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Autore: Dadasopher    27/02/2012    2 recensioni
«...lottammo a denti stretti entrambi, lei contro il pavimento e io contro la perdizione, due “p” , principio comune per futuri fallimenti...».
Disclaimer: i personaggi di questa storia non mi appartengono e tutto quello che scrivo è frutto della mia mente.
Genere: Comico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Reita, Ruki
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Vecchi parrucconi in potenza.


« Viviamo in un mondo regolato da precisi ingranaggi, assemblati complessamente tra di sé affinché possano controllare un intero sistema evitando difformità, stranezze di qualsiasi genere e natura. Io non sono un ingranaggio né tanto meno vivo sotto il giogo di un razionale macchinario; allora che qualcuno mi spieghi perché si pretenda che reagisca meccanicamente anche ai sentimenti, perfino quando è in ballo l'amor puro. Io non ho fili elettrici capaci di alimentarmi finché arriva la corrente, tanto meno vanto di bulloni disseminati nel corpo né reagisco agli stimoli con un linguaggio predefinito. Sono fatto di ossa, legamenti, pelle e sentimenti. Non posso essere riaggiustato con le pinze, tenaglie o pappagallo, le mie ferite si cicatrizzano solo dopo aver versato sangue. E non sono nemmeno da rottamare quando il mio hardware si fonde, tutt'altro. Se il cervello mi si crasha non esiste nessun tecnico che possa ripararmi, sarebbe come dire che un chirurgo riassembli parti meccaniche delle persone. »



Certe persone proprio non possono essere salvate.
Si impara a nostre spese.
Papà e Ryo erano due esempi lampanti di questo insieme disgiunto dal resto del mondo.
Chissà se vuoti o no, almeno loro speriamo che siano coincidenti tra di loro.
Molto molto complessi.
Almeno ora riesco a spiegarmi perché tutti e due hanno scelto percorsi matematici, i numeri complessi devono stare da sé, in un universo parallelo con le loro coordinate, benché contengano tutti gli altri. Questi numeri non esistono, sono immaginari.
Specialmente nella vita di tutti giorni essi sembrano dissolversi tra i loro calcoli astrusi e lasciare tutto il resto sotto chili di polvere. Questo volevo provare a spiegarlo a mia madre, con semplici parole, perché ero sicuro che mi avrebbe capito, in fondo non eravamo nella stessa situazione sentimentale? Abbandonati, usati, lacerati senza nessun motivo apparente. E io mi riconoscevo nella follia albergante dei suoi occhi, come lei poteva rispecchiarsi in quella che i miei emanavano in risposta alla sua. Per la prima volta sentivo di doverle riconoscere almeno qualcosa, l'umanità del dolore. La rassicurai prima che cadesse nuovamente nel sonno più assoluto, quello che la strappava da settimane dal ritmo folle della vita. Stringendola tra le braccia mi sentivo pure io nelle fila dei traditori, sapevo che col mio atteggiamento solipsistico l'avevo ignorata da sempre, offuscato dall'odio represso e considerandola inferiore in tutto, senza mai averla ascoltata realmente.
Io questa donna l'amavo e fu quell'attimo evanescente a farmelo capire, quando colsi l'odore delicato di una madre venirmi a cercare mentre la stringevo.
-Mamma svegliati che dobbiamo andare...- in realtà non saprei dirvi se mi sono mai rivolto a lei così, ma stavolta c'era tutto il sentimento d'amore che le avevo negato fin da quando aveva varcato la porta di casa.

Ricordo benissimo che quando mi fu presentata come “madre” io la rinnegai, non la volevo nella mia casa, nella mia intimità quella sconosciuta, non l'avrei mai potuta accettare. Io volevo solo la mia mamma, la donna che mi aveva portato in grembo tanto amorevolmente per sette mesi.

Lei non pareva neanche rendersi conto di dove fossimo non appena le mie parole la toccarono dolcemente. Aiutai a farla alzare, ma la sua debolezza fece sì che il suo peso gravasse su di me.
Fui uomo, l'uomo che aveva sempre sognato in quei momenti e che ahimè non era mai stato capace di esserci. La lasciai in ottime mani, sicuro che i medici si sarebbero presi cura di lei mentre io ero via a rimettere apposto la nostra vita.

Stringendo il volante della mia piccola utilitaria non mi ero mai sentito tanto motivato nel fare qualcosa, solitamente ero ucciso nei miei intenti vitalistici dal dolore o dalla quotidianità del circostante. In qualche modo era come se un tubo invisibile mi risucchiasse tutto l'entusiasmo per vivere, per riuscire a essere felice provocandomi la sensazione sgradevole di stare in un posto schifoso. Scattai al verde fluorescente e giù per la via che mi avrebbe condotto verso l'inizio della fine.
Era uno splendido mattino di un tanto anonimo giorno di febbraio, fatto di luci soavi e lampadine spente della cittadina, ricordando che c'era da risparmiare in quel periodo di crisi nazionale. Evidentemente però a casa di quel simpatico signore si trasgrediva alla grande quello sforzo unanime per avere energie da sfruttare in un futuro venturo. Non ci fu nemmeno bisogno che l'attesa durasse a lungo perché mi venne subito incontro il diretto interessato al primo toc sulla porta.
-Buon giorno, cosa posso fare per lei?- in un formale giapponese col solito sorrisetto di circostanza a ricordarti che sei totalmente un estraneo e tale rimarrai
-Potresti comportarti da persona seria, papà- controribattei invelenito in uno slang periferico.
-Takanori...-parvero mancargli le frasi di effetto sfoggiate poco prima.
-Fammi entrare, dobbiamo parlare- feci segno di farmi spazio. Di sicuro non mi sarei comportato così in altre situazioni, ma lui se lo meritava eccome.
Fui accontentato, almeno si sarebbe risparmiato che il vicinato lo sentisse discutere con me.
-Vedo che tuo figlio è stata la priorità assoluta una volta rientrato in città, vero? Forza da quanto è che sei qui?- inveii subito
-Takanori calmati un attimo e ne parliamo da persone civili- mi zittì con la sua freddezza.

Cercai di trattenere tutta la rabbia accumulata dentro, ricordandomi che lui era l'unico a cui potevo chiedere qualcosa di più, l'unico che mi era rimasto in famiglia. Non vi sorprenderebbe affatto sapere che l'albero genealogico dei Matsumoto vanta di molte diramazioni, perfino straniere e intricate, ma al suo interno sembrano esserci motivi oscuri, talmente tanto oscuri da separare segretamente buona parte degli appartenenti, o meglio noi. Il primo ricordo familiare che ho è piuttosto bizzarro e lo ammetto qui, dove nessuno di loro può rintracciarmi o controribattere. Fin da quando ero molto piccolo associo con estrema fatica una faccia al ruolo di zio, mi era più congeniale immaginarmelo con i volti proposti dai libri per bimbi, dove ci sono raffigurate le famiglie felici e con delle belle facce. Disteso sulla moquette, in quei pomeriggi fanciulleschi interminabili, mi chiedevo dal cantuccino mio se anche i miei avi o parenti avessero bei visi come quelli che vedevo, sognavo. Sorridenti, amichevoli, gioiosi. Io a differenza degli altri bambini non lo sapevo affatto cosa fosse il regalo di Natale dei nonni ed essendomi abituato alla totale mancanza di certe figure di riferimento, ignoravo completamente la loro importanza. In me era maturata la stessa freddezza di mio padre, quella che ricordo gli leggevo sempre sul viso scuro alla fatidica domanda “ma i nonni quando li andiamo a trovare?”
Conoscere i suoi tabù e accettarli mi aveva reso esattamente il riflesso della sua aridità umana, un robot incapace di amare. Poi ruppi questi vincoli, stufo di essere legato da troppe regole a un mondo che mai mi era appartenuto e tornai finalmente a vivere. In un certo modo sapevo di avere dentro qualcosa di speciale tramandatomi da mia madre, la donna che mi aveva concepito. Ancora oggi mi chiedo se quando la sua pancia fu feconda fosse stata sola, e lo sguardo distaccato di questo uomo me lo conferma. Lui c'era solo per donarle il suo seme, per darle me e poi abbandonarci.
-E va bene, ma vedi di girarci poco intorno- lanciai una occhiata bigia contro la sua persona calma e posata.
-Posso capire che tu sia arrabbiato, ma vedi ho le mie buone motivazioni per aver fatto le mie scelte- prese una tazza e mi indicò il tè. Feci un cenno di diniego, al che si versò lentamente il liquido verdastro nella tazzona. La sua lentezza mi innervosì a tal punto che sbottai in una romanzina piuttosto sentita
-Avrai pure le tue motivazioni ma ti sei comportato da cane, non ci hai lasciato un centesimo per condurre una vita decente. A fine mese ci arriviamo a stento e tu intanto vai a giro con le tue puttanelle...-
-Avrò pure sbagliato come padre, ma si può sempre rimediare...-ribatté estraendo un libretto degli assegni dai pantaloni
-E ora intendi rimediare coi tuoi sporchi soldi la presenza che non ci hai mai dato?- aggiunsi velenoso
-Di altri rimedi non mi pare che ce ne siano, figliolo, al momento. Sai che ho molto da fare per lavoro ma che ti ho sempre voluto bene- strappò quell'assegno dal blocchetto porgendomi una possibilità nuova. Al principio non avrei accettato, ma quei soldi mi servivano per curare mia madre.
-Li prendo solo per curare tua ex moglie, non perché voglio l'elemosina da te-continuai sulla linea dell'acidezza.
-Perché che cosa ha?-parve volersi informare riguardo alla sua salute, lasciando passare le mie risposte
-è ricoverata in una clinica...Pare che sia affetta da demenza senile- osservai il bordo del centrino sul tavolino tra di noi come se fosse qualcosa di estremamente interessante.
-Oh, mi spiace-si interruppe dopo questa frase convenzionalizzata e adatta a tutti i nomi e sessi che ci si volevano mettere- Takanori aspettami qui, vado a prendere una cosa- si alzò di scatto come se fosse stato illuminato da qualcosa di detto.
Non sapevo minimamente cosa fare, chi odiare, cosa pensare di tutto questo. Ero terribilmente confuso e affranto da un dolore tanto profondo da essere incapace di muovermi, perfino da quella poltrona dove avevo trovato un momentaneo riposo.
Tornò da me con una scatola tra le mani, sapete una scatola normalissima da scarpe però elegantemente decorata con fiorellini laccati sopra ad arte. Quando tolse il coperchio mi mostrò implicitamente un mondo nuovo, costruito con la stessa minuziosità del suo “guscio”, tra scatoline e quadernetti color pastello.
-Questa scatola era della tua vera madre. Mi ha chiesto di fartene dono solamente quando avresti raggiunto ventuno anni, l'età in cui morì di parto- me la posò sulle ginocchia fragili, che in quella rivelazione avevano trovato un ulteriore peso da sostenere oltre quello dell'anima e del corpo.
Il mondo non mi era mai gravato così tanto sulle spalle. Caddi in un fosso profondo non so nemmeno lungo quanti chilometri, consapevole solamente del fatto di essere anonimamente solo.
[Lei non se ne era andata come mi era stato sempre detto, lei era morta per darmi alla luce]
Passarono forse le ore più tragiche della mia inconsistente vita attraverso le spiegazioni dettagliate di alcuni ritagli di esistenza che avrei dovuto accettare e integrare nei miei ricordi inaccessibili. Di sicuro quegli occhi stanchi aggiunsero molte emozioni al non detto, implicito pure in modi di porsi e gestualità confusa. Sottovalutai il dolore che ci avrebbe provocato rievocare vivamente tutta la nostra storia escludendo la possibilità di un pianto silenzioso quanto sincero.

Finii ancora di cercare mia madre nel corpo di Ryo, illudendomi che il suo amore materno potesse coesistere con quello carnale di un uomo, poco incline ad aprirsi a me. Nonostante non capissi più chi fosse quel uomo per me, precipitai sotto casa sua, mi feci aprire e gli caddi tra le braccia ancora una volta, più indifeso della volta precedente.
Mi accolse stupito con la mente lontana, forse pensando a quei calcoli astrusi che da diverso tempo lo impegnavano in nottate intere senza la più remota possibilità di vedersi. Che razza di uomo è uno come lui? Non riuscivo a realizzarlo al momento e nemmeno pareva tangermi più di tanto.
-Ryo facciamo sesso-fui lapidario e irremovibile nella mia richiesta, già occupandomi della sua maglia.
Lui rimasto di sasso dalla mia frettolosità si fece spogliare benché con lo sguardo cercasse di mettermi in soggezione, come suo sovente faceva quando qualcosa non gli quadrava.
Io non mi feci intimorire, perché quella volta lo avrei usato io ai miei scopi il suo corpo e non viceversa.

Fu una notte dove infiammai pure il suo spirito dormiente e dall'oscurità di un animo inaccessibile estrassi sentimento vivo, rimanendo nella forma dei gesti e non in quella delle parole.
Lui era disposto a darmi solo un sentimento intransitivo, incapace di farlo passare insieme ai baci dalle labbra.


Certe persone non possono essere salvate dal loro avvenire e neanche vogliono che nessuno lo faccia. Sono i peggiori di tutti. Pensate che anche quando trovano l'Amore della loro vita, per quello strafottutissimo orgoglio, sono disposti a rinunciare a un futuro certamente felice. Ryo era parte di questi, vero mamma?



NdA:

Eccoci al punto cruciale di tutto, annunciatore della fine imminente. Nel prossimo capitolo, quello che chiuderà questa long fic, capiremo quale sia l'elemento innovatore e se effettivamente ci sia qualcosa di differente dalle altre storie ReitaxRuki. Un piccolo assaggio c'è, ma non credo che sia possibile immaginarne lo sviluppo, perché davvero è una via piuttosto inusuale.
Mi ha fatto molto male scrivere il capitolo precedente e questo, vedendomi talvolta riflessa in uno dei personaggi di cui ho parlato. Fortunatamente non sono (ancora) così sfigata come il piccolo Taka, però ognuno ha la sua storia bella da raccontare, e sicuramente per uno di loro ci sarà...

Alla prossima,
Valja


  
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