderio, il più importante e difficile di tutti.

Giurava su tutti gli dei dell’Olimpo che il figlio, prima che lei morisse, sarebbe stato pronto a spiccare il volo, librandosi alto senza rischiare che le sue fragili ali bruciassero per la troppa vicinanza al sole.

 

Heracles aveva amato intensamente la madre, e la amava ancora, nonostante tutto quel che di lei gli rimaneva erano i resti delle sue antiche e bellissime costruzioni, delle sue mille e più colonne bianche e alte.

Gli ultimi anni in cui aveva vissuto assieme alla madre gli erano serviti a forgiare quello che si sarebbe rivelato un vero eroe, un vero saggio.

Aveva studiato assieme alla madre l’epica, la mitologia, l’architettura e, soprattutto, la filosofia.

Da quando era divenuto un uomo adulto, molte cose gli erano chiare: sapeva che sua madre, quel giorno in cui ebbe lo spaventoso incubo sul gatto che rompeva la colonna, era divenuta conscia della sua imminente fine, così come aveva compreso perché, per farlo riaddormentare, aveva deciso di raccontargli a proposito degli dei Thanatos e Hypnos.

Voleva tranquillizzarlo. Aveva cercato di inculcargli l’idea che tra morte e sonno l’unica differenza era che la prima era eterna, il secondo no; come se i vivi, dormendo, avessero la possibilità di entrare nella dimensione in cui viveva chi ormai aveva abbandonato il mondo terreno. 
Lui nei suoi sogni l’aveva cercata, e a lungo. E per farlo era divenuto ancor più pigro e indolente, ogni occasione era buona per appisolarsi alla ricerca della porta che l’avrebbe condotto nel posto da cui la madre, ne era sicuro, continuava a vegliare su di lui.

Aveva inoltre compreso, finalmente, il significato della curiosa frase che gli disse una volta: «Sou arché eimi

“Sono la tua arché

Per i filosofi, l’arché era l’origine, era ciò grazie a cui il Kosmos poteva esistere, era la forza matrice dell’universo e di tutti gli esseri che lo ospitavano.

Sua madre era stata la sua arché. Grazie a lei aveva conosciuto il mondo, le sue bellezze e le parti peggiori, era merito suo se tutto ciò che i suoi sensi percepivano poteva avere senso, sotto la sua guida era riuscito a vedere la realtà sotto una luce particolare, diversa da quella di tutte le altre nazioni, più completa rispetto a quella di chiunque altro. Tutto questo solo grazie a sua madre.

«Pròton mou arché èsta, mèter, allà kài nyn mou psyché eì

 

Un tempo eri la mia arché, mamma, ma ora sei anche la mia anima.

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Angolino dell'autrice: 

Alors~, partiamo dal presupposto che sono un tantino arrugginita con le fic (non ne scrivo una seria da un bel po'), e che questa è la prima volta che scrivo una FF in questo fandom. Quindi abbiate almeno un minimo di pietà. xD

Detto questo, aggiungo solo... SAAALVE! :D Avevo da un po' di tempo voglia di scrivere qualcosa su Grecia e sul suo rapporto con la madre, visto che Himaruya l'ha sempre buttata molto sul vago .w."... Ho sempre amato tutto ciò che concerne l'Antica Grecia, quando ho saputo che ne esisteva anche il personaggio Hetaliano ho detto "Ok, ora o le dedico tutta la mia spasmodica attenzione o le dedico ben più." Ho scelto di dedicarle il più :P

Il titolo, letteralmente, significa "Sono la tua origine" in greco antico (e, a proposito, si dovrebbe leggere come un'unica parola con l'accento sulla e di Arché, tipo "Suarchèeimi", essendo sou ed eimi parole non toniche), ma il suo significato più appropriato nel contesto, come avete potuto leggere, non è quello. Mentre nell'ultima frase, mou arché si legge "Muarché" per lo stesso discorso di sou arché,nyn si pronuncia "niùn" e mou psyché "Mupsiuché". Ci tengo a fare  questi appunti  semplicemente perché  considero il Greco antico una lingua spettacolarmente bella, anche se poi nei compiti in classe mi fa un po' dannare ç//////ç *caccia un fazzoletto e si soffia il naso*.

Anyway,  se  qualche classicista  più esperto di me  nota qualche imperfezione o errore nel modo in cui ho reso la frase in greco, non esiti a farsi avanti!  ^^ Purtroppo il  Greco  anrtico è una di quelle lingue di cui puoi scrivere solo ciò che ricordi. E non sempre quello che ricordo io è esattamente corretto. "x3 


Ringrazio tantissimo anticipatamente chi legge o magari commenta la fic, o chi addirittura la aggiunge alle preferite! ^///^

Ape

P.s. Mi ero completamente scordata gli ardui litigi che devo fare ogni volta coi codici HTML... <.<"

  
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