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Autore: Sylphs    22/02/2012    4 recensioni
Sei mesi dopo la notte del don Juan, una giovane pianista un po' inopportuna arriva al teatro dell'Opera per seguire delle lezioni...ma un misterioso e ambiguo incidente capitato durante una rappresentazione la porterà ben presto a indagare sull'esistenza del temibile Fantasma dell'Opera e una domanda opprime l'animo di tutta la compagnia: è realmente scomparso, oppure la loro era solo una speranza vana?
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Mezzanotte sulla Senna

 
 
 
 
 
Vivian non avrebbe mai potuto supporre di raggiungere uno stato d’animo di sincera serenità nei sotterranei d’un teatro, immersa in un buio perenne e quasi sospesa in una dimensione parallela, in cui il tempo e lo spazio non esistevano e in cui non c’erano astri a scandire il giorno e la notte, ma solo le fiammelle delle candele, perpetuamente accese, e la fitta caligine ad aleggiare sulle acque del lago. Aveva sempre amato l’aria aperta e le gite nella natura incontaminata, poiché quelli erano gli unici luoghi che l’avidità umana non era riuscita a corrompere, e la sensazione del vento tra i capelli, degli steli d’erba sotto i piedi nudi e dei baci del sole sulle guance.
Ma col passare dei giorni, nel periodo successivo alla disavventura nel precipizio, s’accorgeva che non le mancavano le foreste vergini, i fiumi irruenti e le alte montagne esplorate in passato. La stanza in  cui dormiva e l’ala centrale della Dimora sul Lago, in cui si recava a suo libero piacimento grazie all’insperata concessione del Fantasma dell’Opera – no, Erik – erano divenuti per lei posti graditi e accoglienti, intoccati dalle intemperie e immobili nelle viscere della terra. Le piaceva pensare che sopra la sua testa si consumavano le abitudini e i riti giornalieri del teatro, che i suoi abitanti si muovevano per sale e corridoi, ignari di calpestare il soffitto della sua nuova casa, e di prendersi una pausa dalle mille incombenze e le mille preoccupazioni che avevano determinato il corso della sua vita, per trascorrere ore tranquille e contemplative con il suo ospite. Aveva deciso di stabilirsi presso la sua dimora con lo scopo di carpirgli informazioni utili a consegnarlo alla giustizia, ma via via che il tempo passava, i suoi propositi originari s’erano fatti sempre più sbiaditi e superflui, e aveva abbandonato, senza esserne consapevole, la morsa di tensione e di ansia che le aveva attanagliato lo stomaco nel primo periodo, considerando il suo soggiorno come una sorta di vacanza che l’avrebbe tenuta lontana dai problemi e dalla malevolenza della gente. Ogni volta che il suo io calcolatore le rammentava il reale motivo della sua presenza lì, scuoteva la testa e si affrettava a pensare ad altro, incapace di far fronte alla questione.
Avrebbe riflettuto su di essa una volta trascorsi i dieci giorni. In effetti, la impauriva il sopraggiungere della fine del suo soggiorno nei sotterranei. L’atmosfera di rispetto e di riconoscenza che si era instaurata tra lei ed Erik era un qualcosa che non aveva mai conosciuto, un rapporto da pari a pari di cui non aveva potuto godere in passato che non desiderava lasciare andare. Tuttavia non aveva il coraggio di chiedergli se era disposto ad allungare il periodo stabilito. Malgrado egli fosse divenuto di gran lunga più gentile e accomodante (entro i limiti che gli concedeva la sua indole arrogante e brusca) c’erano aspetti della sua personalità che le erano ancora oscuri, e non voleva forzarlo troppo a manifestarli. Attendeva, col cuore in gola, e sperava che prima o poi sarebbe stato Erik stesso a porgerle un simile invito, tormentata dal timore di non essere una compagnia piacevole per un uomo così disabituato ad interagire con gli altri. Era vivace e chiacchierava con agio di questo o di quello, informandolo di cosa accadeva nel mondo e trovando aneddoti arguti per qualsiasi argomento, ma a volte aveva l’impressione che una parte di lui non la ascoltasse fino in fondo e che la sua mente complicata e bizzarra seguisse ragionamenti che la escludevano totalmente. Perlomeno non la interrompeva più per fare qualche commento acido e la lasciava parlare finché ne aveva voglia, tenendole puntati addosso quegli occhi luccicanti che trovava di giorno in giorno più belli.
Si sarebbe fidato di lei, prima o poi, al punto da metterla a parte dei suoi pensieri più foschi e delle sue macchinazioni?
Al mattino consumavano insieme la prima colazione, in una saletta da pranzo che la ragazza non aveva mai visitato in precedenza e che lo stesso Erik doveva usare assai di rado, a giudicare dalla quantità di polvere e dallo stato di evidente abbandono. L’uomo le aveva chiesto formalmente perdono per le condizioni di degrado della sala e le aveva detto che aveva ogni diritto di mangiare il suo pasto in camera, se provava troppa repellenza a farlo lì. Alle volte si comportava in un modo terribilmente serio e compito, quasi fosse stato un gentiluomo algido e lei una graziosa damigella in visita. Ma forse era dovuto soltanto all’età (era un uomo maturo, non doveva dimenticarlo) e ai dispiaceri che l’avevano indurito negli anni, strappandogli ogni slancio e ogni desiderio di lasciarsi andare. Non sorrideva mai, conservando un cipiglio fosco per quasi tutta la giornata, e teneva una postura rigida e controllata, senza farsi sorprendere da lei in atteggiamenti naturali come ridere, sbadigliare e grattarsi. C’erano momenti in cui si domandava addirittura se ne fosse ancora capace, o se avesse lavorato su se stesso con tanta minuzia da averli estirpati completamente.  
Però lei aveva veduto l’uomo che si nascondeva dietro all’impassibile fantasma, il selvaggio brulicare di emozioni sepolto nel fondo delle sue iridi e scolpito nelle piaghe che gli deturpavano la carne, e sapeva che le sue erano solo delle pose, dei sistemi di autodifesa, che un giorno forse sarebbe riuscita ad abbattere. Le quarantotto ore che Erik aveva trascorso a letto, la spalla rotta strettamente bendata e i tagli sulle braccia puliti e disinfettati con alcol etilico, era apparso sudato e pallidissimo, oppresso da una mortale stanchezza e da una sofferenza umana che Vivian aveva ammirato finché non aveva ripreso il controllo di se stesso e non aveva preteso di alzarsi, nuovamente invincibile e gelido. La ragazza aveva provato un sincero piacere a prendersi cura di lui, nonostante il suo paziente non si fosse lasciato sfuggire un gemito e avesse mostrato riluttanza ad essere accudito, e aveva svolto il suo compito con una solerzia che aveva lasciato entrambi sbalorditi, tamponandogli la fronte sudata con pezzuole imbevute dell’acqua del lago e cambiandogli la bendatura ad orari prestabiliti. All’inizio Erik non aveva voluto mostrare la propria infermità, ma poco prima della brusca ripresa le aveva chiesto, con evidente impaccio e vergogna, se poteva leggergli qualcosa e Vivian era stata ben lieta di andare a prendere il libro che le aveva indicato e di declamarlo ad alta voce, poiché il ferito provava troppa nausea a farlo da sé.
Era un tomo voluminoso e pesante, intitolato “Delitto e castigo” e scritto da un autore contemporaneo di origini russe, a giudicare dalla data di pubblicazione, 1866. La storia era introspettiva e malsana e si soffermava sul concepimento, l’elaborazione e infine la messa in atto d’un omicidio, da parte di un giovanotto povero in canna che viveva in una lurida pensione e che, per motivi poco chiari al suo stesso cervello, voleva liberarsi di una vecchia strozzina per rubare il suo denaro. Dopo aver commesso il delitto, tuttavia, nascondeva gli averi della vittima e non se ne curava più, precipitando in una voragine di panico, rimorso e follia. Vivian non aveva letto molti libri nel corso della sua vita, poiché nella loro catapecchia ce n’erano ben pochi e per lo più erano manuali o saggi, ma la vicenda del romanzo la catturò all’istante e si portò il volume in camera, risoluta a finirlo e a scoprire quale sarebbe stato il “castigo” del giovane assassino. Senz’altro, era una maniera interessante di entrare nell’ottica di chi aveva ucciso, e non si stupiva che il libro fosse tra i più preziosi che Erik possedeva.
Intanto lavoravano incessantemente al progetto su cui s’erano accordati quando l’uomo era rinvenuto nella sua stanza, la canzone che Vivian aveva immaginato e scritto e su cui nutriva un’infinità di riserve. Si fidava in modo totale e assoluto dei consigli e delle correzioni del suo “maestro”, ma provava sempre una morsa di imbarazzo vedendolo concentrato su un brano tanto mediocre e dilettantesco. Le quattro ore in cui sedevano vicini al pianoforte, muniti di pennino e di boccetta d’inchiostro, egli le faceva notare imperfezioni ed errori che da sola non sarebbe mai stata in grado di riconoscere e annotava una nota al posto di un’altra, accenti significativi o lievi a seconda del caso e alcune sorprese melodiche di cui lei ignorava l’esecuzione.
“Sta tranquilla” l’aveva rassicurata con tono mite, probabilmente ricordando quanto delicato fosse per lei l’argomento e quanto fosse facile allo scoraggiamento: “È assolutamente normale che tu non ci riesca subito. Ma sei brava, hai un tocco esperto, vedrai che alla fine non commetterai più errori”.
Era un tipo di insegnante completamente diverso da quelli che Vivian aveva avuto in passato. Mescolava la severità all’indulgenza ed era molto paziente, una caratteristica, questa, che l’aveva enormemente stupita, dal momento che per tutte le altre questioni si infastidiva per un nonnulla. Era palese che la musica fosse la sua passione. La correggeva con gentilezza quando sbagliava un accordo e ascoltava con attenzione le sue timide proposte e le sue giustificazioni (“la canzone è tua, Vivian, sei tu che devi scriverla, io sono qui solo per aiutarti”) ma si spazientiva rapidamente se insisteva sullo stesso errore o se si mostrava indolente e svogliata (“non siamo qui per perdere tempo, se non hai fiducia nel progetto, gradirei essere informato”) e riassumeva all’istante il suo tono aspro e duro. Ma era proprio il genere di maestro che serviva a lei, la incoraggiava a non perdere la speranza nelle sue capacità e la costringeva a dedicare al lavoro una concentrazione costante, al punto che terminata la lezione crollava sul suo letto, stravolta ma soddisfatta.
Per la prima volta nella sua vita, si sentiva considerata, si sentiva talentuosa. L’oscurità in cui s’era ostinata a vivere quegli anni, la rassegnazione con cui s’era inchinata all’apparente superiorità dello spettro di sua madre le apparivano di colpo delle umilianti dimostrazioni di vigliaccheria e di debolezza, un facile pretesto in cui s’era rifugiata per non sforzarsi davvero nella sua vocazione. Con l’accompagnamento delle nozioni impartitele da Erik, Amélie Carré svaniva nell’oltretomba, cessava di rimbeccarla con la sua voce di soprano e si dissolveva nell’aria fredda lasciando solo il vuoto rassicurante d’un ricordo lontano. Le sembrava quasi d’ascoltarsi per la prima volta, di intravedere un talento mai notato prima e costantemente frustrato, di dedicare anima e corpo alla sua composizione. Lei ed Erik l’avrebbero resa magnifica, un capolavoro, un grido di libertà e di sollievo con cui si sarebbero disfatti di parte della loro infelicità.
Avrebbero dato vita a qualcosa che sarebbe stato di loro dominio esclusivo, che nessuno, né Antoine, né Christine, né Amélie, né Raoul avrebbe potuto portargli via. Con quelle note, sarebbero esistiti per l’eternità, immortali e legati dalla passione che li aveva accomunati nel progetto.
Ma non erano solo ausilio e insegnamenti che voleva da lui, era inutile mentire a se stessa. Nel corso della seconda parte del suo soggiorno presso la Dimora sul Lago, aveva incominciato ad assumere degli atteggiamenti assai bizzarri che non le erano mai stati comuni e che la irritavano e impaurivano al tempo stesso. La mattina, anziché scegliere il primo abito che le capitava sotto mano e raccogliere frettolosamente i capelli sulla nuca con qualche forcina, sostava parecchio tempo dinnanzi alla cassaforte aperta e si mordicchiava ansiosamente il labbro, domandandosi quale colore le avrebbe donato di più e rimpiangendo l’assenza d’uno specchio vero e proprio, dal momento che il piccolo esemplare nel bagno le concedeva di rimirare solo testa e busto, anziché la figura intera. Premeva le delicate stoffe ornate di ricami contro di sé e tentava di immaginarsi con addosso quei pochi vestiti che aveva a disposizione, scegliendo quasi sempre un modello color vino con una generosa scollatura e ampie maniche, o la morbida seta verde che aveva indossato il giorno in cui aveva sorpreso Erik a distruggere la bambola di cera. Si pettinava i riccioli con cura, frustrata dalla maniera in cui si aggrovigliavano e si ribellavano al suo volere, e annodava nastri sgargianti sulle ciocche più in vista o si cimentava in una serie di acconciature complicate che in passato aveva aborrito con tutta se stessa.
Non si riconosceva in quella smania di comparire al suo ospite abbigliata e pettinata in guisa seducente. Non le era mai interessata l’opinione degli altri in merito al suo aspetto, né aveva mai perduto tempo nella scelta del vestito o nel compito di creare una pettinatura raffinata, aveva sempre lasciato i capelli sciolti e liberi di arricciolarsi sulle sue spalle e il corpo comodamente racchiuso in vesti modeste e poco articolate. Perché perdeva tempo e dignità in un’occupazione che, in ogni modo, non avrebbe cambiato assolutamente nulla? Erik non l’aveva mai degnata d’uno sguardo ammirato o colpito, era insensibile al suo aspetto così come era insensibile a tante altre cose, e pareva non accorgersi minimamente dei suoi recenti sforzi di apparirgli carina. La salutava con il suo solito tono formale e le versava il tè, distogliendo lo sguardo dal suo viso acceso di aspettativa per posarlo sulle pietanze collocate sul tavolo.
Certo, lui aveva la perfezione di Christine Daaé come metro di paragone, come avrebbe potuto trovare belli il suo naso aquilino e i suoi lineamenti marcati? Perlomeno condivideva il suo disagio estetico. Dopo che gli aveva fatto comprendere di non provare alcun orrore per le sue piaghe, aveva smesso di portare la maschera in sua presenza, ma era fin troppo semplice avvedersi di quanto scarsamente fosse avvezzo a mostrarsi in viso e tendeva spesso a poggiare una mano sulla parte sfigurata per celarla in un gesto casuale, o a contorcersi imbarazzato quando lei lo guardava. Vivian evitava di parlarne per non urtare la sua sensibilità, ma egli non aveva alcun bisogno di irrigidirsi così. Al principio, ovviamente, era stato arduo abituarsi a quella faccia spaccata a metà e a quel male che ne aveva contaminato solo un lato, ma col passare del tempo aveva cessato totalmente di farci caso. Era, per lei, un uomo come gli altri.
Un uomo molto affascinante con un’abilità musicale che rasentava il miracoloso e con un profumo, uno sguardo, una postura che la ammaliava sempre più profondamente e che sempre più profondamente la induceva a dimenticare i delitti di cui s’era macchiato. Quando sedevano vicini sullo sgabello del piano, si protendeva casualmente verso di lui per assorbire parte del suo calore corporeo, e quando le prendeva una mano e l’accompagnava sui tasti per aiutarla in un passaggio particolarmente difficile, il suo sangue si accendeva al tocco delle sue dita e una corda vibrava dentro di lei. Di norma, affrontava con coraggio le proprie emozioni e non si negava verità scomode, ma la Presenza che da qualche giorno si era insediata al centro del suo petto, quella Presenza che la faceva reagire ad ogni sfioramento di Erik e che le gridava di deporre le armi una volta per tutte e riconoscere la sconfitta, era un mostro malevolo e insidioso e ne era troppo terrorizzata per strappargli la maschera e scoprirne il nome.
Erik le era grato per il salvataggio nel precipizio ed era convinto, per motivi che tuttora le erano ignoti, che avesse del talento nel suonare il pianoforte, ma i suoi sentimenti non si spingevano al di là di questo. Christine Daaé era stata troppo importante per lui, l’aveva amata per più di dieci anni, accompagnandola durante le difficili fasi dell’infanzia e dell’adolescenza, ed aveva avuto tutto il tempo di conoscerla e di apprezzarne i pregi. Un amore così struggente e assoluto non lasciava spazio ad una ripresa, e quando egli se ne era liberato, aveva fatto terra bruciata dei suoi sentimenti. Nel suo cuore, nella sua anima sarebbe rimasto per sempre il ricordo della sua antica musa, di un futuro insieme a lei che era sfumato per sempre. La consapevolezza di una tale verità l’aveva colpita con la violenza di uno schiaffo quando gli aveva domandato se l’avrebbe riaccolta e negli occhi di lui era balenato un lampo. L’avrebbe fatto. Le avrebbe lasciato la porta spalancata e l’avrebbe attesa a braccia aperte.
Vivian la odiava per questo. Ella non meritava quella dedizione e quell’amore, né alcun perdono. Aveva buttato via con indifferenza un sentimento per cui lei sarebbe stata capace di uccidere e aveva voltato le spalle al suo angelo, al suo protettore, al suo amico lasciandolo al furore sanguinario degli uomini accorsi a linciarlo e scappando con un moccioso non tanto diverso da Antoine. Perché dunque Erik l’aveva tanto adorata, al punto da raccogliere le ceneri della sua devozione nell’ipotesi di un suo ritorno e a plasmarle in un secondo amore? Che cosa aveva di tanto meraviglioso, oltre all’evidente bellezza e alla  bravura nel canto di cui egli era stato l’artefice? Avrebbe voluto con tutto il suo cuore che non fosse mai esistita…o che al suo posto ci fosse stata lei, ben più pronta ad accogliere Erik nella sua anima. Se ci fosse stato anche un solo modo di strappare il suo ricordo dalla mente oscura e indurita del fantasma, l’avrebbe utilizzato immediatamente e senza alcun ripensamento.
“È inutile amare una causa persa, tesoro” suo padre le aveva rivolto quelle parole cariche di amarezza appena era cessato un litigio particolarmente violento con la moglie, che gli aveva rinfacciato l’ennesima volta d’essere un fannullone buono a nulla e aveva maledetto tutti i santi d’essersi data a lui: “Non trarrai alcun beneficio da un sentimento così sventurato e infelice. E non arrenderti mai, mai ad essere un banale contentino”.
Avrebbe dovuto andarsene da lì. Rinunciare sia al suo piano, sia alla canzone e pregarlo di lasciarla andare prima del tempo. Quella storia non avrebbe mai avuto una conclusione felice, e doveva allontanarsene prima di subirne troppo a fondo le conseguenze. Ma la Presenza dentro di lei si opponeva, era indissolubile nella sua inutilità, e le sussurrava all’orecchio parole ammalianti e comode, menzogne dal suono gratificante in cui avrebbe tanto voluto credere. La esortava a rammentare il tono di commossa gratitudine con cui Erik le aveva parlato dopo essersi svegliato, lo sguardo protettivo di cui per un attimo l’aveva degnata e la rivelazione finale, il suo nome, la sua identità umana. Egli non aveva rivelato a nessuno quell’informazione, fuorché a Christine e a Madame Giry…e se l’aveva ritenuta meritevole di custodirla, significava che almeno si fidava di lei.
Una magra consolazione, ma sempre meglio della gelida indifferenza di prima.
Avrebbe voluto possedere una maggiore capacità di leggere nell’animo delle persone, per scoprire cosa si celava dietro al volto composto e corrucciato del suo silenzioso e solitario ospite. Forse si sbagliava, s’ingannava dicendosi che durante i pasti, quando sedevano in sala da pranzo, l’ascoltava con orecchio distratto e intanto si smarriva nelle sue riflessioni. Forse era soltanto un tratto caratteristico del suo temperamento, e per natura era poco incline alla chiacchiera e al riso. Mentre lei discorreva animatamente, non le staccava mai gli occhi di dosso e si portava alla bocca forchettate di cibo con gesti lenti e misurati. Ciò poteva significare una scarsa partecipazione, ma anche, al contrario, un’attenzione muta e profonda. Perché voler mangiare con lei, se aveva intenzione di intrattenersi alla stessa maniera di quando era solo? Evidentemente la sua compagnia non gli era sgradita, non lo infastidiva il suo cicaleccio continuo e animato. Lo conosceva abbastanza bene da sapere che se non avesse gradito ascoltarla parlare, glielo avrebbe detto subito.
Ma non desiderava che nella loro convivenza fosse soltanto lei a “parlare”, ad esprimersi, aveva stabilito con se stessa che avrebbe provato ad instaurare con lui un rapporto equo e gli chiese, con molta insistenza, di cantare per lei, poiché solo con la musica Erik si lasciava andare totalmente, abbandonava i vincoli e le pose assunte in ogni altro momento e gli si dipingeva in viso un’espressione di estasi e di pace che rendeva i suoi lineamenti quasi gradevoli. A causa della frattura alla spalla, era impossibilitato di suonare qualsiasi strumento, ma la giovane lo esortò caldamente a cantarle dei brani con la sua voce d’angelo oscuro e si immedesimò completamente negli stati d’animo che l’uomo attraversava durante le sue esibizioni, assorta dalla felicità che si ripercuoteva su di lui, attenuando l’orrore delle piaghe, e dal suo volto disteso e pacificato, magnifico nel suo trasporto.   
Avrebbe voluto ammirare quell’espressione in ogni momento, esserne la causa assieme alla musica.
Il nono giorno, il penultimo prima della fine di ogni cosa, Vivian non riusciva a star ferma per quanto era forte il suo nervosismo. Le attese erano state per lei fonte di orribile fastidio da tempo immemorabile. Stranamente, avvertiva di più il peso di un evento incombente due giorni prima che uno; l’ultimo era solo un soffio di vento, un addio in preparazione alla partenza dove non c’era spazio che per la rassegnazione, il penultimo invece era ancora intriso da una speranza, dal folle desiderio che nel tempo rimasto accadesse qualcosa di imprevisto e lo spettro dell’abbandono non incombeva ancora così visibilmente. Aveva passato la notte in bianco, girandosi e rigirandosi instancabilmente sotto le coperte troppo calde, tormentata da brevi incubi privi di senso in cui Antoine la inseguiva lungo corridoi attraversati da vetrate con raffigurati sopra angeli e diavoli e in cui lei invocava inutilmente il nome di Erik, che la guardava impassibile nell’oscurità e le diceva che i dieci giorni erano trascorsi e che non poteva più aiutarla. A colazione non era riuscita a mandar giù nulla ed era rimasta in un silenzio teso, riducendo in briciole la sua fetta di pane alle noci e mescolando meccanicamente il tè nella tazza. Erik, che aveva ripulito invece il suo piatto come ogni mattino (a differenza di lei, teneva le emozioni chiuse a doppia mandata dentro di sé e ragionava con la mente, mentre il corpo ostentava una tranquillità perpetua) le aveva lanciato di tanto in tanto qualche occhiata inquisitoria, ma non aveva fatto alcun commento.
La canzone aveva subito numerose modifiche in quel periodo, e avrebbe dovuto eseguirla dall’inizio alla fine (l’aveva ultimata con l’aiuto del suo maestro) per vedere se tutto filava liscio, ma tale era il suo stato che sbagliò quasi tutte le note e andò fuori tempo nella parte centrale dell’opera, irritandosi ancora di più e trattenendo a stento l’impulso di afferrare gli spartiti e lanciarli via. Era sul punto di ricominciare da capo, il peso di lacrime non versate ad opprimerle gli occhi, quando Erik la prese per un braccio e le domandò, calmo: “Cosa c’è che non và?”
Il sangue le affluì impetuosamente sulle guance e sulle orecchie. Dunque se ne era accorto. Chissà di quante cose si era accorto a sua insaputa, mentre la guardava con occhi freddi e immobili e la lasciava discorrere a tutto andare nel silenzio denso della Dimora sul Lago. Forse, da bravo osservatore impassibile, aveva appreso sul suo conto ciò che lei avrebbe voluto apprendere di lui e l’aveva inquadrata alla perfezione. Fu tentata di rispondere bruscamente, dato che di sicuro egli sapeva benissimo cosa la metteva tanto in ansia, ma non voleva sprecare il poco tempo che restava loro a litigare, così si morse la lingua: “Niente. Non ho dormito molto stanotte”.
“Se è per questo, neanch’io” commentò l’uomo con freddezza vaga, deciso a sminuire tutto ciò che lo riguardava e che avrebbe aiutato Vivian a capire un po’ di più quale comportamento doveva assumere con lui. Accostò le dita alla tastiera, credendo che la sua menzogna avesse troncato l’argomento, ma la mano di Erik le serrò il gomito con maggior vigore e la bloccò. Non aveva voglia di guardarlo in viso, ma percepiva il peso dei suoi occhi magnetici puntato addosso. Alla fine, lui disse: “So riconoscere quando qualcuno mente, Vivian. Hai sbagliato note che un bambino alle prime armi avrebbe trovato senza problemi e hai volutamente ignorato tutte le modifiche”.
Avvampò ancora di più: “Beh, te l’avevo detto di non essere davvero dotata”.
“Non giocare con me. Sei brava e l’hai dimostrato. Che cosa ti preoccupa oggi? Parla, perché attualmente non sei assolutamente in grado di suonare”.
Sembrava facile per lui, ma non lo era affatto. Non poteva svelargli che la causa del suo nervosismo era l’approssimarsi dell’addio tra di loro, e non perché non era riuscita a trovare le prove necessarie a farlo arrestare, ma perché non l’avrebbe mai più rivisto e una prospettiva del genere era diventata, da auspicabile, insopportabile. La sua reazione sarebbe stata completamente imprevedibile e lei avrebbe detestato essere trattata con condiscendenza. Ma se avesse persistito nel mentirgli, non se ne sarebbe reso conto comunque? I suoi occhi azzurro scuro a volte la guardavano come se potessero leggerle l’anima.
“Sono soltanto infreddolita” le parve una scusa patetica e visibilmente falsa, ma non le era venuto in mente niente di meglio. Da quando la Presenza si era installata nel suo corpo, mentire ad Erik le era risultato sempre più arduo e meschino e in numerose occasioni era stata lì lì per confessargli tutto, liberandosi da un fardello che sarebbe sempre aleggiato su di loro se lo avesse tenuto nascosto. Si era addirittura preparata un discorso modello nella mente, correggendolo e modificandolo un’infinità di volte mentre ci rifletteva a letto.
“Infreddolita?” ripeté lui sorpreso. Annuì con un breve scatto del capo: “Forse non sto molto bene”.
Era la verità. Se ricordava cosa sarebbe successo tra due giorni, provava una sensazione di dolore fisico, come se una mano dotata di artigli le avesse afferrato il cuore e le viscere e li avesse strizzati sadicamente.
Erik si tolse il mantello con un movimento elegante e glielo assestò sulle spalle, circondandola per un attimo con le braccia muscolose e attirandola al suo petto ampio e tiepido. Vivian sussultò, rammentando che già una volta aveva indossato quell’indumento, subito dopo l’aggressione nella cappella, e che se ne era disfatta con disgusto. Adesso si avvolse istintivamente nel ricco tessuto color ebano e annusò l’odore selvaggio del suo proprietario, tanto intenso da darle l’impressione di essersi fusa con lui. Avrebbe voluto posare la testa sui muscoli del suo torace e premere il seno contro l’addome compatto, ma l’uomo si allontanò dopo averla imbacuccata premurosamente nel mantello e le scrutò il volto con occhio clinico: “Sei un po’ pallida” fu la diagnosi. La ragazza chiuse gli occhi, accarezzata nel punto più intimo del suo corpo dalla preoccupazione sincera che gli leggeva nella voce: “Forse dovresti prendere un po’ d’aria”.
Li riaprì, confusa: “Come?”
Era assurdo parlare di prendere aria nella Dimora sul Lago, ma Erik era fin troppo serio. Parve arrivare ad una decisione rapidamente e si alzò dallo sgabello, offrendole la mano: “Vieni con me”.
Vivian si strinse più forte nel mantello, confusa dall’inaspettato invito: “Dove?”
“Fuori”.
“Fuori?”
“Sono nove giorni che vivi qua sotto. Hai bisogno di uscire” non c’era un briciolo di incertezza nelle movenze del fantasma, mentre avvicinava ancora di più le dita protese alle mani che teneva raccolte in grembo: “Ti fidi di me?”
“Sì” rispose lei impulsivamente. E non mentiva; per quanto fosse da pazzi avere fiducia nel Fantasma dell’Opera, era proprio ciò che provava. Forse non era abbastanza abile da captare la natura dei suoi sentimenti per lei, ma sentiva che non le avrebbe mai fatto del male. Non più. Era al sicuro, con lui, molto più che con il mondo esterno. Ed era sotto la sua protezione, ovunque desiderava condurla, non ci sarebbe stato Antoine ad aspettarla famelico. E poi, la incuriosiva quella novità.
Esitante, accettò la grande mano calda che le veniva offerta e le sue dita esili si intrecciarono d’istinto a quelle di Erik, che la tirò a sé con gentilezza e le fece strada in direzione del lago, un lieve sorriso enigmatico dipinto sul volto e un luccichio negli occhi luminosi. A Vivian sembrò che le accarezzasse il dorso della mano in un gesto istintivo e incontrollato, ma forse era stata solo la sua immaginazione. Ricordava che in passato l’aveva seguito ad una certa distanza, come un servitore con il suo padrone, ma adesso procedevano fianco a fianco e lui l’aiutava quando il terreno era particolarmente dissestato.
“Vuoi portarmi sulla tua gondola, Erik?” azzardò piano, assaporando il suono del suo nome sulle labbra. Lui si volse a metà, offrendole la vista di un profilo divertito: “In effetti, sì. Ma non ci sarà alcuna Sfinge stavolta, te lo garantisco”.
Gli restituì il sorriso: “Debbo aspettarmi qualcosa di peggio?”
Lui si fermò di colpo. Fu un movimento così inaspettato e fulmineo che la ragazza rischiò di andare a sbattergli contro, ma i suoi riflessi allenati la indussero ad arrestarsi in tempo. Alzò su di lui uno sguardo interrogativo e timoroso, domandandosi la ragione di quel brusco cambiamento, e sui suoi lineamenti trovò un’improvvisa e sentita mescolanza di rimorso e di vergogna. Senza la maschera ad occultargli metà viso, era assai più facile individuare la sua espressione e ricercarne i sentimenti dietro l’orrore delle piaghe. Egli la guardò dritto negli occhi, stringendole la mano con più vigore, e le parlò in un sussurro, come se avesse paura d’essere udito da qualcuno: “Mi sono comportato come un mostro” dal tono, sembrava che se ne fosse reso conto solo in quel momento, e che in passato non ci avesse minimamente fatto caso. Vivian aggrottò la fronte, le dita che quasi dolevano nella stretta convulsa e tenace di Erik, ma tutt’altro che incline a ritirare la mano: “Non capisco”.
“Parlo della Sfinge. Eri stata appena aggredita da quel nobile, eri ferita e terrorizzata. Mi hai chiesto aiuto e protezione, ed io, anziché concederteli subito come si conviene, ti ho sottoposta ad una prova in cui saresti potuta morire”.
Oh. Allora era questo. La battaglia che aveva affrontato e vinto nella Stanza della Sfinge era un evento ormai lontano e pressoché dimenticato, una delle tante prove in cui aveva dovuto cimentarsi nelle ultime settimane. Il rancore e l’odio che aveva provato all’epoca per colui che l’aveva costretta a giocare con la vita e con la morte di se stessa e di parecchi membri della razza umana erano evaporati a fronte degli avvenimenti dei giorni successivi e non gli serbava più alcun risentimento. Alle volte, era necessario saper perdonare: “Non te ne voglio affatto, Erik. Tutti sbagliano”.
“Ma il mio sbaglio sarebbe potuto costarti la vita” un’ombra calò sul volto dell’uomo, le sue labbra si strinsero per il disgusto che provava di se stesso: “Non ci ho mai pensato in questi nove giorni, e ciò non fa che rendermi ulteriormente colpevole”.
“Non dovresti essere così severo con te stesso”.
“Sì, invece. Anzi, dovrei esserlo ancora di più. Ma credevo…di averne il diritto. Adesso capisco di essermi solo guadagnato il tuo rancore” le ardenti iridi azzurro scuro cercarono quelle ambrate della ragazza e la supplicarono in silenzio, straziate e furibonde: “Ma io non voglio il tuo rancore. Non lo voglio!”
Egli aveva compreso l’ignominia del suo comportamento solo perché questo gli aveva, secondo lui, attirato contro l’odio di Vivian. Ma non era mai stato un buon cristiano, e perlomeno appariva sinceramente pentito delle sue azioni. La giovane gli accarezzò il palmo con dolcezza, piegando le labbra piene in un sorriso pacifico: “Credimi, non te ne serbo neanche un po’. Vorrei…vorrei tanto che non ci fossero tutti questi segreti”.
“Davvero non mi odi?” Erik sembrava titubante.
“Davvero” non aveva alcun dubbio in merito.
“E…” ebbe una leggera esitazione. La mano libera si mosse appena verso la parte destra del suo viso: “…il mio aspetto non ti ispira repulsione?”
Vivian conosceva molti modi per dimostrarglielo. In un lampo, si figurò mentre si metteva in punta di piedi e depositava un bacio lieve sulla carne sfigurata del suo ospite, rendendosi conto che non avrebbe provato alcun disgusto nel farlo, ma solo un sincero affetto. Naturalmente però non poteva fare una cosa del genere senza rivelare l’esistenza della Presenza, così s’accontentò di annuire vigorosamente: “Mia madre era molto bella, ma nell’animo era mostruosa e corrotta dai vizi e dai peccati del mondo. Non sarei stupita se venissi a scoprire che aveva ottenuto la sua fama grazie ad un patto col Diavolo. Quando le stavo vicino, mi dava i brividi, mi repelleva il solo pensiero di toccarla. Credevo che mi avrebbe contaminata col suo disprezzo e la sua cattiveria. Ho imparato che non è l’aspetto a fare di una persona un mostro”.
Le labbra di Erik tremarono. Con l’indice, le sfiorò la guancia in una sorta di gesto di gratitudine e le palpebre della ragazza si socchiusero per il piacere, mentre nello stomaco nasceva un rimescolio di desiderio. L’uomo mormorò qualcosa tra sé, una litania triste e melodica che spinse Vivian ad accostarglisi di più per distinguere le parole.
“Masquerade!
Paper faces on parade,
masquerade!
Hide your face so the world will never find you”. 
“La scimmietta!” sussurrò, sbalordita, alzando appena il capo per guardare il viso malinconico di Erik: “La scimmietta nella tua stanza. Suona lo stesso motivo…”
Lui fece un sorriso amaro: “Vorrei non averla mai costruita”.
Una crepa si era allargata nel suo contegno algido e un dolore vivo, autentico, straziante s’imponeva adesso in tutta la sua figura. Le ampie spalle, diritte in qualsiasi situazione, erano incurvate come a sostenere un pesante fardello e le piaghe violacee parevano più profonde, più incisive, divoravano la freschezza della sua pelle liscia e incontaminata e lo avvolgevano in una cappa di oscurità. Le mani di Vivian dolevano per la brama di afferrarlo per le gote, costringerlo a guardarla negli occhi per esclamare, con tono alto e fermo: “Non sprofondare, Erik. Non colare giù. Ci sono io”.  
Invece disse soltanto: “Non dovevi condurmi sulla tua gondola?”
Lui si riscosse prontamente, e fu come se un sipario fosse calato sulla sua fronte. Trasse da un comparto interno della sua giacca una mezza maschera bianca del tutto uguale a quella che aveva perduto nel precipizio e se la sistemò con fare esperto. Vivian avrebbe voluto protestare, chiedergli di non farlo; ma egli l’aveva senz’altro indossata perché aveva intenzione di portarla fuori dai sotterranei e non si sarebbe mai mostrato all’esterno con la deformità perfettamente visibile. Era però infastidita dalla presenza di quella patina perlacea, che le impediva di godere appieno dei suoi rari sorrisi e smorzava la fredda bellezza delle sue iridi. Iniziava quasi a convincersi che fosse più gradevole, più vero senza.
“So che ti sembrerà una richiesta insolita” mentre parlava in questo modo, egli teneva lo sguardo fisso sulla gondola ormeggiata nei loro pressi: “Ma vorrei che tenessi il cappuccio del mantello calato sulla fronte. Fuori è notte, ma non si è mai abbastanza prudenti, e…sarebbe rischioso che qualcuno ti riconoscesse”.
Aveva ragione da vendere. Era scomparsa dalla circolazione ormai da nove giorni e, conoscendo Madame Lefevre, tutta la gendarmerie stava rivoltando Parigi da cima a fondo per trovarla. Le aveva scritto una lettera che Erik aveva in seguito consegnato per non farla preoccupare troppo, ma per paura di lasciarsi sfuggire la verità aveva detto poco niente e aveva ottenuto certo l’effetto di confonderla ancora di più. Tuttavia all’epoca contava ancora di fare un ritorno trionfale a Parigi, munita di informazioni compromettenti sul Fantasma dell’Opera, e si era data un gran daffare nel tentativo di esorcizzare i pettegolezzi su una sua eventuale fuga con un amante. Di norma non prestava attenzione alla sua condotta, ma non avrebbe gradito avere la reputazione rovinata. Era meglio non farsi sorprendere sola su una barca in compagnia di un uomo mascherato.
Abbassò il cappuccio sul viso e le venne da sorridere, pensando a come dovevano apparire all’esterno; senz’altro una coppia alquanto strana. Un uomo alto e abbigliato di nero, metà della faccia coperta da una maschera in una stagione in cui il carnevale era ancora lontano e in cui non c’erano feste che la richiedevano in programma, e una fanciulla avvolta in un lugubre mantello, anch’essa con i lineamenti nascosti sotto il cappuccio. Caronte che traghettava sulle acque la Morte. D’altra parte, una parte di lei gradiva quell’atmosfera di segretezza. Voleva sentirsi come lui, comprenderlo in ogni suo gesto, a cominciare dall’occultare il volto. Si provava la stessa sensazione di quando scruti una via affollata dall’alto di una finestra: lei poteva sbirciare nelle vite degli altri, ma loro non avevano la capacità di identificarla.
La scimmietta diceva il vero. Il mondo non avrebbe mai potuto trovarla, finché si nascondeva dietro una “maschera”.
“Cos’hai?” Erik, chino a sciogliere la corda che assicurava l’imbarcazione alla riva, la guardava con occhi preoccupati. Vivian tornò in sé con un certo imbarazzo. Assorta com’era da quella nuova esperienza, era rimasta ferma immobile per un lasso di tempo maggiore del dovuto, concentrata ad assimilarla in tutte le sue sfumature. Si avvicinò lentamente: “Niente…io…” distolse lo sguardo, posandolo sulle candele: “Volevo sentire…quello che senti tu”.
Lui non rispose. L’improvvisa intensità con cui la fissava le fece scorrere un brivido lungo la spina dorsale. Avrebbe voluto cadere ai suoi piedi, afferrare i bordi della sua giacca nera e scoppiare in lacrime, accettando una volta per tutte di aver perso la sfida, di aver trasformato il suo giochetto astuto in un’arma a doppio taglio. Le si era ritorto contro, il manico le era sfuggito dalle dita, sostituito dalla punta acuminata della lama, e l’aveva colpita dritta al cuore, iniettandole nelle vene la Presenza. Non poteva mentire a se stessa in eterno, non poteva chiudere la porta in faccia alla realtà dei fatti. Se avesse desiderato davvero punirlo per i suoi crimini, l’avrebbe lasciato precipitare nel burrone…sarebbe stata comunque una fine più auspicabile di un’esecuzione pubblica, grondante dell’odio dei parigini, o di un’esistenza trascorsa in una gelida prigione. Invece l’aveva salvato. Gli aveva steso la mano nell’abisso e l’aveva aiutato a risalire, in un gesto assai più simbolico di quello che aveva creduto all’inizio. Non avrebbe mai potuto tradirlo ora che le cose avevano superato il punto di non ritorno.
Egli dovette leggere parte di quel tumulto interiore nel suo viso ombreggiato dal cappuccio, perché la raggiunse, silenzioso, e le disse con dolcezza: “Andiamo?”
Lei annuì. Cos’altro poteva fare? Se si fosse inginocchiata ai suoi piedi chiedendogli perdono, sarebbe stata troppo forte la paura di veder brillare sopra la sua testa una spada di angelo vendicatore, che gliela avrebbe mozzata di netto, castigandola per il suo piano serpentino.
 
Erik remava con la sola forza del braccio sinistro nell’oscurità dei tunnel sotterranei in cui il lago allungava le sue propaggini, sepolto in una fitta cortina di nebbia e sospinto in avanti dall’acqua scura e gelida, che la gondola cavalcava con ritmo oscillante, beccheggiando e spargendo ovunque spruzzi di goccioline. Seduta a pochi metri da lui, imbacuccata nel mantello che le aveva ceduto, Vivian aveva il volto nascosto dal cappuccio, ma non per questo la sua vista acuta non era capace di penetrare la stoffa e intravederne i lineamenti nell’ombra. Aveva paura? Lo scenario che li circondava non era affatto ameno, ma se la prima volta in cui l’aveva invitata sulla sua barca aveva goduto della sua ansia, adesso desiderava con tutto se stesso che si fidasse di lui e che comprendesse che non l’avrebbe mai, mai messa in pericolo. Era suo amico e suo protettore, sua guida e suo ospite, era suo dovere e piacere impedire con ogni risorsa che si angosciasse.
Ma non colse tracce di timore nell’espressione della ragazza. Ella teneva gli occhi castani puntati nella direzione in cui la gondola arrancava e, di tanto in tanto, immergeva la punta delle dita nell’acqua fredda e spietata, scomponendola in decine di anelli sempre più piccoli. Avrebbe dovuto immaginare che non sarebbe rimasta atterrita; era ben più coraggiosa e intraprendente di tante altre fanciulle. Però…qualcosa la tormentava. Minuscole rughe di preoccupazione le segnavano la fronte liscia, le lunghe ciglia corvine, abbassate a gettare un’ombra sulle gote, fremevano sopra le iridi in tumulto. Erik avrebbe voluto domandarle la natura del suo stato d’animo, ma non voleva neanche forzarla a rivelargli qualcosa di sgradito. Negli ultimi giorni, lei era stata fin troppo discreta nei suoi riguardi. Conoscendola, se era sua intenzione confidarsi l’avrebbe fatto da sé, senza sollecitazioni da parte sua.
Era sorprendente quanto cara gli fosse divenuta la sua presenza in quegli ultimi giorni, quanto conforto ricavasse dalla vista della sua gonna frusciante che svolazzava dietro l’angolo e dalla sua forte risata, sempre pronta a risuonare. La notte, sdraiandosi sotto le coperte, la consapevolezza che dietro al muro Vivian riposava sul baldacchino a forma di cigno teneva lontani gli incubi che solitamente tormentavano il suo sonno e al mattino si ritrovava a desiderare ardentemente che lei lo raggiungesse a colazione, riempiendo il silenzio che era gravato per anni sula sua esistenza con il suo chiacchiericcio vivace e ininterrotto. Non ascoltava tutto ciò che diceva, ma gli piaceva molto guardarla parlare e infervorarsi, contemplare le espressioni mutevoli che si susseguivano sul suo viso tondo. La ragazza si indignava per le ingiustizie, piangeva per le morti, rideva di gusto per la stupidità di alcuni pettegolezzi e si aggrondava quando discorreva di argomenti seri. La sua forte emotività si imponeva con prepotenza mentre parlava animatamente ed Erik si godeva in silenzio uno spettacolo tanto unico e raro, liberato, inoltre, dall’onere di dover commentare o intervenire. Vivian era ben disposta a portare avanti la maggior parte del discorso per proprio conto.
Si era talmente abituato ad averla intorno che non riusciva più ad immaginare la vita nella Dimora sul Lago senza di lei.
Il chiarore della notte parigina li accolse mentre emergevano da un’imboccatura che collegava Rue Scribe con la Senna, e avvezzi com’erano alla malsana oscurità dei sotterranei, strizzarono gli occhi al lucore improvviso della luna, piena e immensa come un disco di mercurio, e delle stelle che la circondavano come ancelle solerti. La gondola, sospinta in avanti dalla corrente, si allontanò dalla nera bocca di tenebra da cui era appena uscita e si inoltrò nel centro della città, passando sotto lussureggianti ponti di marmo e facendo sfilare a destra e a sinistra le abitazioni addormentate. Non c’era nessuno in giro a quell’ora tarda, le vie e le piazze erano divenute di possesso delle ombre e le altre imbarcazioni oscillavano dolcemente sulla riva, incatenate all’argine per mezzo di funi e gomene. Gli occhi allenati di Erik colsero il profilo sbiadito delle due torri di Notre Dame e la buia costruzione dell’Opera dietro di loro, rassicurante e opprimente al tempo stesso. C’era sempre qualcosa di magico in Parigi quando era notte fonda, qualcosa di… eterno. Non era mai mutata, a differenza di tante altre città, era rimasta uguale nel tempo e tuttora i ponti, le cattedrali, i palazzi e le botteghe erano gli stessi dei secoli precedenti.
Anche Vivian non era rimasta immune al fascino della città al chiaro di luna. Un’espressione di estatica meraviglia le aveva addolcito i lineamenti all’ombra del cappuccio e la sua fronte piena di rughe di ansia si era spianata, come se la bellezza del paesaggio intorno a loro avesse liberato la sua anima oppressa da tutti i suoi fardelli. Ciocche di capelli scuri spuntavano fuori dalla stoffa e, alla luce della luna, brillavano di decisi riflessi azzurrini. I suoi occhi erano tempestati di pagliuzze verde smeraldo di cui non si era mai accorto, la sua carnagione, olivastra e mediterranea, era divenuta candida come porcellana. La prima volta in cui l’aveva osservata con attenzione, quando giaceva svenuta nella cappella, l’aveva giudicata graziosa ma assolutamente comune, priva della benché minima fonte di attrattiva. In seguito, aveva colto in lei fuggevoli segni di una bellezza nascosta che solo raramente appariva visibile al mondo.
Adesso la trovava…bellissima. In senso profondo e autentico. Era come se una Cenerentola vestita di stracci si fosse trasformata al tocco della bacchetta magica di una benevola fata madrina e fosse diventata una splendida damigella dalle labbra rosse come il sangue e dai capelli color del cielo a mezzanotte. Quando era avvenuto un tale mutamento, e come mai non se ne era accorto prima? Aveva sempre saputo che Christine era molto bella, d’altronde era noto a tutti…quella di Vivian, invece, era stata una metamorfosi del tutto inaspettata. Una metamorfosi inesistente: ella era la stessa ragazza dalla bella bocca e dal naso aquilino che aveva salvato ormai dieci giorni prima. Ma ai suoi occhi, era totalmente diversa.
Ignara della confusione che infuriava nell’animo di Erik, Vivian continuò a contemplare con muta ammirazione i palazzi nobiliari e le abitazioni dei borghesi che si susseguivano lungo il corso che seguiva la traballante gondola. Non fece alcun commento banale sulla bellezza del paesaggio o sulla beatitudine che l’aveva ricolmata quando egli ve l’aveva condotta. Era evidente e non c’era alcun bisogno di dirlo. Invece, parlò con voce fatale ed esitante, una melodia aspra e primordiale che a sua volta era mutata, dagli sgangherati versi di una cornacchia fastidiosa, allo scroscio selvaggio del mare in tempesta: “In tutto questo tempo, ho avuto modo di narrarti le vicissitudini del mio passato in ogni particolare. Ma il tuo mi è quasi sconosciuto. Mi hai detto di essere…” venne colta da un’esitazione e parve soppesare attentamente la frase successiva, lo sguardo perso nel biancore delle torri di Notre Dame investite dall’argenteo chiarore lunare: “…menomato dalla nascita. Ed io pensavo che…forse…uno dei tuoi genitori…”
Erik completò il suo pensiero con una calma stanca che stupì entrambi in pari misura: “Lo fosse a sua volta?”
Vivian arrossì, a disagio. Il color rubino diffusosi sulle sue guance candide di luna la rese ancora più bella agli occhi di Erik. Sicuramente, si disse, era vittima dell’incanto della notte parigina, che spargeva un alone di magia su ogni cosa e la trasfigurava totalmente, rendendola scintillante: “Non è così. A quanto ne so, i miei genitori erano del tutto normali”.
“A quanto ne sai?”
Un profondo sospiro gli sollevò il petto: “Mio padre non l’ho mai conosciuto. Io sono…”
Si interruppe. Disturbato dallo splendore emanato dal corpo di Vivian, appoggiò il remo in verticale dinnanzi a sé e sedette vicino a lei, lasciando la barca libera di girare lentamente in tondo nel bel mezzo della Senna turchese. Si sentiva stranamente appesantito dai propri pensieri, e desiderava liberarsene, condividere con quella creatura che la sorte gli aveva messo vicino il dolore e l’umiliazione dei suoi primi anni. Le parole non sarebbero cadute tra di loro come macigni, fondamenta di una barriera che l’avrebbe allontanata per sempre da lui, anzi, la luna benevola e le stelle lucenti le avrebbero rese leggere e poco impegnative, uccelli ansiosi di librarsi in volo per non tornare mai più. Abbassò gli occhi sulla sua immagine tremolante stampata sul pelo dell’acqua scura e indugiò sull’innegabile avvenenza dei suoi lineamenti sani, sul volume della sua chioma castana e sulle sue iridi color zaffiro. Anche lui, investito dal raggio magico della luna, non sembrava altro che un elegante cavaliere che si godeva una piacevole gita in barca.
“Sono un bastardo” le sue labbra pronunciarono l’odioso appellativo con apatica rassegnazione. Il passato, i torti, i tradimenti, apparivano tanto lontani in quel contesto. Andò avanti senza alcun indugio: “Mia madre era domestica in casa di mio padre e lui si è approfittato di lei”.
Vivian lo fissò, con i suoi occhi che mescolavano ambra e smeraldo: “Un nobile, eh?”
“Esatto”.
“Capisco questa situazione. Mi sarebbe accaduta la stessa cosa, se non ci fossi stato tu”.
Un brivido profondo squassò le sue membra stanche. Il marchesino che aveva tanto intrepidamente respinto dalla cappella era stato davvero sul punto di frantumare quella fanciulla esile e bianca e di distruggerne lo splendore di cui solo in quel momento si rendeva conto. Maledetto, maledetto!
“Quel moccioso non ti importunerà più, Vivian” parlò con tono incalzante e convinto: “Non glielo permetterò!”
Lei scrollò le spalle e sorrise per rassicurarlo: “È passato ormai. Ti prego, continua”.
Erik chiuse gli occhi e si passò una mano sul volto per scacciare i troppi pensieri: “Rimase gravida, e lui la buttò fuori. A volte credo di comprendere il suo odio nei miei confronti. Le avevo portato via mio padre e il mestiere, l’avevo costretta a mendicare il cibo agli angoli delle strade e a sopportare i fastidi di una gravidanza indesiderata. E quando nacqui…”
“Sì?”
“Conosci le superstizioni popolari. Ero il frutto di uno stupro ed avevo il volto deforme. Agli occhi di mia madre rappresentavo il Diavolo reincarnato”.
Non aveva mai raccontato a nessuno quelle memorie che custodiva a fondo dentro di sé e che avevano alimentato il fuoco della vendetta, dell’odio e della diffidenza. Nemmeno a Christine, nemmeno a Madame Giry. Era il suo io più umano, le origini di una persona costretta a farsi fantasma per sopravvivere, e se avesse rivelato ogni cosa, la sua falsa identità sarebbe crollata per sempre. Ma Vivian…Vivian già da tempo aveva scorto l’uomo dietro al mostro, colui che bruciava all’inferno ma ambiva al paradiso.
Il ricordo lo attraversò con la velocità del lampo:
“Stranger than you dream it, you learn to see to find the man behind the monster…”
Christine Daaé non ci era mai riuscita, nonostante l’amore che le aveva posto ai piedi e la cieca devozione che le aveva sempre dimostrato. Questa ragazza, al contrario, aveva tirato fuori l’umanità che c’era in lui senza che alcun obbligo o sentimento la obbligasse a farlo. Ed egli ancora non aveva deciso se di questo le era grato, o se la odiava per aver mandato in fumo i suoi piani.
“Tentò di ucciderti?” al suono della sua voce, una corda fremette nel suo stomaco. No, non avrebbe mai potuto odiarla. Forse un tempo, quando ancora non aveva visto il suo volto pieno di angoscia mentre lo chiamava nel mortale precipizio, ma adesso, senza ombra di dubbio, non le serbava alcuna emozione negativa. Distolse lo sguardo dalla propria immagine riflessa sul fiume e scosse la testa: “No. Strano, vero? È proprio quello che ci si aspetterebbe da lei. Invece mi lasciò in vita. Avrebbe potuto affidarmi alle cure della chiesa perché venissi esposto, ma aveva il terrore che nella casa del Signore la mia origine demoniaca si sarebbe manifestata e che l’avrebbero processata come meretrice di Satana”.  
Il viso di Vivian era intento e concentrato: “Tu questo come lo sai?”
Si produsse in un accenno di sorriso: “Non ho una spiegazione razionale da darti. Ma mi chiamava spesso Figlio del Diavolo e non mi portava mai in chiesa, non mi è difficile indovinare i pensieri di una mente tanto bigotta. Le facevo orrore. Si era rifiutata di allattarmi e se la sfioravo per caso, trasaliva. Quando fui abbastanza grande mi fece dono della mia prima maschera e le giurai che non l’avrei mai tolta davanti a lei”.
Un guizzo di choc agitò i tratti della giovane, un trasporto che gli riscaldò il petto gelato: “Ma è mostruoso! Eri solo un bambino!”
“Tu non conosci la cattiveria umana. Se non avesse avuto paura della dannazione eterna, mi avrebbe affogato. Voleva liberarsi di me senza sporcarsi le mani, e in effetti alla fine ci riuscì”.
“Come?” la parola venne fuori come un dardo sprezzante rivolto contro quella donna sconosciuta e senza cuore incapace di donare il suo affetto al figlio deforme. Erik conservava pochi ricordi che la riguardavano. Un viso magro e scavato dalla fame, abiti laceri e cenciosi, una voce aspra e cattiva, un tenere il capo voltato in sua presenza per non essere costretta a guardare la sua faccia ripugnante. Non avrebbe saputo dire nemmeno di che colore fossero i suoi capelli, o i suoi occhi…non aveva nulla che lo riportasse a lei, alla prima donna che l’aveva rifiutato.
“Ci eravamo stabiliti in una casupola al centro di un piccolo villaggio vicino Reims. La gente ci evitava. Mia madre era trattata come una sgualdrina ed io non mostravo il volto a nessuno, alimentando sospetti e timori. All’epoca avevo…non più di sei o sette anni. Lei cominciò ad amoreggiare con il signorotto del luogo, un uomo con il doppio dei suoi anni che passava sempre davanti alle nostre finestre sul suo corsiero baio. Mirava a portarla a vivere nel suo palazzo, ma io costituivo un ostacolo: lo spaventavo e non mi voleva intorno. Così mia madre escogitò un piano”.
La voce del Fantasma dell’Opera si incupì visibilmente, diventando fredda e tagliente: “In quello stesso periodo al villaggio era arrivato un circo gestito da zingari, e mi promise che ci saremmo andati. Ero fuori di me dall’emozione. Quei colori, quelle risate, quelle figure grottesche e sorridenti, tutto era nuovo per me. Lei mi lasciò davanti alla gabbia del leone, esortandomi ad ammirarlo, e si allontanò con il capo degli zingari. Non sospettai nulla, neanche quando lo vidi passarle un sacchetto di monete. Tornarono con il sorriso sulle labbra. Lui aveva una scimmietta appollaiata sulla spalla. Mi affascinò molto. Ma la sua faccia era scura e maligna e mi inquietava. Mi mise un braccio intorno alle spalle, con un po’ più forza del necessario, e mi condusse lontano dagli altri spettatori. Mia madre ci seguiva a breve distanza, silenziosa.
“Mi furono addosso non appena fummo fuori vista. Uno mi afferrò da dietro, tappandomi la bocca e smorzando il mio grido, gli altri accorsero con funi e legacci. La maschera mi fu strappata. Lottai. Ero cieco di terrore come un cervo nelle grinfie dei levrieri. Strappavo ciocche di capelli, graffiavo, mordevo e invocavo mia madre affinché mi soccorresse. Ma lei era immobile, calma, e mi guardava con freddezza calcolatrice. Completamente insensibile alle mie urla disperate. Solo la scimmia strillava più forte di me…”
“Basta!” Vivian scagliò quell’esclamazione con veemenza e strazio, balzando in piedi sulla gondola e rischiando di cadere in acqua. Orrore, pietà e qualcosa di molto più forte le avevano trasfigurato il viso in una smorfia tormentata, e gli premette una mano sulla bocca con istintiva foga, per interrompere il terribile racconto. Le sue dita erano morbide e calde contro le labbra gelide di Erik, e sollecitarono nella sua carne offesa centinaia di piccoli brividi senza senso. Erano così vicini, così vicini…tanto vicini che riusciva a cogliere il suo profumo, un profumo selvaggio, autentico, ricco come la sua personalità. Giungeva a ondate fino alle sue narici, trasportato da una brezza notturna che scompigliava i capelli bruni di Vivian.
Lei gli staccò lentamente la mano dalla bocca, senza tuttavia scostarsi da lui. Le campane di Notre Dame squassarono Parigi con rintocchi argentini, annunciando la mezzanotte, e il suo sussurro filtrò nell’aria non appena ebbero cessato di suonare: “Basta, ti prego”.
“È un tradimento, Vivian” rispose lui in un bisbiglio: “Il primo, l’ennesimo, della mia vita”.  
Lacrime perlacee e trattenute si gonfiarono negli occhi fissi nei suoi: “Io non ti tradirò mai”.
Erik rabbrividì. Perché una parte di lui stava aspettando quelle esatte parole, le aveva bramate, le aveva desiderate, se le era lasciate scivolare nelle vene come un liquido, e voleva credere al loro significato con tutti i residui della sua anima lacerata: “Non fare promesse che non puoi mantenere”.
“Ma io voglio mantenerla!” quello della ragazza fu quasi un grido. Gli afferrò d’impulso entrambe le mani, stringendole con energica sollecitudine, i piccoli palmi che quasi sparivano in quelli grandi dell’uomo, e ripeté con solenne sicurezza: “Io voglio mantenerla!”
Per un attimo le mani di Erik accolsero quelle di Vivian, divennero un rifugio premuroso e attento che le avrebbe difese dalle insidie del mondo ed egli venne percorso da un fremito impalpabile che s’irradiò dal cuore alle ossa, pulsandogli perfino nella spalla fratturata. Qualcosa si gonfiava dentro di lui, qualcosa di insopprimibile e incontrollabile che aveva scambiato al principio per avversione, una corrente caldissima che nasceva e si alimentava nelle iridi di Vivian e che lo faceva impazzire di insoddisfazione e di brama negata.
No!
Le lasciò andare le mani di scatto, come se scottassero. L’elettricità, evolutasi fino a divenire un’ondata ustionante, si dissolse in un crepitio morente ed Erik volse le spalle alla sua fonte, al rame che aveva attirato il fulmine, negando a se stesso e a quella notte di aver perso il controllo e di aver voluto per qualche secondo fondersi con quel calore e farlo suo. Non c’era niente di vero in quella scena, in quel discorso, in quegli sfioramenti casuali…era tutto una conseguenza dell’atmosfera notturna, della magia di Parigi e della Senna illuminata dai raggi lunari, capace di avvincere chiunque nelle sue spire e trasportarlo in allucinazioni eterne. Feromoni, incanti delle tenebre…nient’altro che questo.
Afferrò il remo, conficcandovi dentro le unghie per ancorarsi a qualcosa di solido e reale e ritrovare il controllo nella nebbia dell’incantesimo, e gli uscì una voce roca e strana, deformata da un tremito evidente: “Dovremmo andare”.
Lei batté le palpebre. La sua confusione era per lui ovvia, ella non aveva familiarità con la tenebra e i suoi mille tranelli, non conosceva il potere della Musica della Notte che si manifestava nei momenti più impensati e sfuggiva al controllo di chiunque…aveva cercato di impadronirsene per sedurre Christine, ma la forza gli era sfuggita e aveva agito per vie nascoste e imperscrutabili. Per fortuna di entrambi, aveva spezzato il suo effetto prima che raggiungesse il punto di non ritorno.
“L’aria è diventata gelida” sussurrò, gli occhi ostinatamente decisi ad evitare il contatto con quelli di una mortificata Vivian, la mano sinistra che spingeva il remo tra i flutti per fuggire dalla situazione ingannevole.
Ma qualcuno aveva visto e udito ogni cosa, aveva assistito agli sguardi fugaci, alle mani che si cercavano, ai visi rivolti alla pallida luna. Questo qualcuno, nascosto nelle ombre di un vicolo, aveva colto in fallo la protezione della maschera e del cappuccio e aveva riconosciuto i due gitanti, seguendoli con occhi algidi e azzurri mentre tornavano indietro verso Rue Scribe.
Un raggio di luna penetrò solitario nella cappa di buio e illuminò i capelli dorati, l’orecchio mozzato del marchesino Antoine Baptiste Rappenau.

 
  
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