Film > The Phantom of the Opera
Segui la storia  |       
Autore: Sylphs    27/02/2012    5 recensioni
Sei mesi dopo la notte del don Juan, una giovane pianista un po' inopportuna arriva al teatro dell'Opera per seguire delle lezioni...ma un misterioso e ambiguo incidente capitato durante una rappresentazione la porterà ben presto a indagare sull'esistenza del temibile Fantasma dell'Opera e una domanda opprime l'animo di tutta la compagnia: è realmente scomparso, oppure la loro era solo una speranza vana?
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Amore o morte

 
 
 
 
 
Vivian sedeva sola al pianoforte, circondata da abissi di silenzio e di isolamento perpetuo, minuscola nell’immenso salone sotterraneo della Dimora sul Lago mentre pestava sui tasti furiosamente e schiacciava il piede sul pedale con frustrazione tormentata. La sua canzone, la loro canzone, si srotolava nell’aria al tocco delle sue dita sullo strumento, riecheggiava negli angoli, nelle alcove, sulle acque gelide del lago Averno, facendo tremare ogni cosa insieme a lei. La giovane non avrebbe saputo dire da quanto tempo la suonasse, terminandola e ricominciandola da capo con ostinazione testarda, ma certo dovevano essere trascorse alcune ore, a giudicare dalla fatica che sentiva alle mani indolenzite e dal sudore che le bagnava la fronte e i capelli disordinatamente sciolti sulle spalle e sul petto. L’abito che indossava, di un ricco color porpora con guarnizioni dorate, aveva uno stretto corpino rigido e una gonna composta da veli impalpabili, strati di tessuto leggerissimo che le accarezzavano le gambe nude e tornite e che ricadevano ai suoi piedi per qualche braccio, formando una pozzanghera di fuoco intorno a lei. L’assenza di gioielli e di acconciatura otteneva l’effetto di renderla ancora più selvaggiamente attraente, unita all’espressione furiosa, tormentata e fremente diffusasi sui suoi lineamenti contratti. Gli occhi le ardevano e le labbra carnose erano serrate al punto da sembrare sottili.
Non aveva bisogno di leggere le note scritte sullo spartito, né di voltar pagina quando l’esecuzione lo richiedeva. Conosceva ormai la canzone a memoria, trovava le note giuste con il solo ausilio dell’istinto e riversava su di esse la singolare, potente frustrazione insoddisfatta che si era impossessata di lei quando erano tornati dalla gita in gondola. Erik non le aveva rivolto la parola per tutto il tragitto, evitando perfino di guardarla in faccia, e dopo averla aiutata a scendere si era congedato da lei con fretta nervosa, annunciandole che si sarebbe recato sul tetto del teatro per godersi un po’ di solitudine e lasciandola sola nei sotterranei per gran parte dell’ultima giornata che avrebbero passato insieme.
Che cosa gli era preso, la notte precedente, sulla superficie turchese della Senna? Finalmente le aveva dimostrato di fidarsi di lei, di avere la forza di raccontarle la triste storia del suo passato, di aprirle i segreti e i dolori della sua torbida anima nera, e quando ella, commossa dal gesto e influenzata dal chiarore lunare, gli aveva preso le mani giurandogli di non tradirlo mai, aveva perfino ricambiato la stretta, accogliendole nelle proprie e guardandola in volto in una maniera che per un attimo le aveva fatto credere che provasse qualcosa nei suoi riguardi…
Ma improvvisamente, senza che nulla lo giustificasse, si era scostato da lei con un’espressione di paura e quasi di orrore che l’aveva ferita quanto una pugnalata in mezzo alla schiena e le aveva miseramente voltato le spalle, gettandola in una confusione ancor più forte della precedente. E in seguito l’aveva trattata come se fosse qualcosa di pericoloso e immondo da maneggiare con cautela, negandole la sua compagnia nel giorno meno propizio per un simile atteggiamento. Che cosa aveva fatto di male? L’aveva esortato a confidarsi, certo, ma con tutte le buone intenzioni del mondo; si era persuasa che se avesse condiviso il suo fardello con lei un poco dell’oscurità che si portava dentro si sarebbe dissipata, che i suo occhi cupi e ombrosi sarebbero divenuti limpidi e pregni di luce. E le prime reazioni di lui lo confermavano.
Perché, allora, si era allontanato da lei come se lo avesse spinto a fare qualcosa di immorale e vergognoso? Perché l’aveva deliberatamente ignorata, scortandola nella sua stanza e dileguandosi subito dopo, malgrado ella avesse mostrato pienamente il suo smarrimento? Non era stata lei a determinare il corso degli eventi, anzi, ne era stata travolta contro la sua volontà, facendosi trascinare in un vortice da cui ormai non poteva più fuggire, Erik non aveva alcun motivo di scappare in quella maniera. Era disgustato da lei?
No, non era possibile. L’aveva guardata come se la considerasse bellissima e preziosa, nei primi momenti sul fiume, tanto che il sangue le era affluito sulle gote e si era sentita lusingata e considerata. Ma d’altra parte…
La situazione la coglieva impreparata. Non c’erano stati uomini nella sua vita, si era negata per scelta le loro attenzioni e aveva promesso a se stessa che mai avrebbe fatto la fine di sua madre, mai avrebbe posto la sua anima nelle mani di uno di loro. Aveva voltato le spalle agli sguardi cupidi che talvolta, nelle occasioni importanti, cadevano su di lei e aveva rifiutato senza appello la corte di Antoine, nonostante egli fosse giovane, bello e molto ricco e tante altre fanciulle lo trovassero un compagno appetibile. Non c’era da fidarsi delle promesse maschili; gli uomini fiutavano l’inconfondibile profumo del suo seno e del suo sesso, della sua inviolata verginità, e accorrevano lesti per berlo fino all’ultima goccia e per abbandonarla svuotata e, nel peggiore dei casi, recante in grembo una traccia tangibile del loro intervento. La violenza operata da Antoine e l’ingenuità di sua madre ne erano la prova inconfutabile.
Tuttavia Erik non era un semplice uomo, non assomigliava agli individui che raramente l’avevano avvicinata. Aveva in sé qualcosa di ultraterreno, di superiore, di misterioso e oscuro che forse, benché non se ne fosse accorta mai, l’aveva attratta fin dal primo momento, quando le aveva stretto intorno al collo il laccio del Penjab e le aveva accarezzato la pelle con il suo caldo fiato minaccioso. Nei giorni in cui avevano vissuto insieme non aveva mai approfittato del potere che ella stessa gli aveva conferito, non aveva mai mostrato l’intenzione di importunarla e abusare della sua presenza. Per prenderla gli sarebbe bastato scostare la tenda che conduceva alla sua camera da letto o allungare una mano mentre sedevano al piano l’uno accanto all’altra, ma non l’aveva mai fatto. Per questo motivo, per il rispetto e l’interesse puro che, almeno negli ultimi giorni, le aveva dimostrato, se ne era innamorata.
Sì, era inutile fingere, negarsi la verità, condirla con sciocchi alibi: era innamorata di Erik Destler. La tensione nata tra loro sulla gondola aveva squarciato i veli della menzogna e le aveva rivelato la vera natura della Presenza che da qualche tempo aveva preso possesso del suo corpo e della sua anima. Sapeva, adesso, che era amore. Il disastro del “Re degli Elfi” non era svanito dalla sua memoria, ogni particolare di quella tragedia era scolpito in profondità nel suo cervello e rammentava benissimo il crollo del possente lampadario, le grida terrorizzate del pubblico in fuga, la mano martoriata che spuntava grottescamente dalle macerie, Emma, immobile e traumatizzata, in procinto d’essere travolta dalla scenografia in caduta libera, la risata demoniaca risuonata al culmine della morte e della distruzione…era stato Erik a farlo. Decine di innocenti avevano trovato il decesso per sua mano, svanendo sotto la mole dello strumento della sua vendetta.
Non le importava. Egli aveva commesso un errore imperdonabile, ma non era realmente crudele. Le ingiustizie, le sventure, i tradimenti di cui era stato fatto oggetto fin dall’infanzia avevano pervertito la sua formazione e lo avevano indotto a crescere con principi totalmente sbagliati, con regole che andavano contro ai canoni morali della maggior parte degli esseri umani. Era una vittima, esattamente come quelle sepolte dal lampadario. E lei voleva aiutarlo. Non si illudeva che sarebbe cambiato totalmente grazie alla sua influenza e che avrebbe intrapreso un cammino di bontà e sacrificio, ma era sicura che se Christine l’avesse accettato, egli avrebbe cessato di uccidere e tormentare. Aveva solo bisogno di sentirsi amato per abbandonare i suoi propositi assassini. E lei avrebbe potuto…avrebbe potuto…
Una piccola goccia d’acqua cadde sull’immacolata tastiera del pianoforte, seguita, subito dopo, da una gemella identica, e da un’altra ancora. Le note sonore e argentine che avevano coperto il silenzio dei sotterranei si spensero con una serie di aspre dissonanze e la piccola mano della ragazza, esile ma forte e vigorosa come una roccia, scagliò di lato lo spartito con un gesto fulmineo e violento, facendolo cadere sul pavimento. Appoggiò i gomiti sullo strumento, producendo un suono cupo e cacofonico, e si prese la testa fra le mani, infilando le dita tra i riccioli corvini.
Non avrebbe potuto fare nulla. Quella non era la sua storia, la sua favola, non era suo il ruolo della bella principessa che aveva sciolto il cuore di ghiaccio di un angelo delle tenebre e che l’aveva sollevato sulle ali dell’amore. Lei era soltanto un’intrusa indesiderata che aveva usurpato con la forza una posizione appartenente ad una fanciulla che se ne era disfatta con disgusto, una nullità, una sguattera che ambiva invano a vestire i panni dell’eroina romantica d’uno dei tanti romanzi che le aveva letto suo padre. Erik non sarebbe mai stato suo, non avrebbe mai ordito alcun piano per conquistare il suo cuore che già gli apparteneva.
Però doveva amarla! Sulla Senna le aveva stretto le mani con una delicatezza e un affetto che non aveva mai conosciuto, il suo volto gelido e duro si era addolcito e i suoi occhi di zaffiro avevano cercato i suoi quasi con disperazione. Queste, almeno secondo Vivian, erano prove tangibili di un coinvolgimento emotivo, di un sentimento. Se Erik non avesse provato nulla per lei, avrebbe continuato a trattarla con la gelida cortesia dei primi giorni. Non l’avrebbe mai guardata…così.
Si sentiva impazzire. L’amore si agitava dentro di lei come un animale selvaggio e le sue vene ribollivano di irata insoddisfazione. Nulla in quel momento le importava, fuorché Erik. Doveva scoprire qual era la natura dei suoi sentimenti per lei, prima che la giornata giungesse a termine, prima che il loro tempo cessasse per sempre. E, impulsiva e frenetica com’era, avrebbe portato a termine un tale intento con ogni mezzo possibile, data l’esigua quantità di ore rimastale. Domandare francamente non sarebbe servito a nulla, conosceva abbastanza il Fantasma dell’Opera da sapere che avrebbe eluso con facilità qualsiasi quesito diretto. Arrivare alla verità tramite una serie di inganni e di tiri mancini era ugualmente inutile, dal momento che egli era maestro di entrambi.
Non le restava che giocare l’ultima carta….metterlo sulla graticola con il suo stesso trucco. Così ogni falsità, ogni tabù sarebbe caduto e avrebbero affrontato, il decimo giorno, la realtà nella sua forma più cruda. Una volta per tutte.  
 
Il sole aveva ormai compiuto metà della sua discesa e si era appoggiato, con leggerezza impalpabile, sull’orizzonte celato dai palazzi di marmo, dalle abitazioni di pietra e catrame e dalle chiese dalle guglie aguzze, tingendo il cielo all’intorno di mille sfumature rosate, arancione, rossastre e azzurrine. Un bagliore viola cadeva obliquamente su una Parigi che si preparava a chiudere le palpebre sull’oscurità incombente e la neve perdeva quella luminosità argentata che faceva scintillare la città quando era giorno inoltrato. Raggi intrisi dell’aranciato lucore del tramonto cadevano sul tetto dell’Opera Garnier e rivelavano le statue angeliche appollaiate sul parapetto con le ali spalancate e una figura più scura, dall’analoga immobilità, che si appoggiava alla balaustra con i gomiti, lasciando cadere lo sguardo sull’oceano di tetti sottostante.
Erik scrutava gli esseri umani, deboli creature cieche al buio che si apprestava a calare su Parigi, che si affrettavano ognuno alla propria casa, pregustando, con ogni probabilità, una cena calda e sostanziosa, una moglie sorridente pronta ad accoglierli a braccia aperte e una notte d’amore e di piacevoli sogni. Aveva conosciuto ben pochi individui, se non quasi nessuno, che condividevano con lui il viscerale amore per le tenebre: esse erano pregne di un fascino, di una bellezza che sfuggiva alla maggior parte dei cittadini e che solo chi era avvezzo a girare nel buio riusciva a cogliere. Zone che alla piena luce del sole non presentavano alcuna via di fuga, con il favore della luna si riempivano di nascondigli e di pozze d’ombra, luoghi affollati e intrisi del ributtante odore della folla si svuotavano e acquisivano il loro pieno valore. I suoi occhi attenti e freddi, trafitti dai raggi solari e indeboliti dal brillio dell’astro rovente, pian piano tornavano a vedere con chiarezza ogni particolare della città che si srotolava sotto di lui e riconoscevano a memoria le varie vie e vicoli: avrebbe saputo indicare con precisione la posizione di Rue Auber, Rue Meyerbeer e Rue Scribe, e quale genere di persone vi si aggirava a notte fonda. Un mendicante cieco strisciava con lentezza esasperante sino ad un muro sudicio e scrostato e vi si appoggiava, tendendo la mano scarna e sperando in un poco di carità. Una prostituta di alto borgo, dai capelli biondi come il grano e dal viso sfatto da una vita dal sapore amaro, usciva da una casa al comparire di una carrozza e vi entrava in fretta, probabilmente per incontrarsi con un cliente che non voleva render nota la sua identità.
Si potevano carpire tanti segreti di notte, quando la massa superflua e l’anonima mescolanza di esseri umani si dileguava dalle strade tanto conosciute.
Ma quella sera, la mente di Erik non desiderava strappare alla cortina di tenebre ciò che tanto gelosamente teneva nascosto, e il suo sguardo vagava da un punto all’altro del paesaggio senza concentrarsi su nulla in particolare, le pupille soggette a quella vacuità offuscata che contraddistingue coloro che si smarriscono nei loro pensieri. Il suo volto coperto dalla maschera, chino sulle braccia incrociate sul parapetto, non mostrava l’abituale espressione impassibile: c’era, nella piega delle labbra e negli zigomi contratti, un’evidente traccia di tormento. Egli era in quel momento talmente immobile che lo si sarebbe potuto scambiare per una statua, sennonché a volte, assai di rado, in verità, alzava una mano per scostarsi dalla fronte i capelli mossi dal vento o emetteva un lungo, rumoroso sospiro.
Aveva coltivato la vana speranza che allontanarsi da Vivian e cercare rifugio laddove l’aria più pura poteva ripulirgli i polmoni fosse il rimedio giusto per scacciare le ingombranti e incomprensibili sensazioni che l’avevano assalito a seguito della gita in gondola, ma nulla di ciò era successo. L’immagine di lei così come gli era apparsa sotto l’ingannevole chiaro di luna, con la pelle candida come la neve che imbiancava i tetti, i capelli sfumati degli stessi riflessi bluastri che adesso adornavano i più alti strati di cielo e gli occhi tempestati di bagliori smeraldini era penetrata nelle sue ossa come un marchio di fuoco e non si decideva ad andar via. Se chiudeva gli occhi, riusciva addirittura a sentire il suo profumo, trasportato al suo animo vinto dalla brezza notturna. Aveva tenuto fra le sue le mani snelle e forti della ragazza ed ella non aveva palesato disgusto per la vicinanza neppure per un istante, anzi, gli si era fatta da presso come se quel contatto le fosse gradito. Le sue dita affusolate si erano appoggiate con risolutezza sulle sue labbra offese e i suoi occhi ambrati lo avevano guardato veramente, eludendo la presenza della maschera. Per un fuggevole istante, aveva provato ad immaginare ciò che sarebbe potuto essere…
Avrebbe potuto condividere con lei la sua solitudine.
Avrebbe potuto proteggerla.
Avrebbe potuto fare per lei ciò che non aveva potuto fare per Christine.
Ma la sua familiarità con gli inganni delle tenebre lo aveva fatto rinsavire mentre indugiava su propositi tanto folli e irrealizzabili ed era scappato da quelle mani, da quel viso, da quegli occhi per non essere costretto a subirne gli effetti ancora. Era stato assolutamente sciocco e sconsiderato da parte sua cedere alla situazione. Non era certo un giovanotto imberbe, un ridicolo moccioso che si faceva disarmare dal sorriso di una damigella e dal chiarore pallido della luna. Era un uomo maturo, un uomo che dal mondo non aveva ricevuto altro che menzogna e tradimento, perfettamente capace di guardarsi da simili tranelli.
Perché, allora, aveva permesso all’atmosfera di coglierlo di sorpresa?
Forse c’entrava soltanto il fatto che Vivian era una donna…e lui si era privato per tanto, troppo tempo, di un contatto con esse. Ne aveva spiate parecchie, ammirando quelle membra sinuose ed eleganti e seguendo con lo sguardo il fruscio di una gonna di seta, aveva invidiato, talvolta, quei galantuomini che le portavano a passeggio la Domenica, conducendole a braccetto e toccandole con una naturalezza che lui non aveva mai conosciuto, ma la paura di essere dileggiato per il suo aspetto demoniaco e il trauma legato all’abbandono della madre l’avevano sempre frenato dal tentare un approccio. Christine era stata l’unica eccezione, e non era che una bambina, quando l’aveva conosciuta. Tuttavia una tale mancanza gli era pesata negli anni della sua maturità, il desiderio frustrato e insoddisfatto aveva scandito il ritmo dei suoi giorni e le fantasie che rifuggiva durante la veglia lo avevano spesso aggredito in sonno, concretizzandosi dapprima in incerti e nudi profili femminili, quindi nel corpo di Christine, bianco e abbagliante nella sua perfezione. Tuttora riconosceva pienamente che, malgrado si fosse negato di accedere all’universo sessuale tramite un rapporto a pagamento, che era, per il suo animo romantico, un insulto alla purezza dell’amore, si ritrovava completamente frustrato in quell’ambito cui non osava pensare.
E Vivian aveva vissuto al suo fianco per ben dieci giorni, separata da lui da un unico muro, fiduciosa nel suo autocontrollo e nel suo senso dell’onore. Mai una volta aveva colto in lei segni di imbarazzo o di timore, in numerose occasioni gli era comparsa davanti in camicia da notte, senza alcun accenno di turbamento. Se ne era rallegrato, al principio, ma adesso in lui si era insinuato il dubbio che un tale comportamento fosse stato, in realtà, un affronto alla sua virilità. Ella pensava forse che essendo deforme e facendosi chiamare fantasma, egli fosse meno di un uomo? Che fosse incapace di provare lussuria?
Era lussuria, l’incandescenza che gli danzava nelle vene, il bisogno incontrollato di contemplare i suoi occhi e il suo sorriso, di udire la sua voce stonata, di toccare la sua pelle morbida e annusare il suo intenso profumo?
Buttando fuori l’aria con pesantezza disperata, Erik posò la fronte sul gelido marmo del parapetto e chiuse gli occhi. Non poteva andare avanti così. Quando l’aveva accolta nella sua dimora, certo non avrebbe mai potuto prevedere che la sua presenza avrebbe influito così tanto su di lui, né che si sarebbe ritrovato, dopo l’esperienza di Christine, a struggersi per una di quelle creature fascinose e ammaliatrici, curiose come Pandora e subdole come una vipera, comunemente chiamate donne. Aveva riposto un’eccessiva fiducia in se stesso, aveva creduto che il dolore della notte del Don Juan avesse strappato dal suo animo ogni sentimento, lasciando solo vuoto e odio. Ma così non era stato…egli era un essere umano, nonostante i suoi simili non l’avessero mai voluto con loro. Ed era soggetto a debolezze umane.
Vivian doveva andarsene. Immediatamente. I dieci giorni erano trascorsi, non aveva più alcun dovere nei suoi confronti. Sarebbe sceso da lei, forte della sua consumata abilità nel dissimulare le emozioni, e l’avrebbe esortata a preparare le sue cose e a tornarsene a casa. Una volta separatosi dalla ragazza, dal richiamo carnale che emanava, tutto quel tormento sarebbe cessato. Non le avrebbe permesso di portare a termine il suo giochetto, non si sarebbe lasciato sconfiggere dalle sue arti femminili. Forse ella non aveva operato quelle trame volontariamente, ma era una donna…lo tentava con la sola presenza, con il solo odore…lo chiudeva in una gabbia che si faceva di giorno in giorno più stretta. Sarebbe stato un bene per entrambi, se si fossero congedati l’uno dall’altra. Forse era persino il caso di mandare una lettera minatoria a Firmin e André, consigliando loro caldamente di negare alla fanciulla un posto di allieva all’Opera, così sarebbe scomparsa del tutto dalla sua vita.
….no, era troppo eccessivo. Vivian era stata gentile con lui, gli aveva salvato la vita nel precipizio e lo aveva curato con dedizione. Senza contare che insieme avevano realizzato una canzone che necessitava della ragazza per gridare al mondo il suo messaggio. Se se ne fosse andata, anch’essa sarebbe caduta nel dimenticatoio, e ciò avrebbe vanificato tutti i loro sforzi. Non le avrebbe tolto la sua posizione lì. Era abbastanza forte da resistere alla tentazione di vederla.
Una parte di lui ne dubitava. E dubitava anche che la canzone fosse il reale motivo della sua riluttanza a mandarla via da Parigi. Era portata piuttosto a pensare che non volesse privarsi della possibilità di rincontrarla in maniera così drastica. Ma non aveva tempo per impigliarsi in una ridicola battaglia interiore. Aveva scelto il minore dei mali, ed era questo ciò che contava. Una corda dentro di lui gridava insoddisfazione, ma era irrilevante. Si era sempre considerato una persona concreta e risoluta, capace di prendere le decisioni più terribili, pur di raggiungere i suoi intenti; a causa di Vivian, era già venuto meno abbastanza a quest’immagine di sé.
Sprofondò nel teatro con passo sostenuto, rassicurato dalla soluzione a cui infine, dopo ore di riflessione, era giunto, e avvertì in corpo una fretta inconsueta. Se voleva liberarsi di Vivian, doveva farlo subito, senza alcun indugio. Gli errori passati l’avevano sufficientemente edotto sui propri limiti, e sapeva che se avesse aspettato troppo prima di mandarla via, avrebbe finito col convincersi che non era assolutamente la soluzione più vantaggiosa. La logica lo aveva condotto a rifugiarsi in quella facile scappatoia, ma come ormai sapeva bene, l’essere umano è una creatura d’istinto, e spesso assume comportamenti del tutto irrazionali. Sulla gondola, la notte prima, era stato sul punto di perdere il controllo e di spogliarsi di ogni arma, soggiogato dal potere della luna e del volto di Vivian. Non intendeva trovarsi in una situazione di analoga vulnerabilità mai più. Perciò avrebbe eliminato dalla sua esistenza la responsabile di quel cedimento. E lei non avrebbe potuto protestare in alcun modo. L’accordo che avevano stipulato parlava chiaro, sarebbe stata sua ospite per dieci giorni esatti, non uno di più. Forse il marchesino sarebbe tornato a importunarla, una volta perduta la sua protezione…ma in quel caso... lui cosa avrebbe fatto?
A rigor di logica, nulla. Vivian non era né sua allieva, né sua parente, né tantomeno sua…fidanzata. Egli non aveva alcuna responsabilità nei suoi confronti e non aveva il diritto di avanzare pretese su di lei a spese di un terzo. Se il nobile l’avesse assalita fuori dai confini del teatro, non avrebbe potuto aiutarla, per quanto continuasse a desiderare di proteggerla. Ma occorreva per forza che tra di loro ci fosse qualche legame riconosciuto? Indubbiamente in quel periodo era andato formandosi un rapporto di equità, e questo era qualcosa che valeva più di qualsiasi promessa o giuramento. Si sarebbe preso cura di lei nell’ombra, senza che se ne accorgesse, tenendola lontana dai pericoli. Nessuno aveva l’autorità o il fegato di sfidare il Fantasma dell’Opera! Tantomeno il bamboccio dal sangue blu che era scappato dalla cappella come un cane tremante, dando un’umiliante dimostrazione di codardia.
Sì, in quella maniera si sarebbe allontanato da lei e, allo stesso tempo, l’avrebbe difesa dalle insidie della sua precaria posizione sociale. Era il miglior compromesso che avesse mai raggiunto, e acquietò un poco quel senso di indefinibile riluttanza che gli attanagliava le viscere, senza tuttavia eliminarlo del tutto. Poco male. Era abituato a sopportare il tormento.
Ma lei era Vivian. Troppe volte si era dimenticato di questo piccolo particolare, troppe volte ci era passato sopra con simulata indifferenza, ignorandolo, per poi subirne le conseguenze in seguito. La ragazza non aveva mai chinato la testa di fronte ad una sua decisione, e aveva manifestato, fin dal suo arrivo, una sconvolgente bravura nel mandare a monte i suoi piani e nello stravolgere i suoi programmi. Avrebbe dovuto immaginare che non si sarebbe lasciata cacciare con facilità…ma se anche avesse preso in considerazione la più infelice delle ipotesi, non avrebbe mai potuto prepararsi allo spettacolo cui assistette una volta tornato alla Dimora sul Lago.
Si aspettava di trovare la sua ospite in camera da letto, intenta in una piacevole lettura serale, o magari seduta al pianoforte, le dita agili ed esperte che danzavano sui tasti e suonavano le note della loro canzone. Ma lei non era né nella sua stanza, né accanto al piano. Era salita in piedi sullo sgabello dello strumento, trascinandolo accanto ai muri ricoperti dai drappi, e il modo in cui teneva dritta la schiena e spianate le spalle rivelava le morbide curve del suo corpo, malamente celate da un lussurioso abito rosso porpora guarnito di ricami dorati, con un corpino che le esaltava la linea generosa del seno e una gonna di veli che serpeggiava fino a terra, circondandola come lingue di fuoco. I capelli neri, sciolti nella loro pettinatura più selvaggia, le ricadevano liberamente fino a metà schiena, e il suo volto aveva la stessa espressione feroce, determinata e terribile di quando era emersa vittoriosa dalla Stanza della Sfinge. Gli occhi le brillavano, le guance erano scarlatte.
E il laccio del Penjab, una delle sue armi più letali, che egli custodiva nella sua camera e che non si era premurato di nascondere poiché non era di alcuna utilità per la ragazza, era avvolto come un serpente intorno al morbido collo ed era stato assicurato, tramite un abile nodo, ad una delle sbarre di metallo su cui erano appesi i drappi sgualciti.  
 
Erik rimase paralizzato, mentre una sensazione di gelo assoluto si impadroniva di lui e gli ghiacciava il sangue nelle vene. Vivian era lì, davanti a lui, ritta sopra lo sgabello, grondante la solita incrollabile forza, e aveva un cappio stretto e letale attorcigliato intorno al collo. Se fosse caduta dallo sgabello, se avesse mosso un solo passo, sarebbe ricaduta pesantemente appesa alla corda e ne sarebbe stata impiccata. Malgrado questo, il suo volto, i suoi occhi, non mostravano altro che una feroce determinazione.
Perché, era palese, era stata lei stessa ad annodarsi il laccio sulla gola e a salire su quell’incerto supporto.
Ma la ragione che l’aveva spinta a quel folle gesto, la causa della sua espressione di sfida e delle fiamme che eruttavano dalle sue iridi ardenti, era completamente ignota al Fantasma dell’Opera, ed egli, che non aveva mai tentennato di fronte a nulla e che mai aveva provato paura per qualcosa, si ritrovò, in men che non si dica, del tutto dominato dalla suprema forma di terrore. Un attimo prima si rallegrava per la stabilità che aveva prontamente riconquistato ed era ben deciso a celare dietro al suo viso impenetrabile quei dubbi che non era riuscito a scacciare, e adesso, dinnanzi ad un tale, inaspettato spettacolo, tutti i suoi propositi, tutte le sue manovre erano svanite e avevano lasciato al loro posto una confusione, un panico, una frenesia che rischiavano quasi di sopraffarlo. L’immagine della sua ospite in procinto di impiccarsi era tanto assurda e mostruosa che le sue palpebre si chiusero d’istinto, nella speranza di aver focalizzato male la scena e di aver veduto qualcosa di inesistente. Ella non poteva avergli preso il laccio del Penjab per esporsi ad un pericolo così grande…non ne aveva alcun motivo…né, certamente, alcuna intenzione…si era trattato certamente di un malinteso, di uno scherzo ottico, che sarebbe svanito in un attimo…
Ma non svanì. Ella era ancora sullo sgabello, bellissima e perduta, l’orrido canapo che le scalfiva la delicata pelle del collo. Le punte dei piedi nudi sfioravano l’orlo dello sgabello e gli occhi scuri lo guardavano dritto in viso con evidente sfida, come se lo stessero incitando a dire qualcosa. Se Erik avesse avuto la capacità di guardarsi dall’esterno, sarebbe senz’altro rimasto sorpreso dal pallore improvviso che si era diffuso sul suo volto mascherato e dai suoi occhi lievemente sgranati, accesi da una scintilla di puro terrore. Ma tutto quello che egli percepiva in quel momento era il tumulto di sensazioni che la sorpresa aveva scatenato in lui, e gli scaturì dalle labbra un ringhio soffuso, imbevuto di panico: “Cosa diavolo stai facendo?!”
Lei parlò con voce salda e sicura, per nulla alterata dal pericolo a cui si era esposta: “Quello che va fatto”.
“Di che stai parlando?!” l’uomo accennò un passo nella sua direzione, ma si bloccò subito dopo, folgorato dal timore che ella si sarebbe lasciata cadere, se avesse sospettato un suo tentativo di liberarla dal laccio. Avvezzo com’era a privare della vita gli esseri umani, si trovava per la prima volta a volerne invece salvare uno da morte certa, senza secondi fini (come era invece accaduto nella cappella) ed aveva l’impressione di muoversi su un sottile filo di spago, pronto a spezzarsi al minimo passo falso: “Scendi subito! E sciogli quella corda, se cadi…”
“Mi strangolerà?” la giovane sorrise, serena: “Lo so, Erik. E immagino che tu ricordi di che corda si tratta. È la stessa con cui mi hai aggredita nel corso della mia intrusione. Buffo, vero?”
Lui digrignò i denti. Al sicuro dietro la liscia superficie della maschera, la sua fronte era imperlata di sudore: “Non so a che gioco stai giocando, ma adesso devi smetterla!”
Il sorriso scomparve e lo sostituì un cipiglio di una serietà maniacale: “È un gioco che conosci bene. Si potrebbe dire che è proprio il gioco che piace a te” Vivian parlava lentamente, assaporando il suono delle insensate parole che cadevano nel salone sotterraneo come macigni gravidi di orrore: “Quando ti ho chiesto ospitalità, mi hai sottoposta alla prova della Sfinge. Adesso è il tuo turno. Tocca a te fare una scelta”.
Gli occhi azzurro scuro dell’uomo sfolgoravano al pari di due tizzoni ardenti, incapaci di nascondere il panico crescente: “Tu sei pazza!”
Un sogghigno amaro sfiorò le labbra rosse della giovane: “Vorrei che fosse così, ma credimi, sono più che lucida. Sono i sentimenti…solo i sentimenti… ad essere irrazionali”.
“I sentimenti?”
“Non hai capito?”
“Cosa c’è da capire?!” la rabbia, la preoccupazione e la foga lo indussero ad avanzare leggermente, senza che Vivian mostrasse di temere un suo eventuale assalto o che si irrigidisse in alcun modo. Il corpo alto e muscoloso di Erik era attraversato da un tremito evidente e un muscolo gli fremeva sopra al sopracciglio: “Scendi da lì, subito! Ci sono persone che ti aspettano, che…”
“Non mi importa niente di loro” lo interruppe brutalmente: “Io voglio il tuo amore”.
Un silenzio opprimente calò in quella cappa di tensione e di paura.
Erik fissò il volto acceso e feroce di Vivian, cercando di assimilare quanto aveva appena detto. Voleva…il suo amore? Aveva sentito bene? Ma come era possibile che lei…che si fosse…era così giovane, ingenua ed inesperta…così... bella e piena di voglia di vivere…perché mai avrebbe dovuto scegliere, tra i tanti uomini che aveva a disposizione, proprio lui? Un assassino, un reietto, un orribile individuo sfigurato che viveva isolato nella solitudine perpetua di una catacomba? Sotto quale incantesimo doveva essere per pronunciare una simile assurdità con quella convinzione, per avere uno sguardo tanto limpido, mentre rischiava di morire soffocata e professava affetto ad un mostro? E perché diavolo si sentiva mancare?! Barcollò, stupito e furioso dalla debolezza poco virile che stava dimostrando, e fu costretto a cercare sostegno sul più vicino muro, portandosi una mano al volto pallidissimo. Non gli era mai capitato, in trentasette anni di vita, di sentirsi tanto vulnerabile e disarmato. E aveva affrontato uomini e creature ben più grossi e temibili della diciottenne che aveva di fronte.
Un sorriso di una dolcezza che pareva esserle del tutto estranea si allargò sulle sue labbra scarlatte, addolcendole i lineamenti duri, e per pochi secondi, sotto l’influsso del suo sentimento, sembrò divenire un’altra persona: “Io ti amo, Erik” la sua voce era tenera e sincera in modo quasi insopportabile: “È inutile continuare ad ignorarlo. E quando tengo a qualcosa, lotto per averla…anche a costo di morire. In questo siamo simili, non credi?”
Lui scosse la testa lentamente, incapace di accettare quello che provava, di comprendere che la dichiarazione di Vivian stava sollevando la coperta sotto cui teneva nascoste le sue colpe più terribili, proprio come era successo quando Christine l’aveva baciato: “Sono solo un mucchio di sciocchezze folli”.
“No!” il corpo della ragazza si tese, fremendo di indignazione sotto l’abito rosso, ed Erik venne colto dalla paura attanagliante e fulminea che potesse, involontariamente, perdere l’appiglio sullo sgabello, ma riuscì a rimanere eretto: “Non ti permetto di sminuire quello che provo! Non l’ho deciso, non l’ho previsto, anzi, avrei preferito evitarlo, ma è successo. E credo che…che anche tu provi qualcosa per…me”.
Replicò con un tono gelido che non corrispondeva al suo reale stato d’animo: “Ti sbagli”.
“Davvero? Sul fiume il tuo sguardo ti tradiva…ho visto amore nei tuoi occhi!”
Una vampata di calore salì a imporporargli le gote. Ovvio, la ragazza si stava approfittando di quell’imperdonabile momento di debolezza che l’aveva colto sulla Senna, usandolo contro di lui per proseguire con il suo folle giochetto: “Parli come la bambina che sei. Pensi che questa sia una favoletta? Era a questo che portavano i tuoi discorsi sul vero amore? La vuoi sapere la verità, quella che ho appreso a mie spese? Il vero amore non esiste! È solo un’illusione degli uomini, il più grande dei loro inganni! E tu lo proveresti per me? Mi vedi come un affascinante principe delle tenebre, come colui che ti aprirà le porte per un mondo magico e fantastico? Sei proprio come Christine. Anche lei non amava che il suo prezioso Angelo della Musica”.
Il suo discorso esprimeva disprezzo, ma nessuna di quelle parole velenose turbò la serenità che pervadeva il viso di Vivian, né diminuì l’assoluta determinazione che dominava i suoi occhi. Attese che avesse finito, poi ribatté, con candida onestà: “Io ti amo per quello che sei, Erik, non per quello che rappresenti”.
Lui fece un gesto brusco con la mano, negandosi di comprendere appieno il significato di tali rivelazioni, di perdersi nello sguardo dolce e fermo della ragazza: “Non lo sai nemmeno, quello che sono”.
“Sei un assassino. Un figlio illegittimo. Il Signore delle Botole. Ma questi sono solo appellativi. Dentro, sei molto di più. Mi piace guardarti pensare. Mi piace come mi ascolti e, contemporaneamente, rifletti su ciò che dico. Mi piace il tuo sorriso, perché è raro e quando si manifesta…mi da un senso di trionfo. Mi piace l’intensità dei tuoi occhi, come mi ci perdo dentro, diventando cieca a tutto il resto. Mi piace…tutto di te. Anche i tuoi difetti. Vorrei poterlo esprimere in modo migliore, ma…non ci riesco. Non posso esistere senza di te, non ora che le cose sono arrivate a questo punto. Per questo ti propongo questa prova. Se mi ami, se non lascerai che io muoia, mi terrai con te per sempre” la sua voce assunse le vibranti tonalità di un giuramento: “E non accetto compromessi”.
Ora finalmente credeva di capire a cosa servisse quel cappio. Vivian aveva messo la propria vita nelle sue mani, pur di poter restare con lui…avrebbe dovuto esserne sconvolto, ma era proprio un atto da lei. Stupida, ingenua impulsiva convinta dell’esistenza di quello spirito effimero e ingannevole del vero amore…pronta a sacrificarsi per esso, per farne parte…esattamente allo stesso modo in cui lui stesso aveva dato tutto ad un tale sentimento, abbattendo di netto ogni ostacolo posto sul suo cammino. Disposto ad uccidere tutti, e anche se stesso con gli altri, pur di avere accanto l’oggetto della sua smania febbrile e tormentosa. Era dunque il destino dell’umanità, quello di battersi a tal punto per un niente?
Obiettò con una vena di disperazione: “Smettila con questa pazzia, togliti di dosso quella dannata corda e torna a casa, come era stabilito!”
Vivian sollevò fieramente il mento: “La mia casa è questa. Non mi farai cambiare idea, presumo che ormai tu mi conosca. Se vuoi liberarti di me, dovrai lasciare che mi uccida”.
Erik la odiò per l’assoluta fiducia in se stessa che traspariva da ogni poro della sua pelle, per le reazioni che gli suscitava: “Se è questo che hai deciso…”
Gli occhi marrone lo scavarono in profondità: “Dici sul serio? Leggo paura in te, Erik! Tu mi ami”.
Un’immotivata sensazione di panico lo assalì. Aveva a che fare con quello che lei continuava ad affermare, con qualcosa che non intendeva ammettere a se stesso, e tantomeno a Vivian, e le sue labbra formularono parole frenetiche: “Non è così! Non conti niente per me, esattamente come gli altri! Credi che mi terrei accanto una ragazzina fastidiosa e immatura, una nullità?!”
Si aspettava di provocarle dolore o rabbia, delusione o perlomeno un lieve dispiacere, ma tutto quello che ottenne dalla sua negazione fu un piccolo sorriso triste: “Cerchi di convincermi che non ne vale la pena?”
Non l’avrebbe costretto a sollevare quella maledetta coperta, non si sarebbe insinuata nelle sue vene e nella sua pelle! Il suo vero io non sarebbe emerso grazie al suo gioco fatale, non avrebbe tirato fuori dalla sua fredda parvenza le cose segrete e innominabili che vi erano celate, o tutto quello che si era prefisso di essere in quei sei mesi sarebbe crollato per sempre, e ogni alibi, ogni progetto, sarebbe sbiadito a confronto della cruda e reale verità. Contro di lei aveva perso fin troppe volte, questa volta il trionfo sarebbe stato suo.
Piegando la bocca in un sogghigno sardonico, si costrinse ad adottare un tono di scherno: “Non avrai il coraggio di saltar giù dallo sgabello”.
Un bagliore le illuminò le pupille: “Mi sottovaluti, e sopravvaluti te stesso… come sempre”.
Ruotò su se stessa, con un movimento talmente veloce da manifestarsi nel tempo di un secondo, e si lasciò cadere giù dal suo supporto senza alcuna esitazione, senza nemmeno un gemito.
   
 
  
Leggi le 5 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Film > The Phantom of the Opera / Vai alla pagina dell'autore: Sylphs