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Autore: Lue    14/02/2012    4 recensioni
Avevamo quindici anni e lui mi rivolgeva un saluto in cortile, forse Ada ci presentava.
Avevamo sedici anni e parlavamo senza troppa convinzione di politica e manifestazioni.
Avevamo diciassette anni e ci raccontavamo cose di noi che nessun altro sapeva.
Avevamo diciotto anni e la nostra prima volta era una sera, a casa mia, e lui continuava a chiedermi: “Sei sicura? Sei sicura?”.
Avevamo diciannove anni e studiavamo per la maturità, baciandoci tra Greco e Filosofia.
Avevamo vent’anni, una paura folle di fare le scelte sbagliate e una speranza che ci cresceva rigogliosa nel petto.
Adesso di anni ne avevamo ventidue e sembrava che avessimo vissuto una vita insieme, una vita che si concentrava nelle sue mani, nel suo zaino e nel suo borsone, nella sue pelle scottata da un sole straniero, nei suoi occhi che tante volte s’erano specchiati nei miei.
Rimasi a bocca aperta davanti a lui.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Parole

- Primo capitolo -



A settembre di quell’anno avevo diciassette anni e rincorrevo senza troppo entusiasmo un ragazzo più grande, universitario, ma ogni volta che lui si avvicinava a me, io mi allontanavo, lasciando raffreddare l’interesse per noia, fino a quando non avessi di nuovo avuto voglia di vederlo.
Si chiamava Marco e lo lasciai in un giorno di sole, mentre le foglie degli alberi cominciavano a ingiallirsi e un leggero freddo soffiava sui tetti milanesi. Indossava un berretto rosso, e mi guardò un po’ confuso.
“Ma è colpa mia? Ho fatto qualcosa?”, si tolse il cappello e lo tenne tra le mani.
“No, figurati, tu non hai fatto nulla, è solo un periodo che... che voglio stare da sola. Ma non è colpa tua, giuro”.
Feci per andarmene, ma lui mi fermò.
“Vera, tu... noi... Mi chiamerai quando starai meglio, giusto?”.
“Ma certo, ti chiamo, promesso”.
Gli avevo rivolto un mezzo sorriso e poi me n’ero andata, lasciandolo sorpreso e, immagino, dispiaciuto col suo berretto rosso in mano, proprio in mezzo al marciapiede.
Così facevo con tutti: tempo tre settimane e la loro presenza cominciava a infastidirmi, erano noiosi, uguali, inutili. Mi vergognavo di loro, a un tratto tutti i loro difetti erano così lampanti, chiunque avrebbe potuto notarli e chiedermi, “Ma come puoi scegliere dei ragazzi così?”. Il fatto era che io non li sceglievo, li trovavo per caso: erano amici timidi che chissà come mi si dichiaravano, e io accettavo perché la loro sorpresa e adorazione per me avrebbero impedito loro di ferirmi.
Ero infelice e volevo un passatempo; solo ora capisco quanto fossi meschina nei loro confronti. Obbedivano alle mie richieste come dei cagnolini e io non avrei mai fatto nulla per loro, dopotutto non potevano certo permettersi di perdermi: non avrebbero mai più trovato una ragazza come me che fosse disponibile nei loro confronti. C’era però una condizione alla quale non potevano rifiutarsi: erano obbligati a mantenere il segreto, nessuno doveva sapere di “noi”. L’importanza del giudizio degli altri superava di gran lunga l’affetto che potevo provare per loro.
Non era colpa mia, è che non erano abbastanza, nessuno di loro lo era. Solitamente mancavano di bellezza, di spirito d’iniziativa, di una simpatia fresca, ma ciò che mi colpiva di più, negativamente, ciò che odiavo in loro erano le parole. Le infilavano a caso, senza cura alcuna e nessuno di loro ne capiva mai l’importanza fondamentale; così anche i loro silenzi divenivano fiacchi e inutili: degli intervalli che non interrompevano nulla.
Io invece le parole le sceglievo, me le annotavo su un taccuino, a volte scrivevo poesie. Non le ho mai fatte leggere a nessuno di loro perché per tanti – e a volte  irragionevoli – motivi io li disprezzavo e dentro di me sapevo che non avrebbero capito nulla delle mie parole.
Nemmeno altri ragazzi – più colti, più belli – mi interessavano, perché la loro arroganza li rendeva vuoti ai miei occhi e conquistarli mi sarebbe costato sicuramente un po’ d’impegno, per poi ottenere lo stesso risultato che con gli altri.
Finivo col farli soffrire tutti, quei ragazzi che mi si dichiaravano, riempiendoli di giuramenti e promesse che non avrei mantenuto, forse egoisticamente – e inconsciamente – volendo che provassero anche loro un briciolo dell’amarezza che mi affliggeva.
Ero infelice e non sapevo quel che volevo.
Lasciai Marco e cominciai a pensare a me stessa. Ora che non avevo più nessuno che fosse disposto a tutto per me, nessuno di cui infischiarmi, nessuno con cui potessi fingere di essere perfetta e superiore, tutte le crepe nella mia anima mi parvero voragini. Sentivo di aver dimenticato cosa si prova a essere innamorati, di non riuscire più a capire come si scelgono le persone, di aver toccato il fondo, perché a diciassette anni non si può essere stanchi della vita.
A volte la notte mi svegliavo di soprassalto, il cuore in tumulto, gli occhi colmi di lacrime e un’angoscia terribile che mi oscurava i sensi; un dolore fortissimo mi riempiva il petto e cercavo inutilmente di aggrapparmi a un barlume di luce: tutto era buio, fuori e dentro di me, e mi sentivo come uno specchio rotto, la mia anima era in frantumi. Non riuscivo a dare una risposta alla domanda che mi assillava la mente, di notte – sudata, infreddolita e terrorizzata nel mio letto –, come di giorno – sotto la luce del sole e gli schiamazzi dei miei compagni: “Perché mi succede?”.
Naturalmente non avevo mai raccontato niente di questo a nessuno, non perché gli altri non avrebbero capito, ma perché era una parte di me troppo sporca: faceva talmente tanta paura a me stessa che avrebbe atterrito e allontanato chiunque altro.
Pensavo che non sarei mai guarita, che avrei passato tutti i giorni della mia vita a letto, spaventata dalla realtà, che nessuno sarebbe mai riuscito ad amarmi.
Poi, in poco tempo, era cambiato tutto. Avevo cominciato a osservare le piccole cose, a gioirne, a prendermi il tempo che mi serviva per fare delle scelte. Ricominciavo a uscire più spesso, a parlare di più, ad ascoltare gli altri, a scrivere nuove poesie. Gradualmente, prima che me ne accorgessi, smisi di svegliarmi la notte, imparai a calmarmi quando succedeva e intanto, senza accorgermene, i tasselli tornavano al loro posto, lo specchio riprendeva a riflettere senza più increspature, integro.
All’inizio di novembre io stavo meglio, e mentre ormai le foglie degli alberi giacevano secche e scricchiolanti in terra, cominciò la nostra storia.








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Avevo pubblicato questa storia qualche tempo fa, poi per vari motivi l'ho cancellata.
Rieccola qua :)

   
 
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