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Autore: Melian_Belt    25/02/2012    3 recensioni
Nella Roma del 410 d.C., uno schiavo viene acquistato da una potente famiglia romana e si trova a vivere in un mondo diverso da quello al quale era abituato. Ma l'elemento più disturbante si rivelerà il nuovo padrone, destinato a dare una svolta inaspettata a quello che credeva il suo destino già segnato.
Slash, tanto per cambiare U_U
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sono giorni strani quelli che seguono. Mi sembra di essere appena nato, che mi sia stato dato del tempo per abituarmi ai colori e agli odori della vita prima di uscire dalla porta di questa stanza. Tutto sembra così diverso ora, migliore, non tutto da buttare. I ricordi del passato tornano durante le notti silenziose, ma le giornate con la loro luce danno sufficiente forza per affrontarle. Il padrone viene a trovarmi, spesso si siede a leggere alcuni dei papiri accatastati sull’armadio nella parete di fondo. Non so da dove mi sia uscito, ma una volta gli chiesi di leggere ad alta voce. Rimase incuriosito all’inizio, eppure lo fece lo stesso. Un padrone che legge allo schiavo, che cosa assurda direbbe chiunque. Ma il modo di fare del padrone, così tranquillo e disteso, mi fa dimenticare quello che siamo, anche se solo per brevi istanti. Mi piace la voce modulata che usa mentre legge, non è monocorde, sembra una specie di musica. Ha un suo ritmo, accarezzato dalla sua voce un po’ roca che mi ricorda le foglie secche che scivolano sul terreno.
In uno strano momento, mi ha chiesto se volevo imparare. Io non ho saputo cosa rispondere. Quei segni neri mi si confondevano nella vista, quasi come se si muovessero. Poi, mi si è seduto vicino, a fianco a me sul letto. Le nostre spalle si toccavano, ma lui non ci dava peso, ignaro del calore che mi aveva assalito il viso e del groppo fermo in gola. Piano piano indicava i segni e gli dava voce, le ore passavano senza che nemmeno mi accorgessi del sole che terminava la sua traiettoria.
“Non…hai degli impegni di cui occuparti. Insomma…”. Alza la testa verso di me, dal punto in cui sta leggendo, seduto su uno sgabello. Mi schiarisco la voce: “Avrai qualcosa di meglio da fare, che stare qui con me”. Chiude il papiro e stira leggermente la schiena, sospirando: “Come cosa?”. Scrollo le spalle: “Non saprei. Amministrare i beni, darsi alla politica…cose da uomini potenti, insomma”. Sorrido, ma lui non riesce molto bene a farlo, oggi. Rimaniamo in silenzio, il padrone assorto in pensieri che dalle ombre sul suo viso non sono le solite elucubrazioni celesti. “Padrone?”. Non si gira verso di me, ma fa un cenno con il capo a indicare che sta ascoltando. “C’è qualcosa che non va?”. Rimane pensieroso per qualche altro secondo, prima di alzarsi. A passi lenti si accosta alla finestra, spostando la tenda con la punta delle dita per guardare fuori.
Piega le labbra, sospira per l’ennesima volta oggi. “Varie cose” risponde infine. Si gira a guardarmi, lo sguardo intenso reso torbido da preoccupazioni che non riesco a decifrare. Apre la bocca per dire qualcosa, ma cambia idea. Solo dopo un po’ se ne esce fuori con: “Oggi arriva mio cugino”.
Assorbo le sue parole, prima di esibire un sorriso scettico: “Non sarà una cosa del genere a preoccuparti”. Scuote le spalle: “Non mi piace mio cugino”. Non faccio domande, anche se so che mi sta nascondendo qualcosa. Probabilmente non ha davvero una passione per questo parente, ma c’ qualcos’altro. Qualcosa di molto più grave, il padrone è un uomo troppo intelligente per incupirsi così per una simile sciocchezza.
Mi studio le mani, lieto nel constatare che ormai sono quasi guarite. Lieto, ma anche un po’ amareggiato. Questo vuol dire che dovrò tornare nella stanza con gli altri schiavi, niente più scuse ormai.
“Rimarrai qui per un’altra settimana”. Spalanco gli occhi, pensando per un attimo che mi abbia letto nel pensiero. Ma il padrone è intento a guardare fuori dalla finestra, come se io non ci fossi. “Devo andare”. Si allontana di un paio di passi prima che io gli chieda: “Quanto starà tuo cugino?”.
“Una settimana”. E se ne va. Bene, non ci vuole un genio per capire che non voglia farmi vedere questo fantomatico essere. E se il padrone non vuole, allora sono sicuro che non deve succedere.
E così rimango qui, isolato in una stanza profumata. Non che la cosa mi dispiaccia, ma il padrone non torna per l’intera giornata. Al mattino dopo, passa a salutare ma va subito via, senza che io sia in grado di chiedergli niente. Un altro schiavo mi porta da mangiare e per fortuna è il vecchio schiavo di fiducia, che con me finora è stato molto gentile. Non sento nessuno sguardo accusatore da parte sua, come invece mi sarei aspettato. Uno schiavo che viene accudito nelle stanze del padrone, sarebbe ovvio pensare che il suo ruolo lì sia uno solo. E invece mi sorride, mi chiede come vanno le ferite e poi se ne va, impegnato ad aiutare il padrone ad amministrare la casa.
Le ore passano con una lentezza esasperante, cerco di leggere quegli strani simboli disegnati sui rotoli ma di colpo sembra molto più difficile. Nemmeno in quelle ore passate nelle fornaci il tempo era trascorso così lentamente. “Oh adesso basta!”. L’ultima cosa che voglio al mondo è disubbidire al padrone, ma la noia mi sta uccidendo. Sono abituato a lavorare, ad essere sfruttato persino. La noia era una bestia che non avevo mai affrontato prima e non credevo che potesse essere così devastante. Mi sento stanco nonostante abbia passato giorni interi a dormire, tutto il corpo si muove a rilento, senza seguire i miei comandi.
I colori dell’alba tingono gli stucchi della casa, i mosaici che compongono i pavimenti. Fuori, sull’ingresso del cortile, si sente il vociare dei clientes del padrone, pronti a prestargli omaggio e a chiedere favori, protezione. Mi fermo davanti ad un vassoio lucido, dimentico di come fosse il mio aspetto, non che mi fosse mai interessato. Gli occhi chiari, lunghi e affusolati, spiccano sulla pelle bianca, resa tale ancora più del solito dai giorni passati al chiuso. I riccioli neri scendono ormai liberamente giù per la fronte, decisamente dovrei decidermi a tagliarli. Silenzioso, cammino per i corridoi.
A quest’ora la casa è stranamente piacevole, tutti sono ancora intorpiditi e rilassati dal sonno, cullati dai raggi tiepidi del primo sole. Sono uno schiavo in questo posto, come sono stato per tutta la vita, ma di colpo mi sembra una realtà quasi più vivibile. È un pensiero non del tutto malvagio, ma lo sento dentro di me che è pericoloso. Non devo sperare, finirebbe per uccidermi. Sperare in cosa, poi? Nemmeno io riesco a dirlo. Sono in mani tutto tranne che mie, il mio destino non esiste, non esiste il caso, non esiste la scelta. Esiste, ma quella degli altri.
Mi strofino un braccio indolenzito, mentre entro nella grande palestra delle terme di famiglia. La grande piscina, il cui fondo è ornato di mosaici di bestie marine, è silenziosa. Le immagini di Poseidone, di delfini mostruosi e cavalli marini si frastagliano al muoversi dell’acqua, rendendo difficile distinguerne i dettagli.
Solo due schiavi sono al lavoro, intenti a pulire i bordi della vasca. Poi le noto, due braccia che al ritmo spezzano la fresca superficie. Assottiglio lo sguardo, cercando di distinguere la figura. Con cautela, cammino a lato della piscina, accostandomi piano, pronto ad allontanarmi in caso si riveli un pericolo. Non so in che genere di pericolo io possa incorrere, ma potrebbe succedere.
Le braccia sono sode, i muscoli si flettono nelle bracciate regolari. Un uomo, di sicuro, anche perché in genere le donne non usano questa piscina. Lo vedo arrivare alla fine della vasca ed aggrapparsi al bordo, la testa castana rilassata tra le braccia. In quel momento, si gira: “Antares?”. Mi paralizzo, incerto sul se tentare la fuga o rimanere al mio posto. Comprendo l’idiozia della prima opzione e rimango fermo.
Il padrone si stacca dalla parete di fondo e con lenti movimenti si avvicina. Si tira un po’ su, incrociando le braccia sul bordo laterale. “Cosa ci fai qui?”.
Chino il capo, conscio di essere stato miseramente beccato nella mia disubbidienza. “Mi stavo annoiando, chiedo scusa”. Lo sento sospirare: “Va bene, capisco. Le mani?”. Le sollevo, senza però distogliere lo sguardo da terra. “Stanno bene. Il medico mi ha fatto togliere le bende”.
Attimi di silenzio: “Sai nuotare?”. Senza nemmeno accorgermene, arriccio il naso: “No, non mi piace”. Lo sento ridere: “Sembri davvero un gatto”.
“Hai provato a buttarne uno in piscina?”.
“No” risponde, il sorriso nella voce. Solo ora mi azzardo ad alzare la testa. Il padrone tiene il mento poggiato sulle braccia, i capelli tenuti indietro, a liberargli il viso. Gli occhi sembrano più chiari del solito, illuminati dalla luce riflessa sull’acqua che gli entra nelle iridi. La pelle bronzea è lucida per l’acqua che la ricopre come una patina, le gocce scendono giù per i muscoli delle spalle e delle braccia.
Sotto le tuniche ampie che indossa e il temperamento calmo, riflessivo, ha un fisico di muscoli sinuosi e flessibili, morbidi nella loro definizione. Lascio scorrere lo sguardo su ogni singolo dettaglio, lui di nuovo perso in preoccupazioni oscure.
  
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