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Autore: PattyOnTheRollercoaster    26/02/2012    2 recensioni
Tess alzò lo sguardo e deglutì, mordicchiandosi un labbro, le mani giunte in grembo. «Devo dirti una cosa.»
«Sei sposata.»
«No.»
«Sei malata.»
«No.»
«Sei un uomo!»
«No!»
[...]Tess abbassò la voce e sussurrò: «Ho una figlia».
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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VIII
Capitolo VIII
New York! New York!





   Girellavo fra gli scaffali e guardavo dolci di ogni tipo, indecisa su cosa prendere che fosse gustoso e allo stesso tempo pratico. Infine optai per dei biscotti e li aggiunsi alla pila di calorie che già trasportavo nel carrello. C’erano il pane, il prosciutto e le pizzette, una bottiglia da un litro di aranciata e dei biscotti secchi al cioccolato. A ripensarci mi viene la nausea. Pagai con i soldi che mi aveva dato Ben e tornai in hotel. Alla reception c’era il solito ragazzo gentile che salutava tutti quando entravano. Mi avvicinai e gli chiesi di far portare su alla camera dei coltelli per il pane, alcuni bicchieri di plastica, tovaglioli di carta e magari una borsa.
   Ben non c’era: l’avevano invitato all’improvviso ad una trasmissione televisiva nel mattino e ci era andato senza farsi troppi problemi, lasciandomi da sola ad organizzare il nostro pic nic a Central Park. Gli avevo chiesto se almeno sarebbe stata una diretta e lui mi aveva detto in che canale fosse. Una volta in camera, assieme a tutto quello che mi ero fatta portare, accesi la tv e misi il canale dove doveva esserci Ben. Ancora non era lì, e la conduttrice parlava con un tizio che a quanto pare aveva una grandissima collezione di farfalle rare… vive. Iniziai a preparare i panini e la borsa con tutte le cose che ci aveva dato l’hotel. Un hotel a cinque stelle non mi avrebbe mai deluso, lo sapevo.
   Se ripensavo a cos’era successo l’altro giorno mi venivano i brividi lungo la schiena, mi sentivo particolarmente idiota e sarei voluta tornare indietro nel tempo se fosse stato possibile. Non potevo credere di aver detto quelle cose! Sì, erano tutte assolutamente vere, ma non avrei dovuto dirle comunque. All’inizio lo detestavo, è vero, lo detestavo come tutti gli altri ragazzi di Tess. Ma con loro non avevo mai avuto questo problema che era sorto con Ben perché non erano stati assieme a mamma abbastanza da conoscerli meglio, e anche perché per loro era sempre stato come se non fossi mai esistita. Semplicemente mi rivolgevano un saluto cortese, ricambiato da un grugnito di odio, ma poi tiravano avanti e mi ignoravano. Cominciavo a pensare che mamma non avrebbe trovato un uomo che mi avrebbe per lo meno parlato, e poi era arrivato quel deficiente di Benjamin! Deficiente in senso affettivo, ovvio.
   Dopo il mio tradizionale scontro a muso duro, giusto per vedere come reagiva, mi ero stupita nel vederlo rodersi così tanto per la faccenda. Nessuno dei precedenti ragazzi si era mai dato la pena di chiedermi perché lo detestassi, o anche solo di parlare con me al di fuori delle conversazioni-tipo che la buona educazione dettava. Lui invece voleva sapere, insisteva, sembrava davvero dispiaciuto della cosa e… a forza di parlare e di tentare di andare d’accordo alla fine non lo trovavo più tanto antipatico. Ero arrivata ad un livello nel quale non solo riuscivo a sopportare Ben, ma addirittura cominciavo a trovarlo piacevole. Quando passammo un po’ più tempo assieme per quegli stupidi compiti mi ero addirittura arrabbiata con me stessa perché non vedevo l’ora di farli assieme a lui! Certo, non che fosse così divertente, ma il solo fatto che lui fosse lì, che mi spiegasse le cose quando non le capivo, che mi venisse a prendere e mi riaccompagnasse a casa, era piacevole. Mi ero arrabbiata perché non volevo essere così felice di vederlo, perché notavo che a lui non faceva alcuna differenza se io ero lì o se non lo ero. Piano piano, senza nemmeno rendermene conto all’inizio, cominciai a fargli domande strategiche, delle quali nemmeno io volevo sapere la risposta, né tantomeno sapevo quale sarebbe stata quella che mi sarebbe più piaciuta. Lui continuava a dire la cosa sbagliata, non riuscivo a capire se gli piacesse stare con me, o se lo facesse solo per fare un piacere a Tess. Quando li vedevo assieme i suoi occhi brillavano, sorrideva sempre e pareva che tutto il suo mondo fosse perfetto. Quando era con lei nemmeno le mie battute taglienti dopo un po’ avevano effetto. Come non immaginare che lui sopportasse me solo per stare con lei? Mi sentivo come una delle piaghe d’Egitto.
   Intendiamoci: Benjamin può anche essere considerato da alcune un uomo bellissimo -compresa quell’orba di mia madre- ma non volevo le sue attenzioni in quel senso, neanche minimamente! A me, ad essere sinceri, sembrava un vero scherzo della natura, qualcosa a metà fra un maiale e un tucano, con quel naso enorme che gli occupava tutta la faccia e quel mento diviso in due che sembrava un sedere. Be’, sarà anche stato un mento-sedere, ma era simpatico, e tanto mi bastava perché cominciassi a desiderare di essergli simpatica anch’io. Poi mi venne in mente una cosa strana: se Ben stava con Tess, e Tess era mia madre, lui diventava il mio patrigno. Patrigno è una così brutta parola, e l’unica altra parola che poteva essere usata è padre. Mi ritrovai a pensare che, se Ben fosse stato mio padre, sarebbe stata di sicuro la cosa migliore che mi sarebbe mai potuta capitare. Era simpatico, amava mamma, riusciva anche a far valere su di me un po’ della sua autorità, proprio come dovrebbe fare un padre vero, ma era simpatico e si comportava come un amico. Però, irrimediabilmente, mi venne un dubbio: se lui non volesse affatto una figlia come me? D’altronde, chi mai vorrebbe per figlia una che non ha fatto altro che insultarti da quando ti conosce?
   Lui mi aveva detto che era felice di avermi incontrata, assieme a Tess, ma aveva anche precisato una cosa: se non fosse stato per me, Tess sarebbe stata una persona diversa. Insomma alla fine, mettiamola come ci pare, tornava sempre a Tess. Dovevo solo rassegnarmi all’idea che Ben sarebbe rimasto un buon amico, uno adatto con cui andare a mangiare fuori, guardare un film e… magari anche fare un pic nic.
   Per questo motivo mi sentivo stupida ad aver detto ciò che avevo detto: ancora una volta era così chiaro che lui avrebbe preferito che io non ci fossi. Quella che aveva detto era stata una stupida scusa, in un arrampicarsi sugli specchi favoloso, non c’è che dire.
  «E adesso, reduce dal successo di Killing Bono e in procinto di lanciare un nuovo film… Ben Barnes!» La presentatrice lo annunciò alle telecamere, sorridente, e cominciò ad applaudire assieme agli ospiti. Inquadrarono un paio di ragazzine con uno striscione per Ben. Se io avessi dovuto fargli uno striscione ci sarebbe stato disegnato sopra un dito medio. Anche quello in segno di affetto.
   «Allora Ben, sappiamo che hai recitato in una nuova pellicola, che ci racconti?», domandò la conduttrice.
  Ben prese a parlare, seduto su quel divanetto bianco con nonchalance, come se lo facesse tutti i giorni. Io me lo vedevo seduto in tuta alla cucina di casa mia, e tutta quella nonchalance non ce l’aveva da sudato reduce dal jogging. «Ho finito le riprese giusto l’altro ieri. Il film si chiama Beyond Marshall è una specie di film d’azione, ma è molto particolare perché intreccia le vite private di tutti i personaggi come se fosse, in effetti, un romanzo o simili.»
   «Il regista è l’esordiente Noburo Kora, com’è stato lavorare con lui?»
  «Ah, Noburo è magnifico, sono rimasto stupito di come lavora sul set. Tenta di curare ogni minimo dettaglio di persona, sia nella scenografia, nei costumi…»
   Se devo essere sincera smisi di ascoltare con attenzione, perché non ero particolarmente interessata a cosa diceva più che a come si comportava. Il divario fra com’è veramente e il suo atteggiamento in tv era grandissimo. Un po’ speravo che facesse anche una minuscola brutta figura, o magari una delle sue facce strane, quelle smorfie stupide che gli uscivano ogni tanto, solo per poi poterlo prendere in giro. Quando l’intervista finì io avevo tutto pronto nella mia borsa e mi affrettai ad uscire per incontrarci a Central park come avevamo deciso.
   Non mi ci volle molto per arrivare, avevamo scelto di incontrarci all’entrata fra la 97esima e la 5th Avenue, dato che era la più vicina all’hotel e la più facile da raggiungere per me (quel pigrone di Ben aveva la macchina della tv che lo avrebbe scorato dove voleva lui). Dopo meno di dieci minuti vidi Ben scendere da una bella macchina nera tirata a lucido e attraversare la strada. «Ho visto la trasmissione», esordii.
  «Commenti maligni?», domandò con un sorriso stampato in volto. Era come se dalla conversazione dell’altro giorno le mie frecciatine non lo disturbassero più, il che era terribile.
   «Nessuno a dir la verità, credo solo che il tizio che collezionava farfalle fosse davvero fico.»
   «Ah sì?», domandò tendendo una mano e prendendo la borsa al posto mio.
   Annuii. «Non sapevo che collezionassi poster di film», aggiunsi poi in riferimento ad una domanda che gli avevano fatto.
   «Oh sì! Da quando avevo qualcosa come… diciannove anni? Una roba del genere.»
   «L’ultimo che hai comprato?»
   Ci pensò su un attimo stringendo gli occhi e guardando altrove come faceva di solito. «Ahm… “Man in Black”.»
   Lo guardai con gli occhi di fuori. «Uno o due?»
   «Uno. Il due non l’ho mai nemmeno visto. Di solito le parti due dei film fanno schifo.»
  «Hai assolutamente ragione, ma quello dovresti vederlo giusto perché c’è il carlino che canta una versione diversa di “I will survive”.»
   Iniziammo a camminare lungo una stradina molto bella affiancata da qualche albero. Attorno a noi c’era un prato immenso di cui non si vedeva la fine. Tanta gente stava seduta sull’erba, a passeggiare, a correre, qualcuno suonava una chitarra acustica in lontananza e secondo il mio modesto parere era anche bravo.
   «Dove vorresti andare a fare questo pic nic?», domandò Ben dopo un po’ che camminavamo in silenzio.
   Sorrisi e mi volsi verso di lui. «In riva al lago», dissi prontamente. «Non è lontano da qui. Vicino c’è anche il Guggenheim.»
   Ben tirò fuori l’orologio e guardò l’ora. «Non è neanche mezzogiorno, hai fame?»
   «Veramente non tanto», ammisi.
   «Senti… prima di mangiare ti andrebbe di fare un giro in barca?» Ben abbozzò un sorriso e io quasi mi strozzai con la saliva.
   «Si può fare?», domandai ad occhi sgranati.
   «Ma certo che si può fare, basta noleggiare una barca.» Ben si guardò attorno. «Adesso… basta solo trovare dove. Ma non ci sono cartelli delle indicazioni?»
  Lo guardai con un sopracciglio sollevato. «Dovrebbero? Per il momento siamo su una strada dritta, e diceva che andavamo in direzione del lago.»
   «Gnà gnà gnà», mi scimmiottò Ben continuando a camminare. Lo guardai per un secondo indispettita ma poi vidi che si era girato per ridermi in faccia, così sorrisi anch’io e lo raggiunsi.
   Arrivati vicino al lago vidi, in lontananza, qualcosa che poteva essere un ristorante da quanto era grande, e lo era probabilmente, ma dallo stesso edificio si noleggiava la barca e c’era il molo sul retro. Guardai verso il lago: era uno spettacolo pazzesco. Era grandissimo e pulito, immagino che fosse tenuto sotto stretto controllo per impedire che nessuno vi gettasse dentro niente. Comunque non avevo intenzione di farlo. Poco distante da noi c’erano diverse barche attraccate alla riva, due signori che pescavano poco più in là e altre barche nel lago che viaggiavano pigramente.
   Io e Ben entrammo e ci avvicinammo ad una cassa con scritto sopra ‘noleggio barche’. La ragazza si stava comodamente limando le unghie mentre osservava un registro di fronte a sé. «Buongiorno», disse Ben con il suo sorriso più smagliante.
   La ragazza nascose la lima per le unghie e sorrise. «Buongiorno a voi. Volete noleggiare una barca?»
   «Sì, siamo in due.»
  «Preferite remare voi o volete qualcuno che lo faccia al posto vostro?» La ragazza sorrideva di continuo e mi chiesi come mai facesse ad essere così cordiale.
   «Facciamo da noi, grazie.»
   La ragazza strappò un biglietto e vi scrisse sopra l’ora e il numero della barca; lo porse a Ben dicendo: «Sono dodici dollari la prima ora, e tre dollari per ogni quarto d’ora in più. Quanto pensate di metterci?»
   Ben mi osservò chiedendo un parere. «Cominciamo con un’ora, poi si vedrà», proposi.
   «D’accordo. Dodici allora.»
   Ben pagò e io presi il biglietto entusiasta, sventolandolo come se fosse un premio. Mi fiondai verso l’uscita che dava ad un portico e poi ad una sorta di molo che stava a circa un metro dall’acqua. Di fronte vi trovai un ragazzo abbronzato e muscoloso, indossava una maglietta senza maniche e dei pantaloni al ginocchio. Gongolai verso di lui e gli tesi il biglietto, mentre Ben veniva verso di noi. «Barca numero sedici. Prego venite.» Ci accompagnò fino alla barca giusta e ci aiutò a salire. «Mi raccomando non perdete il biglietto, eh.» Sorrise bonario e diede una spinta alla barca con il piede.
   Ben teneva i remi con sicurezza, erano legati alla barca tramite corde spesse e anche se li lasciava non sarebbero affondati. Io mi guardavo attorno e non potevo fare a meno di sorridere fino a staccarmi le guance. Notai che anche Ben mi guardava e sorrideva di rimando. «Come mai così allegro?» Lui si strinse nelle spalle e continuò a remare.
   Passammo sotto diversi ponti, tutti pieni di viavai e molto belli a vederli. Ad un tratto intimai a Ben: «Passami un remo».
   «A te», disse porgendomene uno.
   «Possiamo fare quella cosa di girare in tondo? Io remo da un lato e tu dall’opposto?»
   Ben rise e scosse la testa. «Per favore, vorrei evitare di farmi notare come il coglione del lago.»
   «Ma saremmo in due! Due coglioni!», insistetti.
   «Ma si suppone che quello intelligente sia io.»
   Incrociai le braccia infastidita. «Perché, ho la faccia da scema?»
  «No, solo perché sono il più grande. E poi, sì», disse come ammettendo qualcosa, «hai proprio dei capelli da scema, quella pettinatura…» Lo colpii con un debole calcetto mentre lui rideva sguaiatamente.
   Dopo qualche minuto non riuscivamo più a scorgere il molo dal quel eravamo partiti perché avevamo oltrepassato diversi alberi e ponti e curve del lago. Non c’era nessuno attorno a noi e Benjamin propose di fermarci. Al centro esatto nell’acqua calma sembrava di essere in qualche posto lontano, non mi pareva neanche si stare in una delle metropoli più grandi del mondo, era come se i grattacieli fosse scomparsi. Ben allungò le gambe al mio fianco e si appoggiò con i gomiti alla barca, abbandonando la testa all’indietro e guardando il cielo con un mezzo sorriso. Alzai gli occhi anch’io, ma alla fine optai per levare scarpe e calze e immergere i piedi nell’acqua distesa di traverso sulla nostra piccola imbarcazione.
   «Se dovessi salvare tre cose da casa tua da un incendio», cominciai con una delle mie tipiche domande idiote, «cosa sceglieresti?»
   «Non lo so, inizia tu.»
   «Hm… il mio pc, il porta cd e Hugo.»
   «In ordine d’importanza?»
   «Hugo, pc, cd.»
   «Alla fine i cd?»
  «Li ho nel computer comunque, nel caso andassero persi», annuii convinta. «Comunque li ho scelti perché gli originali sono sempre molto più belli.»
   Ben si tirò su e iniziò a slacciarsi le scarpe. «Io prendersi di peso Tess, Hugo e anche te immagino.»
   «In ordine d’importanza?»
   «Ovviamente prima Hugo, che scherziamo?» Mi feci sfuggire un sorriso e guardai altrove.
   Restituimmo la barca solo dopo un’ora e mezza, e poi continuammo a camminare senza méta. Il sole era alto, la gente passeggiava come noi e sentivo che era una giornata niente male. Ad un tratto arrivammo davanti ad una folla di gente e vidi un bellissimo carosello, grande, pieno di colori che si muoveva lentamente con una dolce musica di fondo. Evidentemente la mia faccia dovette parlare per me perché Ben domandò: «Vuoi salire?».
   «Sì ti prego.»
  La fila durò quasi mezz’ora ma alla fine riuscii a guadagnarmi un cavallo nell’ultima fila, era bianco con la criniera gialla, ed era talmente alto che feci fatica a salirci. Mi voltai a destra e a sinistra per vedere dove fosse finito Ben e lo scorsi a qualche cavallo da me, mi fece un cenno di saluto con la mano e io ricambiai entusiasta. In quell’istante ricordai com’era stato il giorno prima in quel maledetto hotel, quella maledetta dichiarazione d’affetto! Ancora sentivo la vergogna inondarmi tutto il corpo se ci ripensavo. Poi si chiedevano perché ci fosse certa gente che non parlava delle proprie emozioni: per forza, è meglio così piuttosto che far venire fuori situazioni spinose! A meno che non si trattasse di Nandika, ovvio.
   Il carosello partì e se ogni volta che il cavallo scendeva mi sembrava di cadere, ne valeva la pena lo stesso perché guardare il mondo muoversi con quella musica nelle orecchie e il rumore della gente e il movimento che faceva confondere gli occhi, era davvero una bella sensazione. Una volta scesi Ben confessò: «Menomale che l’abbiamo fatto prima di mangiare».
  Trovammo uno spazio di prato vuoto, all’ombra degli alberi, e ci sedemmo per pranzare, allungando sull’erba la nostra tovaglia gialla. Tirai fuori tutte le meraviglie culinarie che avevo comprato nel supermarket a basso costo ed erano tutte buonissime. Credo che mangiai tanto solo perché non avevo mai fatto un pic nic in vita mia, e dovevo godermelo, cacchio!
   «L’altro giorno pensavo una cosa», cominciai con la bocca piena.
   «Cosa?» Anche Ben parlava con la bocca piena a volte.
   «Come si chiama quello che mette la musica nei film? Io vorrei un sacco fare quello!»
   Ben corrugò le sopracciglia. «Come fai a dirlo?»
   «Mi sembri non-convinto. Non dovresti incoraggiarmi?»
   «Tecnico del suono tipo? Cioè… non si occupa solo di musica.»
   Mi agitai sulla panchina. «Non importa, ho solo quindici anni! Ne ho di tempo per cambiare idea. Forse finirò a fare la segretaria, o magari la sarta o la cuoca in un ristorante.»
   «Non ti faceva così cinica.»
   «Cinica è il mio secondo nome.»
   «E’ una cosa orribile da dire! E poi tu non sei cinica.»
  «Lo so, infatti non lo sono. Ma ho sempre sognato dire: ‘x è il mio secondo nome’; e questo momento sembrava buono.» Ben rimase un attimo serio, poi scoppiò in un risolino fin troppo da donna secondo il mio parere. «Che cosa c’è?»
   «Sei molto brava a parlare di nulla.»
   «Grazie», replicai. Diedi un morso al panino e proseguii: «Hai un animale preferito?».
   Ben fece una smorfia e ci pensò. «No, non credo. Cioè, non sono uno da animali, non ho mai avuto nemmeno un pesce in casa. E non l’ho mai voluto un animale.»
   Lo guardai con occhi fintamente tristi. «Dev’essere stata un’infanzia terribile la tua.»
   Lui s’indignò con un: «Perché?!».
  «Tutti i bambini vogliono degli animali, tu sei l’unico secondo me a non aver voluto un cane, un gatto, o un pappagallo da compagnia. Io ho Hugo, lui è bellissimo e ha il collo rugoso.»
   «Che schifo!»
   «Non parlare così di lui.»
   «Comunque sia, non ho un animale preferito. Oh, hai sentito Nandika in questi giorni?», domandò ancora una volta con quel suo interesse malriposto.
   «Un paio di volte.»
   «Come sta? Non è triste di non poter essere venuta?»
   Mi strinsi nelle spalle. «Non sembra particolarmente triste, il che è strano», aggiunsi poi pensandoci meglio.
   «Magari è solo impegnata con il matrimonio. Non fanno un sacco di cerimonie?»
   «Sì infatti, ma ormai il matrimonio è bello che finito… Glielo chiederò poi quando torniamo.»
   Ben parve sulle spine quando aggiunse a voce bassa: «E... hai sentito Malachi?».
   Titubai leggermente ma poi mi decisi per un atteggiamento di totale indifferenza: «No è in punizione, è tagliato fuori dal mondo, me lo detto un mio amico in un messaggio. Ha detto che i suoi lo hanno confinato in casa e non ha niente da fare». Forse intimamente Ben era d’accordo con i genitori di Malachi, perché assunse un’aria soddisfatta.
   «Mel cosa ne pensi di lui?»
   «Stai tentando di psicanalizzarmi? Cos’è, tuo padre ti ha convinto a darti alla psicologia?»
  Benjamin mi guardò con rimprovero. «No», si strinse nelle spalle e fece una smorfia, «sono solo curioso. Insomma, non è il prototipo di bravo ragazzo, immagino che le persone si preoccupino per questo genere di cose con i propri… con i ragazzi della tua età.» Terminò in fretta la frase e parve pensoso.
   Io ci pensai su e risposi con sincerità. «Io voglio bene a Malachi, non voglio che sia triste. E se stare assieme a me lo rende un po’ più felice, perché no? Cosa c’è di male?»
  Ben sbuffò. «Mel ma non te ne rendi conto?», disse chinandosi in avanti e agitando il panino che avevo preparato con tanto amore. «E’ colpa sua se ti sei ubriacata l’altra notte.»
   «Hey», lo ammonii, «fino a prova contraria non mi ha messo un imbuto in gola!»
   «Sì ma se lui non ci fosse stato tu non lo avresti fatto. Non avresti bevuto se fossi stata con Nandy, perché ti saresti sentita bene con lei anche così, anche senza bere come un spugna!»
   «Stai dicendo che bere è sbagliato? Tu lo fai!»
   «No, non dico che è sbagliato, è vero tutti lo fanno. O quasi… Comunque, voglio dire che è stato da stupidi bere fino a stare male qui, quando l’unica responsabile per te -e per Malachi, che non capiva nemmeno dove fosse- eri tu stessa.» Inghiottii saliva a vuoto a quel discorso; si stava facendo più ‘paternale’ e serio del previsto. «Hai presente l’amico sobrio, quello che deve guidare per tornare a casa? Ecco, dovevi essere tu.»
   «Perché io? Perché non Malachi?»
  «Perché se conosci Malachi sapevi che non lo avrebbe mai fatto! E tu… se lui non ci fosse stato non avresti bevuto.» Fece una pausa. «In qualsiasi altro caso puoi bere quanto vuoi, fino a vomitare l’anima», proseguì dopo qualche secondo, «tanto prima o poi la smetterai di divertiti in quel modo, ci passano in tanti e poi ci si stufa. L’unica cosa che volevo dirti è che… niente, sarebbe bello che tu decidessi di bere per te stessa, cioè: ti è andata male una giornata e hai voglia di fare un po’ di stronzate inutili, o vuoi divertiti con le tue amiche e fare un gioco idiota nel quale si beve, o magari, che ne so, ti piace il sapore del vino. Ma farlo per qualcun altro… voglio dire: perché? Che senso ha? Pensi che quella persona crederà che tu sia più adulta perché bevi birra? O pensi che ti considererà più figa?», scosse la testa. «Se proprio hai voglia di non capire più da che parte sei girata, fallo perché sei tu che ne hai voglia. E quando non devi guidare.»
  Tenevo lo sguardo basso, colpevole. Aveva ragione, se non ci fosse stato Malachi non mi sarebbe mai nemmeno passato per la testa anche solo di comprare una red bull. Non volevo dirlo a lui però, non volevo dirgli che aveva ragione, era come ammettere di non avere spina dorsale. Bevvi altra acqua per tenermi la bocca occupata e con la mia faccia corrucciata guardai più in là.
   «Ehi… sei arrabbiata?»
   «No», mormorai.
  Ben iniziò esitante il discorso, e dovevo capirlo fin da subito che quello che sarebbe arrivato sarebbe stato anche peggio. «Mel senti… Malachi era fatto la notte scorsa, no?»
   «Io non lo ero», lo anticipai mettendo le mani davanti a me come a ripararmi.
   «E lo sai mai stata? Voglio dire… con cose… pesanti.»
   Lo guardai con curiosità sincera. «Ma tu mi credi quando parlo? …e comunque no.»
   «D’accordo.» Ben si alzò e cominciò a mettere tutta la spazzatura che avevamo fatto in una busta di plastica, poi gettò la busta in un cestino. Quello che avanzava lo mise nella borsa che ci aveva dato l’hotel. Quando fu di ritorno disse: «Ma guarda che io ti credo quando parli».
   Alzai gli occhi al cielo e mi misi la borsa a tracolla. «Grazie dell’onore concessomi.»
  Andammo al Guggenheim a piedi e prima di entrare scattai parecchie foto con la digitale: era un edificio molto bello, moderno e dinamico. «Vuoi fare una foto anche a me?», domandò Ben mettendosi in una posa stupida.
   «Neanche morta. La macchina si romperebbe.»
   «Allora ne facciamo una assieme.»
   Sorrisi involontariamente. «D’accordo.»
Una signora gentile ci fece due foto davanti al museo e poi se ne andò, solo diversi giorni dopo scoprimmo che una delle foto era mossa e l’altra sorta. Una volta entrati ci diedero una chiave per gli armadietti per mettere via le borse e le macchine fotografiche, che non potevano essere portate, così misi il cellulare e il portafogli in tasca e rinchiudemmo tutto in uno di quegli stretti depositi. Quando toccava a noi mi appoggiai comodamente al bancone.
   «Due prego, per la mostra al padiglione uno», disse Ben preparando alcune banconote.
   La cassiera mi diede una veloce occhiata e domandò velocemente: «Quanti ha sua figlia signore?».
   Io e Benjamin rimanemmo di sale. Io perché non volevo essere vista come sua figlia, per qualche stupido principio impiantato nel cervello, lui probabilmente perché non voleva sembrare così vecchio da essere considerato papà. Ma d'altronde oggi si possono avere figli a sedici anni come a cinquanta, è qualcosa di discutibile forse. Fatto sta che volli difendere i miei geni da una possibile parentela:
   «Io non…», cominciai, per venire presto interrotta.
   «Quattordici. Paga ridotto?»
  «Gratis fino a diciotto anni.» La cassiera prese velocemente i soldi che Ben le porgeva e restituì resto e biglietti. «Se volete una guida elettronica potrete ritirarla al bancone qui affianco, buona giornata.» Per la prima volta si aprì in un sorriso e io e Ben ci dileguammo in fretta, senza dire una parola.
   Ci avviammo al grosso ascensore che ci avrebbe portati fino in cima all’edifico per poi scivolare dolcemente verso il basso in quella grossa rampa a spirale dove c’erano i quadri e le statue. Quando uscimmo e la gente si fu dileguata ritrovai la parola.
   «Vuoi che ti chiami papà?»
  Ben mi guardò qualche secondo come se stessi dicendo sul serio, poi parve ricredersi ricordandosi che, in fondo, era con me che stava parlando. «Se lo fai io ti chiamo ‘mia amata progenie’. Tranquilla comunque, ti farò vergognare in ogni singolo momento della tua vita. Perché è questo che fanno i genitori.»
   «Oh grazie.»
   Ben sorrise e mi diede una pacca sulle spalle. Iniziammo il nostro giro nel museo.




















Volevo scrivere "Buona Domenica" in francese, perché mi veniva così, ma alla fine ho rinunciato perché non sapevo come si scriveva e non avevo voglia di cercarlo su internet... Buona Domenica.
Comunque, spero che questo capitolo vi sia piaciuto. A me è piaciuto scrivere di Ben e Mel che visitano New York! Ho anche cercato un sacco di cose su New York, e noleggiare una barca per il laghetto di CP costa davvero quel che ho detto (o almeno era così l'ultima volta che ho controllato).
Il discorsone filosofico sull'alcol è una mia invenzione e parte della mia idea sull'argomento. Meglio non starci a discutere però altrimenti scrivo più nel commento che nel capitolo xD
Be', fra un po' questa fanfiction sarà terminata, e anche se i lettori sono stati pochi (capisco che questo sezione sia abbandonata non avendo noi fan notizie dell'uomo dai fluenti capelli) sono contenta lo stesso di averla pubblicata =)
A settimana prossima!
Patrizia

P.S. Alcune notizie multimediali:
Per chi volesse vedere lo sbellicoso video del carlino di Man in Black che canta cliccate qui. Io lo adoro! Ogni tanto mi ricordo che esiste e me lo guardo xD
Il titolo del capitolo è tratto dalla canzone di Frank Sinatra, ma io preferisco la versione di Liza Minelli. Se vi va di ascoltarla eccola.
   
 
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