RATING:
Giallo.
GENERE:
Introspettivo,
Malinconico, Romantico (?).
PAIRING: Sherlock/John.
AVVERTIMENTI:
Angst,
Slash,
What if?, un po’ di parolacce, sprazzi di OOC (temo).
DISCLAIMER:
I
personaggi non mi appartengono, né i diritti della serie
(ahimè) che vanno
tutti alla BBC. Non guadagno niente dalla mia attività di
fangirlamento
compulsivo.
DEDICA: “I’m thankful for my years
spent
with you for everything we shared,
every chance we had to grow. I'll take the best of them with me and
lead by
their example wherever I go. A friend told me to be honest with you, so
here it
goes. This isn't what I want, but I'll take the high road. Maybe it's
because I
look at everything as a lesson, or because I don't want to walk around
angry,
or maybe it's because I finally understand. There are things we don't
want to
happen, but have to accept. Things we don't want to know, but have to
learn.
And people we can't live without, but have to let go”.
NOTE:
Beh, che dire?
Parecchie cose, in realtà.
La
prima è che se non fosse stato per le meravigliose parole
di Mr. Wilde, Mr. Beckett e Mr. Allen questa two-shot sarebbe
infinitamente più
sciatta e insignificante di quanto non sia già. Poi, questo (http://www.youtube.com/watch?v=mwLyk3rxp_8)
è il link della canzone che da il titolo alla storia, e in
qualche modo ne è
anche il filo conduttore. Ne consiglio caldamente l’ascolto,
e già che ci siete
fate attenzione al testo. Secondo me ne vale la pena, e poi
è straziante a
sufficienza (deprimetevi con me, insomma!). Ultima precisazione:
l’idea di
cimentarmi con del sano (?) angst mi solleticava già da un
po’, ma a farmi
decidere di mettere tutto per iscritto è stata la Challenge di Carnevale indetta da MarchesaVanzetta su Facebook. Il prompt
utilizzato -proposto dalla
sottoscritta, tra l’altro- è “Certe
volte ritornano”.
Buona
lettura!
“E
t’amo, t’amo, ed è continuo
schianto!”
(Giuseppe
Ungaretti)
Ogni
tanto gli capita ancora di sognarlo.
Sherlock
l’alieno, Sherlock lo Strambo, Sherlock “Sono
sposato con il mio lavoro”, Sherlock l’antieroe,
Sherlock asessuale-del-cazzo. L’analfabeta
dei sentimenti, l’idiot savant capace
di eccitarsi davanti alla prospettiva di risolvere un omicidio
truculento senza
provare un briciolo di compassione per i parenti delle vittime, per i
sopravvissuti.
Così
privo di empatia da essere il più umano di tutti. Cinico,
tagliente, brutale.
L’uomo
che sembrava invincibile è morto -si
è suicidato- buttandosi dal tetto del
St Bart’s. L’uomo che sembrava più
inscalfibile del diamante ha pianto nel
dirgli addio.
John
lo sa perché ha percepito un’incrinatura nella sua
voce,
nel suo accorato appello. Ha visto un’unica lacrima solcargli
la guancia e non
gli interessa l’impossibilità della cosa, che
fosse troppo distante per esserne
sicuro. Lui lo sa. Lo sa. L’ha visto, e tanto basta.
Di
notte, il suo subconscio gli gioca brutti scherzi. Rivede,
in un replay infinito, la sagoma di Sherlock spiccare il volo e
piombare nel
vuoto, schiantarsi sul marciapiede. Il sangue che gli macchia i bei
capelli
scuri ed il cappotto con il colletto tirato su per fare il figo, gli
occhi
trasparenti come cristallo ormai vitrei e spenti.
Sherlock
è morto in una giornata fredda, eppure quando John
si ridesta dagli incubi è sempre in un mare di sudore
–il pigiama fradicio che
butta in lavatrice, le lenzuola spiegazzate.
Dio
è morto, Sherlock è morto e nemmeno lui si sente
troppo
bene.
Lo
scherzo
peggiore che gli dei vi possano fare è quello di esaudire i
vostri desideri.
Quando,
impalato davanti ad una lapide di marmo nero, aveva
supplicato Sherlock di non essere morto, di compiere un altro miracolo
“solo
per me”, di smetterla con quella pagliacciata, gli era
balenata in mente quella
frase di Oscar Wilde.
Non
era d’accordo. Lui voleva con ogni fibra del suo corpo
che gli dei esaudissero il suo desiderio, che gli restituissero quel
geniale
cazzone asociale dell’amico; che lo rispedissero
dall’oltretomba prendendolo a
calci in culo, talmente esasperati dalla sua saccenza da concedergli
una
seconda occasione nel mondo dei vivi.
Ma
era morto. Inutile indugiare in sciocche fantasie.
Inutile sperare nell’insperabile.
Se
ne era fatto una ragione, alla fine. Assistito dalla sua
analista aveva affrontato e superato tutti gli stadi del lutto
(negazione,
rabbia, contrattazione, depressione, accettazione), soffermandosi
dolorosamente
su ognuno di essi.
A
tre anni dalla tragedia può considerarsi sulla via della
guarigione.
Da
circa sei mesi frequenta una donna, Mary, infermiera
neoassunta all’ambulatorio dove lavora anche lui. Ha preso
l’abitudine di
uscirci insieme due o tre sere alla
settimana: cinema, pièce teatrali, musical e
cene al ristorante o
d’asporto, consumate sul tavolo della cucina
dell’appartamento di lei. I loro
appuntamenti terminano sempre da Mary, in effetti. John non se la sente
di
farle varcare la soglia del 221B
di Baker Street, dove continua ad abitare.
E’
alquanto patetico, a pensarci bene -morboso, l’avrebbe
definito Sherlock- ma alla sola idea di abbandonare le stanze che aveva
condiviso con il detective si era sentito mancare l’ossigeno.
In qualche modo
contorto e masochistico sapeva di dover restare lì. Non
perché sperasse davvero
in una resurrezione dell’amico: semplicemente, glielo doveva.
Glielo doveva
perché lui aveva dato la vita per salvare quella dei suoi
amici -così gli aveva
spiegato Lestrade, sconvolto, dopo aver scoperto che Holmes aveva
registrato
sul cellulare tutto lo scambio di battute tra lui e Moriarty avvenuto
sul tetto
dell’ospedale.
Mycroft
non aveva avuto niente in contrario all’idea che gli
effetti personali del fratello rimanessero a Baker Street, ammassati
senza
criterio da John in quella che era stata la sua camera da letto. Non
era stata
sua intenzione erigere un santuario del dolore, un altarino in onore
del
defunto, anzi. Non teneva particolarmente ad avere una crisi di nervi
ogni
qualvolta lo sguardo gli fosse caduto sul violino o sul microscopio di
Sherlock. Voleva solo continuare a sentirne la presenza, cercando al
tempo
stesso di liberarsi del suo fantasma.
Con
il tempo, John è fiducioso, smetterà di farsi
venire un
groppo in gola ripensando a lui. I ricordi sbiadiranno, perderanno
nitidezza,
scivoleranno in una sorta di pietoso oblio della dimenticanza e la
ferita si
rimarginerà.
Un
giorno, forse, riuscirà a sorridere nostalgicamente
guardando i fori sulla carta da parati del salotto lasciati dai
proiettili
sparati da Sherlock durante uno dei suoi attacchi acuti di noia.
Un
giorno. Forse.
E’
una gelida domenica mattina di gennaio quando suonano
alla porta.
Mrs.
Hudson è a messa e John è solo in casa. Getta nel
lavello la bustina del tè e si avvia verso
l’ingresso, scendendo i gradini
cautamente, onde evitare che il liquido bollente strabordi dalla tazza
che
tiene in mano. Non perde tempo a guardare dallo spioncino e apre.
Ed
ecco che l’impensabile accade: si ritrova davanti un
sosia di Sherlock Holmes.
Accidenti,
quanto gli somiglia. Stessa
carnagione lattea, stessi zigomi
scolpiti, stessi occhi da extraterrestre di quel grigio-azzurro
cangiante.
Stessa arruffata chioma castana, addirittura lo stesso cappotto e la
stessa
sciarpa. Persino l’altezza è quella giusta, il
labbro superiore è ben disegnato
e sensuale come lo ricordava.
E’
un sosia perfetto, ma non abbastanza da fregare John.
Lui
ha conosciuto il vero Sherlock, e gli basta un’occhiata
per capire che non può che trattarsi di un fottutissimo
sosia; il detective non
ha mai avuto quell’espressione di puro terrore misto ad ansia
dipinta sul
volto, neanche quando aveva dato di matto a Baskerville.
E
se fosse un
clone? Una trovata macabra di Mycroft, magari. In fondo la dottoressa
Sapleton
ci aveva confermato che nei laboratori della base militare lavoravano
anche
alla clonazione umana… Ma anche se fosse, anche se non si
trattasse di un’allucinazione,
che cazzo ci fa una fottutissima copia vivente di Sherlock sulla soglia
di casa
mia? Ah, ma questa Mycroft me la paga, quant’è
vero che mi chiamo John Hamish
Watson-
“Riesco
a sentire il rumore degli ingranaggi del tuo
cervello, dottore. Non hai imparato a pensare silenziosamente, mi duole
constatare”.
Stramaledettissimo
Giuda ballerino, ha persino la stessa identica voce. E la stessa ironia
pungente del cazzo.
Lo
guarda fisso nel ghiaccio dei suoi occhi, in cerca di
conferme.
Dimmi
che non
sei veramente tu. Ti prego.
“John?”
sussurra la voce di quello lì. E’
venata di paura, forse?
Dev’essere
un
incubo, non c’è altra spiegazione. Qualcuno mi dia
un pizzicotto, ho le braccia
di piombo e non riesco a muoverle.
“John?”
insiste il tipo.
Una
volta eliminato
l’impossibile, ciò che rimane -per quanto
improbabile- deve essere la verità.
“John,
sono io. Non
stai sognando, non è una candid camera. Sono io”.
Santa
miseria, mi legge pure nel pensiero.
Un
rumore di
porcellana infranta lo riscuote dal torpore in cui era caduto -la tazza
gli è
scivolata di mano, peccato, era la sua preferita- e qualche schizzo di
tè gli
finisce sui jeans. Una pozzanghera color ambra si forma sullo zerbino.
“Oddio”
mormora
l’altro concitato. “Stai bene? Ti sei scottato?
John, mi senti?” gli poggia le
mani sulle spalle, lo scuote con fermezza ma gentilmente.
Ha
le gambe molli,
il battito cardiaco accelerato. Inizia a sudare freddo.
Lo
scherzo
peggiore che gli dei vi possano fare è quello di esaudire i
vostri desideri.
E’
Sherlock.
E’
Sherlock ed è vivo, solo il Cielo sa come.
Wilde
aveva
ragione, dopotutto.
E’
l’ultimo pensiero di John prima di venire risucchiato dal
vuoto.
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Ok,
se state pensando “ohmadonnacheschifo” sappiate che
sono
del vostro stesso parere. Lo stile lascia a desiderare -so scrivere
meglio di
così- e con l’angst devo ancora prenderci mano
(soprattutto considerando che
l’altra mia Sherlock/John è di genere
comico-demenziale).
E’
prevista una seconda e ultima parte e la pubblicherò in
ogni caso, perché nonostante questa storia non mi convinca
del tutto ho voluto
fortemente scriverla; è stato catartico, avevo proprio
bisogno di sfogarmi.
Questa,
se vi interessa,
è la mia pagina autore su Facebook, per seguire in diretta i
miei scleri (http://www.facebook.com/pages/Il-Genio-del-Male-EFP/152349598213950).
A
risentirci con il
seguito!