What were you wanting / What was that you wanted
I
just wanna say
Don't ever change now baby
I'd thank you
I don't think
we will meet again
And you must leave now
Before the sun rises
Over the
skyscrapers
And the city landscape comes into view
Sweat on my
skin
Oh
This mess we're in
Era così strano ritrovarsi lì, a New York. Non sapeva
esattamente perché era tornato. Non l’aveva fatto per un motivo in particolare,
né con un obiettivo preciso. Voleva soltanto fare due passi, senza impegni,
senza commissioni, andare a trovare qualche vecchio amico senza preavviso,
respirare di nuovo l’aria dei luoghi dove aveva vissuto quasi ininterrottamente
per diciotto anni. Da tempo ormai apparteneva con tutta l’anima a Philadelphia,
viveva serenamente la sua nuova vita senza lambiccarsi inutilmente il cervello
su ogni sensazione di rimpianto, di nostalgia, di straniamento. Ma voleva
tornare. Solo per un giorno, per concedersi poco tempo da spartire ancora con
quei luoghi. Ora camminava per un quartiere di periferia, la mente svuotata da
ogni pensiero, perso solo in una semplice e serena contemplazione visiva. Poteva
essere considerata una banale pausa dai suoi intensi ritmi di vita,
dopotutto.
Si avvicinò a una zona di palazzine basse dall’aria sciupata, con
stretti cortili laterali e vecchie scale antincendio. Sentì gridare qualcuno
nell’aria greve del pomeriggio inoltrato. Era la voce di una donna, a metà fra
la disperazione e l’isteria, intervallata da un aspro tono maschile.
Probabilmente una giovane coppia in crisi, come se ne vedevano tante da quelle
parti.
A un certo punto, voltandosi, vide che una giovane donna correva giù
per la scala antincendio, dopo essersi sbattuta alle spalle la porta di casa. Si
fermò, attratto dall’istinto di soffermarsi sui particolari di quel mondo che
aveva abbandonato da molti anni. La donna era davvero giovane, correva con
disperazione mista ad un leggerissimo impaccio, snella, la pelle bianca
semicoperta da un vestito estivo slavato, i capelli mossi disordinati, le
cadevano a ciocche dall’acconciatura alla buona, non le vedeva il viso, aveva le
mani davanti a coprirselo. Dopo diversi gradini si fermò. Si attaccò con una
mano alla ringhiera. Poi si sedette, scoppiò a piangere silenziosamente, non si
sentiva un solo singhiozzo, ma si capiva che piangeva. Le spalle venivano scosse
ogni tanto da un tremito. Non staccava le mani dal viso. Pareva che quasi si
vergognasse a piangere. Probabilmente era una di quelle giovani donne che
vogliono dimostrare al mondo di essere forti, di poter sempre superare una forte
emozione o una delusione cocente, di non essere deboli. E per questo trattengono
sempre le lacrime.
Chissà perché le lacrime venivano considerate un tale
segno di debolezza. Rifletté sul fatto che ormai non era più considerato
dignitoso piangere davanti a qualcuno. Riconobbe che effettivamente era vero: in
tanti anni, lui era stato sul punto di piangere soltanto una volta. Non l’aveva
fatto, ma ci era andato più vicino di qualsiasi altra situazione drammatica in
cui si era trovato. Aveva appena riattaccato la cornetta di una cabina
telefonica in California.
Ok, ora forse era giunto il momento di levarsi dai
piedi. Era a poca distanza dalla donna, li separava solo un attraversamento di
strada in linea d’aria, e se lei avesse alzato la testa e l’avesse sorpreso lì a
fissarla come un idiota sarebbe stato abbastanza imbarazzante. Fece per
riprendere a camminare, quando per un attimo la donna staccò le mani dal viso e
si asciugò le lacrime dal volto. Il taglio degli occhi cristallini imperlati di
lacrime, la curva del naso e la bocca sottile gli sembrarono oltremodo
familiari.
Era mai possibile?
Si disse che era stupido andare a
controllare. Sarebbe risultato decisamente sfacciato e irriverente. Ma il
tramonto imminente cominciava a colorare il cielo di una tonalità rossastra,
l’atmosfera greve del pomeriggio inoltrato stava per sfumare in quella più
composta e silenziosa della sera. I tramonti di New York. Erano già passate due
ore da quando aveva cominciato quell’incessante passeggiata. Forse poteva
concedersi un momento di riposo.
In fondo, non aveva mai sprecato molto tempo
nel riflettere su quello che era meglio fare o non fare. Se una cosa gli passava
per la testa, lui agiva e basta. Spesso era tutto molto più semplice. Qualche
volta finiva per cacciarsi nei guai. Ma l’istinto gli diceva che doveva
togliersi il dubbio.
Attraversò la strada, tornando un po’ più indietro, in
modo da non dare l’impressione che stesse direttamente venendo verso di lei con
intenzioni ben precise. Si avvicinò camminando lentamente sotto i lampioni
spenti, poi si fermò davanti alla scala antincendio. Lei era seduta su uno degli
ultimi gradini.
“Pensi che ne valga la pena di stare qui a piangere per un
idiota?” disse, di getto. Lei trasalì. Non l’aveva sentito arrivare. Alzò la
testa e gli gettò un’occhiata di sfuggita.
Sembrava proprio lei.
Si
affrettò ad asciugarsi le lacrime dagli occhi e dalle guance, e riabbassò subito
lo sguardo.
“Che cosa vuoi?” Jess si strinse nelle spalle.
“Niente di
particolare. Passavo di qui.”
“Beh, nessuno ti ha chiesto di
fermarti.”
“Ehi, non ho intenzione di compatirti.”
“Vuoi rimorchiare una
donna sola che ha appena litigato con il fidanzato?” Rise leggermente. La voce
nervosa, il tono imbronciato e scontroso. Sembrava davvero lei, e forse l’aveva
sempre saputo che lo era.
“Di solito non rimorchio donne fidanzate, e nemmeno
in lacrime.”
“Non te ne sai approfittare, allora.”
“E se non mi
andasse?”
“Saresti uno stupido. Tutti gli uomini ne approfittano, sempre. E
poi sono le donne a rimanerci fregate.” Jess si appoggiò alla ringhiera con il
gomito, chinandosi leggermente verso di lei.
“Allora, cosa ci fai
qui?”
“In che senso?”
“Qui, in una vecchia casa di periferia dove non
avrei mai immaginato di vederti confinata.”
“Neanche mi conosci.” Sorrise tra
sé. Poteva non essere così.
“Non mi sembri adatta a un posto come
questo.”
“Beh, ci sono finita. Gli appartamenti a New York costano.”
“Sì,
ne so qualcosa.”
“E anche se siamo in due guadagniamo appena a sufficienza
per pagare questo buco.”
“Ne deduco che non hai raggiunto la brillante
carriera che volevi.”
“Senti, uomo della strada, perché ti dai l’aria di aver
capito tutto di me?”
Jess sorrise, osservando immobile il cielo che si
appesantiva delle tonalità rossastre del tramonto. L’ombra dei palazzi si
allungava, la luce cambiava continuamente, illuminando la giovane donna in un
modo diverso.
Si scostò una ciocca di capelli dal viso. Un gesto che gli era
così familiare in lei.
“Perché mi ricordi qualcuno” disse, semplicemente. Non
sapeva se aveva voglia di farsi riconoscere o no. Lei gli gettava di tanto in
tanto delle occhiate schive, in tralice, niente di più. Era troppo impegnata a
cercare di cancellare i segni del pianto.
“Chiunque sia non avrà di certo
fatto la fine che ho fatto io.”
“E che fine avresti fatto?”
Lei sospirò,
scossa da un singhiozzo represso. Poi si chinò a fissare il
terreno.
“Esattamente niente di più di quello che vedi. Sono sepolta in uno
squallido appartamento di provincia insieme a un uomo che continua a urlarmi
contro perché non porto a casa abbastanza soldi e passo le serate a bere in un
locale scrivendo a un tavolino, e nonostante abbia mollato tutto per stare con
lui tutto va decisamente peggio di quanto avessi mai immaginato, e io sono
ridotta a lavorare in una biblioteca per metà giornata e per l’altra metà a fare
la cameriera in un orribile bar dei bassifondi.”
La osservò, e percepì
chiaramente il moto di tenerezza che lo invase mentre la ascoltava. La sua Rory,
ridotta così, in quello stato. La sua Rory che voleva diventare una giornalista
internazionale. Provò l’impulso di abbracciarla, ma si limitò a sedersi di
fianco a lei su quel gradino della scala antincendio.
“E la laurea?”
“Oh,
ce l’ho, quella stramaledetta laurea. Ma non mi hanno assunto per nessun posto
importante. E dopo un po’ tutti hanno finito per licenziarmi a causa dei
ritardi. Tutte le mattine dovevo attraversare mezza città nel traffico per
raggiungere quegli stramaledetti uffici, e quelli mi licenziavano per i
ritardi…”
Jess sorrise amaramente. Era terribile sentirla lamentarsi.
Risentire il suo tono polemico, di rabbia repressa, rivedere i suoi occhi
spegnersi in quell'espressione di inutile sfogo, era davvero come tornare
indietro nel tempo, come risentirla di nuovo accanto a sé, vivendola in ogni
momento, in ogni singolo istante di gioia o di malumore. Per un po' era stato
così tra loro. Non era durata moltissimo, non come era riuscita a durare lei con
il suo primo ragazzo, ma per lui era stato davvero incredibile aver passato così
tanto tempo con una ragazza sola. Non si era mai fatto troppi problemi a passare
dall'una all'altra, a stancarsene continuamente e a scaricarle senza sensi di
colpa. Non sapeva nemmeno cosa significasse avere una relazione seria e
duratura. Se qualcuno, all'età di diciassette anni, gli avesse detto che entro
poco tempo sarebbe stato spedito a vivere da suo zio, in un paesino sperduto nel
Connecticut, dove ogni giorno organizzavano una festa diversa, e sarebbe stato
folgorato da una dolce e semplice ragazza del posto, gli avrebbe probabilmente
riso in faccia.
“Riuscirai a tirare avanti, se vuoi.” le disse.
“In che
senso, se voglio?” Lui si strinse nelle spalle, alla ricerca di un
esempio.
“E' più o meno come dire che il tuo uomo ti fa soffrire. Se hai
delle ragioni in più per superarlo, andrai avanti. Altrimenti, arriverà il
giorno in cui ti stancherai di lui e del modo in cui ti tratta, farai le valigie
e te ne andrai da questo posto.”
“Una filosofia interessante.” disse lei
annuendo. Lui le gettò un'occhiata scettica.
“E' una cosa che succede spesso,
sai?”
“Davvero?”
“A meno che tu non abbia manie di
persecuzione.”
“Logico.”
“O che ti piaccia essere trattata male.”
“Non
mi diverto.”
“Lo speravo.”
“Già.”
Rimasero in silenzio per qualche
secondo, poi lei sollevò finalmente lo sguardo, fissandolo in pieno volto. Jess
si voltò. Si fissarono entrambi, lei con aria incuriosita, lui assumendo sempre
di più un'espressione inquisitoria.
“Abiti qui?” chiese lei.
“Una volta.
Ora non più.” rispose lui, gettandosi un’occhiata intorno.
“E perché sei
tornato?”
“Perché avevo voglia di rivivere lo squallore delle periferie per
un unico glorioso pomeriggio.” Lei rise. Mio dio, rideva davvero. Una breve,
sincera, liberatoria risata. Si rese conto che faceva male rivederla così, e
capì che non potevano esserci più dubbi ormai. Era lei. Era lei davvero. E stava
lì, seduta di fianco a lui, senza dare segno di averlo
riconosciuto.
“Spiegami, perché te ne stai qui a parlare con una persona che
neanche conosci?" chiese lei, d'improvviso. Lui si strinse nelle spalle.
“Se
preferisci possiamo sederci su una panchina e fissarci le scarpe.” Quasi sorrise
ricordando quando le aveva detto quella frase per la prima volta. Si distese
leggermente sui gradini, allungando le gambe e osservando il cielo che ormai
iniziava ad imbrunire per scendere poi nelle profondità della sera...
“Che
cos'hai detto?"
Si girò di scatto, colto di sorpresa.
“Come?” Lei lo
fissava, le guance pallide e rigate, lo sguardo leggermente vacuo, lo sconcerto
che si faceva chiaramente strada dentro di lei.
“Che cos'hai detto...
prima?”
“Prima quando?” Sembrava divertirsi inconsciamente a tirare la
corda.
“Prima...quella storia della panchina e delle...” Si bloccò, e Jess
avvertì il suo sguardo attonito su di lui. Si sollevò leggermente sui gomiti. La
tensione era quasi palpabile nell'aria.
“Non posso crederci.”
“Al fatto
che ti abbia proposto di andare a sederci su una panchina per fissarci le
scarpe?” Lei lo ignorò, passandosi le mani fra i capelli.
“Come diavolo è
possibile...” mormorò tra sé. Jess ebbe un involontario tuffo al cuore,
l'istante prima che lei si decidesse a smascherarlo.
“Tu.”
“Chi,
io?”
“Jess.”
“Cosa?”
“Smettila.” Sorrise. Era così inaspettato sentirle
di nuovo pronunciare il suo nome in quel tono. Il tono che aveva quando lo
riprendeva per qualche cosa. Il tono quasi arrabbiato con cui cercava di
imporgli di stare zitto.
“Io... non avevo idea che... che ci potessimo
rivedere così...”
“Già, nemmeno io.” le disse, tranquillamente.
“Chissà
cosa penserai ora di me.” rispose lei, con un sorriso amaro. Jess la osservò
passarsi le mani tra i capelli e abbassare lo sguardo sul gradino sottostante,
con quel misto di imbarazzo e di contrizione che gli faceva improvvisamente
venire voglia di abbracciarla. Abbracciarla come quando stavano insieme, con un
desiderio paragonabile a quello che aveva provato quando ancora non se lo poteva
permettere.
Decise di trattenersi. Sollevò lo sguardo, facendolo scorrere
sulle cime delle palazzine slavate, per cercare di intravedere il sole ormai già
sceso oltre l'orizzonte.
“Penso soltanto che non hai avuto molta fortuna.” le
disse, tenendo lo sguardo fisso sul cielo. Un tenue sorriso gli fece incurvare
le labbra.
“Jess...” Si voltò verso di lei, guardandola con
dolcezza.
“Sì?”
“Credi che io abbia sbagliato tutto?” Lui sospirò.
“No.
Ci hai provato, ma sapevi che poteva andare male. A me è successo tante di
quelle volte.”
“Forse io non ci ho ancora fatto l'abitudine.”
“Sicuramente
se hai sbagliato qualcosa l'hai già capito da sola.” Lei annuì, in
silenzio.
“Non ce la faccio più, Jess." disse poi, e gli si avvicinò. In un
attimo di improvvisa indecisione, Jess non seppe come reagire. Poi scelse di
mandare al diavolo tutto quanto. Che importava se rivedeva Rory per la prima
volta dopo anni, che importava se l'aveva incontrata per caso, se lei non
l'aveva riconosciuto subito, se stava con un altro, se loro due non erano più
insieme da un periodo interminabile, se un sacco di cose non erano state
chiarite fra di loro ma lasciate in sospeso in un tempo che non era mai riuscito
a colmare quel divario, se in quel momento erano come due perfetti estranei. Lei
aveva bisogno di lui. Le cinse le spalle con un braccio e la attirò a
sé.
“Questo non è quello che volevo dalla vita.”
“Sono cose che
succedono.”
“Ho perso un sacco di tempo qui.”
“Nessuno ti ha mai predetto
che saresti riuscita subito a realizzare i tuoi obiettivi, Rory.”
“E che cosa
dovrei fare adesso?”
Rimase in silenzio, cercando di capire dove tutto questo
fosse destinato a condurli. Si sentiva il mormorio di una televisione provenire
da uno degli appartamenti. Il clangore di un tappo di birra. A che cosa li
avrebbe portati l'essersi incontrati lì per caso?
“A meno che tu non ti sia
completamente arrugginita in questo posto... beh, non è mai troppo tardi per
riprovarci, lo sai.”
“A sentirtelo dire sembra tutto così facile.”
“Non è
facile per niente, Rory. Credi che sia stato facile per me lasciare tutti i miei
amici di New York per venire a seppellirmi a Stars Hollow? O credi sia stato più
facile lasciarti senza uno straccio di spiegazione per tentare di ricostruire un
rapporto con mio padre da cui poi non ho ottenuto niente?”
Ascoltò il suo
silenzio, e si chiese perché non era mai capace di tenere la bocca chiusa. Se
c'era una cosa che non avrebbe assolutamente voluto fare, era ritirare fuori
vecchi rimpianti mai sanati e problemi mai risolti. Era inutile, dopo tutto il
tempo che era passato. Avrebbe contribuito soltanto a fargli rivivere qualcosa
che non desiderava riesumare.
“Mi dispiace.” disse lei, chinando la
testa.
“No, senti, lascia perdere. Davvero.”
“Hai paura che i fantasmi del
passato tornino a tormentarti?” gli chiese lei, in tono scherzoso. Lo guardava
negli occhi, adesso. Con quell’espressione serena e leggermente furba che aveva
sempre quando si aspettava che lui le desse un bacio. Quella momentanea
considerazione lo bloccò in un istante senza fine, e rallentò terribilmente i
suoi riflessi quando lei gli si avvicinò pericolosamente, quasi di scatto, come
se non volesse dargli il tempo di tirarsi indietro. Le sue labbra scivolarono su
quelle di Rory senza che lui potesse frenare quel riflesso così impulsivo, era
stata lei a cominciare ed era ancora in tempo a tirarsi indietro, ma fu più
forte di lui. Era tutto sbagliato, e lo sapeva, erano sbagliate le loro labbra
unite da quel bacio, erano sbagliate le mani di Rory fra i suoi capelli e le sue
che andavano a cingerla intorno alle spalle per attirarla ancora di più a sé e
sentirla di nuovo vicina come non era più successo da troppo tempo. Fu
impossibile porsi un freno. Tutta la nostalgia, i sentimenti repressi, tutto
l’impeto tenuto a freno, tutto esplose in un bacio che non aveva ragione di
esserci. Non aveva alcun senso. Loro due, dopo tutti quegli anni, dopo essersi
rivisti solamente per caso, con il bisogno di aggrapparsi l’uno all’altra per
ragioni che nemmeno si erano raccontati a fondo…
Quando lei si tirò indietro
ansimando leggermente, non riuscì a fare o dire niente di sensato. Rimasero per
qualche istante a contatto, la fronte di lei poggiata sulla sua, gli sguardi
bassi nel tentativo di recuperare il respiro e la ragione, le mani che si
scioglievano da quell’abbraccio così avido e disperato che poco prima li aveva
visti uniti.
“Che cosa… scusami, io… non so proprio…” Jess si decise ad
alzare lo sguardo, e la vide lì, di fronte a lui, ancora vicinissima, con gli
occhi che brillavano sotto le ciglia, le guance arrossate, i capelli scossi
dalla leggera brezza serale che aveva cominciato a sollevarsi. Tra poco il buio
li avrebbe avvolti nelle ombre cupe della notte. La guardò per un istante, e si
accorse di non avere rimpianti.
“Ne parliamo dopo, ok?” Rory gli restituì
un’occhiata leggermente confusa. Fece per dire qualcosa ma poi si
fermò.
“Ok.” Solo questo. Era solo questo che voleva. Starsene lì ancora per
un po’ senza dire niente, tentando di non pensarci, sentendo solamente che la
stava abbracciando, e che per qualche momento lei era ancora la sua
Rory.