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Autore: Lue    27/02/2012    3 recensioni
Avevamo quindici anni e lui mi rivolgeva un saluto in cortile, forse Ada ci presentava.
Avevamo sedici anni e parlavamo senza troppa convinzione di politica e manifestazioni.
Avevamo diciassette anni e ci raccontavamo cose di noi che nessun altro sapeva.
Avevamo diciotto anni e la nostra prima volta era una sera, a casa mia, e lui continuava a chiedermi: “Sei sicura? Sei sicura?”.
Avevamo diciannove anni e studiavamo per la maturità, baciandoci tra Greco e Filosofia.
Avevamo vent’anni, una paura folle di fare le scelte sbagliate e una speranza che ci cresceva rigogliosa nel petto.
Adesso di anni ne avevamo ventidue e sembrava che avessimo vissuto una vita insieme, una vita che si concentrava nelle sue mani, nel suo zaino e nel suo borsone, nella sue pelle scottata da un sole straniero, nei suoi occhi che tante volte s’erano specchiati nei miei.
Rimasi a bocca aperta davanti a lui.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Parole

- Secondo capitolo -




 

Non ricordo la prima volta che ci siamo incontrati.
Ricordo vagamente di averlo intravisto innumerevoli volte in cortile, in mezzo a studenti schiamazzanti e avvolti dal fumo delle loro sigarette. Ricordo che una volta, forse ci eravamo già presentati, guardandolo mi ero irritata: senza sforzo aveva trovato molti più amici di quelli che avevo io, nonostante tutto il mio impegno per piacere ad arroganti e viziati rampolli delle famiglie della Milano bene. Ma poi col passare degli anni ero cresciuta, avevo coltivato le amicizie che si sarebbero rivelate le più importanti della mia vita, imparando a riconoscere le persone luminose e a fare tesoro del rapporto che avevo con loro.
A volte lo vedevo la mattina presto, appoggiato contro il muro grigio e decadente della nostra scuola con un libro in mano e una sigaretta in bocca; rimanevo lì a guardarlo senza essere notata, perché mentre leggeva non si curava di nulla intorno a sé. Così io intanto cominciavo a conoscere i suoi più piccoli particolari, un anello d’argento intorno al dito medio, forse un po’ troppo grande, l’increspatura delle sue labbra quando aspirava e il tentativo dei suoi occhi di non staccarsi dalle pagine bianche nonostante il fumo che li faceva lacrimare. Ma poi qualche compagno mi raggiungeva, cominciava a parlare, e io mi dimenticavo di lui.
Si chiamava Enea, aveva gli occhi azzurrissimi, e una notte lo sognai.
Eravamo a casa di un’amica comune, Ada, e lui, seduto su un letto disfatto accanto a me, aveva tirato fuori la chitarra e si era messo a pizzicar note. Le sue note avevano il sapore di parole ed erano parole che potevamo comprendere solo noi, la lingua di un sogno; mi aveva baciato piano sulle labbra e i suoi occhi azzurri mi avevano sorriso. Sarei voluta rimanere lì, ma un’onda di persone era irrotta nella stanza e mi aveva trascinata in una danza sfrenata e ora avevo il cielo sopra la mia testa e fili d’erba tra le dita dei piedi. L’avevo perso, non lo trovavo, e il mio sguardo vagava frenetico in mezzo ai corpi che si muovevano veloci. Quando la danza si era fermata mi ero trovata davanti agli occhi una fila di ragazzi, tutti i miei finti amori, i miei fidanzati inutili.
“No”, esclamavo ad alta voce ogni volta che gli amici me ne presentavano davanti uno, “No, non è nessuno, no, mai”. Lui era l’ultimo della fila e teneva la testa alta e lo sguardo luminoso. Il sorriso sulle sue labbra aveva tremato prima di spegnersi davanti alla mia incertezza, “No”, avevo sussurrato flebilmente, guardandolo mentre se ne andava.
Me n’ero pentita subito, e lo cercavo e volevo dirgli molte cose che avevano il sapore di note e parole e sorrisi e scuse e restiamo insieme non voglio lasciarti e mi piacciono i tuoi occhi e mi dispiace giuro che non scapperò, ma già scappavo perché non potevo dirglielo, non potevo permettere che avesse tutto quel potere su di me, e lui mi avrebbe ferito, avrebbe fatto a brandelli il mio cuore come aveva fatto un altro prima di lui e io avrei saputo che l’amore non esiste, è il sogno degli sciocchi e di coloro che hanno troppa paura e sono troppo deboli per rimanere soli.
Non l’avevo trovato più e pure avevo smesso di cercarlo, ma la mattina dopo, quando mi svegliai, il suo sapore era sulle mie labbra.
Mi ero accorta che già da qualche tempo Enea era entrato nella mia vita, a piccoli passi, lui che sapeva essere così rumoroso, con un sorriso quando ci incontravamo in corridoio, un “ciao” detto un po’ più forte quando ero lontana e non lo vedevo, due chiacchiere e tre risate perché avevamo gli stessi amici ormai ma la confidenza tra noi era ancora traballante, incerta. Avevo diciassette anni e mi piacevano i suoi capelli perché assomigliavano ai miei, così scuri, e il suono squillante della sua risata mi metteva allegria.
Cominciai a cercarlo tra le mani, i volti, le sigarette in cortile, tra le schiene e le teste degli studenti seduti a terra in palestra, durante le assemblee.
Volevo il suo sguardo su di me, un’attenzione in più, un contatto. Ma ancora non volevo ammetterlo a me stessa e ignoravo il mio interesse per lui come ignoravo volutamente le chiamate di Marco e i suoi messaggi che invocavano il mio ritorno, una seconda possibilità. Un giorno si presentò sotto casa mia, teneva tra le mani un fiore, e il berretto rosso faceva spuntare ciuffi castani sulla sua fronte.
“Mi manchi”, mi disse, e io mi spostai per far passare una vecchietta con le braccia piene di borse della spesa.
Lui le tenne aperto il portone e lei mi fece un sorrisino, “Che ragazzo gentile, tienitelo stretto”, ammiccò.
Alzai gli occhi al cielo.
Rimanemmo in silenzio per qualche istante, mentre ogni cellula del mio corpo invocava aiuto e non vedeva l’ora di sgattaiolare di sopra, nella mia camera, lontano da lui.
“Senti...”, cominciai.
“Io non lo so perché mi hai lasciato”, mi interruppe invece Marco, “e non ci riesco nemmeno a capirlo,  ma tu con  le persone non puoi comportarti così. Cioè, voglio dire, io pensavo di piacerti e poi salta fuori che non vuoi più vedermi, non è giusto. Io non... non sono mica SuperMario, che finisci gli ottanta livelli e spegni la play-station e non ci giochi più per un anno e poi magari ti torna la voglia e lo rifai dall’inizio, io non sono una cosa, non puoi mica buttarmi via, io... io mi son innamorato di te, cosa credi?”.
Era il discorso più lungo che gli sentivo fare da quando lo conoscevo e fu il mio turno di rimanere senza parole. Scosse la testa e mi porse bruscamente il fiore.
“Per te”, mormorò. Poi mi fece un cenno di saluto, e se ne andò.
Rimasi a guardarlo finché il suo cappello rosso non fu soltanto un puntino all’orizzonte, confuso tra le teste dei passanti fermi al semaforo.





______


:)
Le foto sono tratte da weheartit!
Lu.

   
 
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