Bulletproof
I’m
bulletproof nothing to lose. Fire
away, fire away
Aveva
fatto un sogno strano quella notte e anche se non ricordava bene di
cosa
trattasse, gli aveva lasciato una brutta sensazione per tutta la
mattina. Aveva
preso due caffè, uno appena sveglio, ancora tiepido da
quando il suo
coinquilino era uscito, e uno nel bar a pochi passi dalla prigione. In
quel
posto ormai lo conoscevano bene, erano ormai tre anni che gli anziani
proprietari
lo vedevano passare tutti i giorni e ormai era come se lo avessero
adottato. Quel
giorno era entrato cercando di mostrare il suo solito sorriso ma Marge,
da
dietro il bancone, lo aveva guardato con un’espressione
preoccupata e gli aveva
regalato uno di quei zuccherini che teneva sempre vicino alla
macchinetta del caffè
perché, aveva detto lei, aveva una
faccia
di uno che ha visto un fantasma. Lui gli aveva sorriso e la
aveva
ringraziata prendendo anche una brioche alla crema.
La
prigione di Isis, a guardarla da fuori, non assomigliava propriamente
ad una
prigione. Le mura bianche e gli alberi rigogliosi, dei quali il
guardiano Tom
si prendeva tanta cura, lo rendevano un posto vivibile. Quando
parcheggiò il
suo povero motorino scassato all’angolo della strada
guardò a lungo l’edificio
e prese un lungo respiro, aveva la sensazione che sarebbe successo
qualcosa ma
infondo era un poliziotto e quindi non doveva preoccuparsi di certe
cose. Le
brutte cose capitano sempre in posti come quelli.
Guardò
l’orologio che segnava le otto meno cinque e
lasciò il casco nel sellino della
moto per poi recuperare il suo cappello. Ecco, quella era
un’altra cosa che
odiava del suo lavoro, quel cappello era la rovina della sua bellissima
pettinatura. Si sistemò dunque i capelli alla meno peggio,
cercando di non
nascondere il bellissimo ciuffo che era riuscito a sistemare quella
mattina, e
provò a non fare ricadere quel poco di frangia sugli occhi
azzurri. Era pronto
per un’altra giornata.
Quando
varcò la soglia, il suo superiore, lo guardò male
nonostante fosse arrivato con
qualche minuto di anticipo. Quella donna, inutile negarlo, lo aveva
preso in
antipatia dal primo secondo e niente era ancora riuscito a farle
cambiare idea.
Lui arrivava in orario, era un bravo secondino, nel suo turno non era
mai evaso
nessuno – non evadeva nessuno da quel posto da secoli,
effettivamente – e c’era
stata solo qualche rissa che era stato capace di sedare quasi subito.
Eppure
lei non lo poteva sopportare, si capiva dal modo in cui lo guardava,
con quell’espressione
di superiorità sul volto lievemente truccato dai lineamenti
duri. L’aveva
sentita parlare di lui, una volta, e da quello che aveva capito lei lo
riteneva
troppo buono, il suo carattere non
era adatto a quel genere di lavoro e che se ne avesse avuto
l’occasione avrebbe
avuto anche il coraggio di affezionarsi
– ricordava ancora il tono disgustato con cui aveva
pronunciato quelle parole –
a qualche detenuto.
Louis,
sentendola, non si era affatto sentito offeso. I ragazzi che si
trovavano in
quel posto, anche se avevano commesso dei crimini più o meno gravi, erano
comunque delle persone e
quindi sì, se ne avesse avuto
l’opportunità avrebbe anche potuto.
«Non
metterti comodo Tomlinson, stamattina devi sostituire
Carson.» aveva detto con
voce annoiata alzandosi dalla sedia sulla quale stava appoggiata. Si
era
avvicinata alla sua postazione e lo aveva guardato dritto negli occhi,
come a
sfidarlo.
«Carson
della sezione di massima sicurezza?»
«No,
quello del panificio a qualche isolato da qui. Ti sembrano domande da
fare?
Alza quel culo e vai al secondo piano, oggi arriva uno nuovo dal
carcere di
Feltham e da quello che dice la sua scheda non è un tipo
facile.»
Sospirò
distogliendo lo sguardo e si alzò in piedi e, dopo averla
salutata come gli
avevano insegnato all’accademia, aveva preso le sue cose ed
era andato verso le
scale. L’ascensore, in quel posto non aveva mai funzionato e
visto che nessuno
si premurava di chiamare un tecnico forse non avrebbe mai ripreso a
funzionare.
Forse, la cattiva sensazione di quella mattina era legata a quel
cambiamento. A
lui, i cambiamenti, non erano mai piaciuti. Era un tipo abitudinario,
con le
sue routine e i suoi orari sballati – la sveglia alle sette
per potersi alzare
con almeno quei cinque minuti di ritardo, il caffè tiepido,
la corsa da Abbey
Wood fino a Thamesmed per la chiacchierata con Marge e Bill
–, e di certo
muoversi dal suo solito lavoro da scrivania alla sorveglianza di
chissà quale
ragazzino psicopatico da massima sicurezza era una bella svolta.
Non
capiva perché aveva deciso di mandare lui, infondo
c’erano altri quattro agenti
in servizio, ma non aveva senso lamentarsi. Quando bussò al
gabbiotto che
precedeva la sezione alla quale era stato mandato un signore con dei
grossi
baffoni che non ricordava di aver mai visto lo guardò male
ma quando gli disse
il suo nome annuì e, senza neanche dire una parola,
aprì il cancelletto con un
bottone.
La
sezione di massima sicurezza, doveva ammetterlo, non era molto diversa
dal
piano inferiore. I muri erano sempre di quel bianco sporco che faceva
male agli
occhi, le celle di media grandezza disposte una di fianco
all’altra erano mezze
vuote e i ragazzi che le riempivano a quell’ora ancora
dormicchiavano sulla
brandina quindi c’era il solito silenzio innaturale che
trovava alle otto e
quarto di mattina.
«Tomlinson,
finalmente sei arrivato.»
Una
voce lo fece trasalire e un ragazzino, che fino a un momento prima
dormiva come
un angioletto, aveva aperto gli occhi e si era buttato contro la porta
di
metallo della sua stanza, guardandolo con gli occhi rossi dal sonno e
dal
pianto. Provò a non guardarlo a lungo e si diresse verso
l’uomo che lo aveva
chiamato. Il comandante Tyler, con la sua pancia gonfia di birra e la
testa
quasi pelata, era appoggiato alla porta a specchi alla fine del
corridoio e
sbatteva un piede sul pavimento freddo.
Là
dentro, quel tizio, era l’unica persona sua superiore, che
gli piaceva. Aveva
origini americane e gli piaceva il suo accento di Boston, inoltre era
uno dei
pochi ai quali non piaceva giocare con le persone che dovevano vivere
là dentro
e aveva rispetto, per tutti.
«Il
ragazzo è già arrivato.»
Lui
annuì e lo seguì fino a una stanza che non aveva
mai visto. Sembrava essere
spuntata da uno di quei polizieschi di bassa lega e l’odore
che c’era in quel
posto, come di muffa e troppo detersivo per pavimenti, non gli piaceva
per
nulla. Al centro della stanza c’era un tavolo rettangolare
lucido e intorno
alcune sedie sul quale erano sedute delle persone del quale vedeva solo
la
schiena.
Un
uomo con una giacca dall’aspetto costoso era chinato verso
un’altra figura che,
per certo, doveva essere quello nuovo.
Aveva già indosso la divisa arancione del carcere e una
cascata di riccioli
castani troppo lunghi per sembrare quelli di un ragazzo, gli cadevano
sulle
spalle.
«Voglio
che stai dentro con loro. Presto arriverà un pezzo grosso,
uno dei piani alti,
perché devono ancora condannarlo, con delinquente
là.»
«Che
ha fatto?» gli venne spontaneo da dire, mentre si sistemava
ancora una volta il
cappello sulla testa.
«L’accusa
è di assassinio. Dicono abbia ucciso suo padre.»
Il
sangue, improvvisamente, gli si era gelato nelle vene. Come faceva un
ragazzino
ad aver fatto una cosa del genere? Magari
però, pensò mentre apriva la porta che
collegava il corridoio nel quale
stava parlando con il comandante alla stanzetta, visto
che non l’hanno ancora condannato, non è stato lui.
Lasciò
la maniglia fredda che aveva stretto mentre entrava e le due persone si
giravano a guardarlo.
Il
sangue, così come gli si era congelato, si sciolse. Il
ragazzo, che non poteva
avere più di diciotto anni, lo aveva guardato e lui si era
perso. Il volto,
contornato da boccoli castani, sembrava quello di angelo, gli occhi
grandi e
verdi lo osservavano divertito mentre l’avvocato al suo
fianco gli stava
sussurrando ancora qualcosa, e quando gli sorrise due fossette si
formarono
agli angoli delle labbra carnose e rosse. Era una strana fottutissima
versione
perversa e maschile di Biancaneve.
Il
comandante, alle sue spalle, disse qualcosa con la sua solita voce
autoritaria
e poi uscì, lasciandosi il tonfo della porta che si
chiudeva. Si sistemò al
posto che sapeva doveva prendere e rimase fermo per chissà
quanto tempo a
fissare quel ragazzo che a quanto pare, nonostante dovesse affrontare
ancora
processo e chissà quale condanna, non aveva altro da fare
che ricambiare il suo
sguardo. Aveva un’aria fin troppo tranquilla e gli occhi
allegri, così allegri
che gli provocarono un brivido dietro la schiena perché,
dietro tutta quella
spensieratezza, riusciva a leggerci una freddezza calcolata fuori dal
comune.
Sentì
l’avvocato – al quale non aveva rivolto neanche uno
sguardo – alzarsi dalla
sedia e dire qualcosa che assomigliava vagamente ad un mi
prendo un caffè, e semplicemente sparì
dal suo raggio di
osservazione.
«Come
ti chiami?»
Quelle
tre parole, pronunciate con un bell’accento del Cheshire,
arrivarono lente alla
sua mente e quando si rese conto che il ragazzino aveva alzato un
sopracciglio
aspettandosi una risposta, arrossì leggermente e
cercò di riprendersi dallo
stato di trance nel quale era caduto. Dio, se avesse provato a scappare
nei
minuti in cui era stato impalato come un imbecille a fissarlo non
avrebbe
potuto neanche muovere un muscolo per fermarlo, che razza di poliziotto
era!
«Tomlinson.»
«Tomlinson
non è un nome. Harry è un nome, il mio
nome.»
Aveva
una bella voce, pensò mentre vedeva quelle belle labbra
muoversi, ma di sicuro
gli piaceva di più guardarlo mentre parlava che ascoltarlo.
Il suo viso si
muoveva tutto, le guance piene e rosate di un tipico ragazzo di buona
famiglia
si gonfiavano e sgonfiavano ad ogni parola, le sopracciglia seguivano
ogni
movimento e, ogni tanto, il naso si arricciava tra un respiro e
l’altro.
«Louis
Tomlinson.» rispose, tenendo le mani ferme dietro la schiena
dritta e il mento
dritto. Non poteva muoversi, se si fosse mosso lo avrebbe fatto per
avvicinarsi
e guardarlo da più vicino e non poteva. Avrebbe voluto
vedere di che colore
erano veramente quegli occhi che sembravano cambiare a seconda della
luce o
dell’espressione che assumeva, magari dai pensieri che stava
facendo. Avrebbe
voluto sentire l’odore della sua pelle, tra il collo e
l’attacco della spalla,
sulla clavicola lasciata scoperta dalla tuta troppo grande, avrebbe
voluto
tastarne la consistenza. Di sicuro sapeva di sapone e qualcosa di
dolce, come
lo zucchero a velo, e doveva essere liscia e calda.
«Mi
piace.»
Poi,
la lingua di quel ragazzino, era guizzata fuori dalle labbra per mezzo
secondo,
leccando poco l’angolo della bocca ed era tornata dietro a
quel sorriso così
fintamente genuino. Sembrava così innocente eppure, ogni
movimento, sembravano
provocarlo come mai niente lo aveva provocato in vita sua.
Doveva
essere quello, doveva essere stata colpa sua se quella mattina si era
svegliato
di cattivo umore. Il suo karma gli stava dicendo di restare a casa
perché, una
volta arrivato a lavoro, avrebbe incontrato quel demonio travestito da
angelo
in tuta arancione che stranamente gli stava quasi bene. Se lo
immaginò per un
secondo con dei vestiti normali – un paio di jeans, una
maglia colorata, magari
una giacca per farlo sembrare ancora di più un ragazzino per
bene – e capì che
non avrebbe dovuto farlo perché ora nella sua testa stavano
vorticando immagini
di una persona vera.
Immaginò
come sarebbe stato incontrarlo per strada, alla fermata della
metropolitana, o a
Hyde Park. Ci avrebbe provato subito, ne era certo, e magari avrebbe
anche
potuto avere un’occasione visto il modo in cui si sentiva
osservato.
«Sai,
ho ucciso mio padre.» disse all’improvviso e
quello, anche se si era ripromesso
di non cedere, fu l’esatto momento in cui perse ogni
capacità di restare calmo.
Lo fissò con la bocca aperta per qualche istante, provando a
balbettare
qualcosa di sensato ma l’unica cosa che riuscì a
dire fu un Perché? sussurrato
con la poca voce che
gli era rimasta.
«Perché
aveva deciso che, visto che sono gay, non potevo più vivere
sotto il loro
stesso tetto. Perché visto che sono un
deviato aveva deciso di farmi tornare sulla retta
via. Era un bravo cattolico, sai? Allora, quando stava per
profanare il mio povero culetto frocio, gli ho piantato il coltello
dell’arrosto
nel petto. Sedici volte ha detto l’autopsia, ma io non mi
sono messo a contarle
in quel momento, sai com’è, l’adrenalina
non ti fa pensare più di tanto.»
Sentiva
la bocca così secca che, se provava a deglutire, poteva
sentire un dolore acuto
lungo tutta al gola. Era da quando era entrato in quella stanza, anzi
no, da
quando si era svegliato dopo quel sogno su una strana sparatoria a
pochi metri
da Piccadilly Circus, che si sentiva come esposto.
Come se stesse per andare in avanscoperta in qualche strana missione
suicida,
senza neanche un misero giubbotto antiproiettile. Ma mentre Harry
parlava,
mentre raccontava di come aveva ucciso, si era sentito nudo.
Vulnerabile.
Quel
ragazzo parlava, la sua bella voce cristallina riempiva la stanza, e le
sue
ginocchia tremavano. Facendo quel lavoro ne aveva conosciute di persone
che
avevano fatto cose brutte, c’erano stati assassini, ladri,
stupratori, ma quel
ragazzo era qualcosa al di sopra. I suoi occhi così belli
erano distanti ma non
arrabbiati, come se stesse ricordando qualcosa vista in televisione,
che non lo
toccava assolutamente.
«Pensavo,
se ti avessi incontrato in altro posto, avrei voluto conoscerti
comunque. Mi
piaci, avrei voluto essere il tuo ragazzo perché hai la
faccia buona. Mi
piacciono i tuoi occhi, sono azzurri, e mi piace il tuo sorriso. Invece
adesso
andrò in prigione, ma ogni tanto magari mi vieni a
trovare.»
Gli
fece l’occhiolino e poi la porta si aprì.
L’avvocato odorava del brutto caffè
che facevano alla macchinetta del piano terra e, come se gli avessero
tirato
uno schiaffo, lo riportò bruscamente alla realtà.
Si rimise nella posizione in
cui sarebbe dovuto stare tutto il tempo – invece di
ingobbirsi alle parole del
riccio, come per incassare meglio quello che gli stava dicendo
– e provò a non
guardarlo più anche se ogni tanto, mentre i due discutevano,
non resisteva nel
buttare un’occhiata. Harry non lo guardava più e
non sorrideva.
Era
stato colpito. Sentiva la sensazione del sangue vischioso che gli
scendeva fino
a dentro i pensieri, era stato colpito ed affondato. Tutta la vita
aveva
vissuto con la convinzione di essere inattaccabile, un ragazzo allegro
e per le
sue, che viveva senza nessuna pretesa indossando il suo giubbotto
anti-sentimenti che lo aveva sempre protetto.
Adesso
era a terra, sanguinante, per colpa di un ragazzino. E
sperò, mentre stringeva
le mani fino a ficcarsi le unghie dentro la carne, che quel signore con
la
giacca dall’aria costosa e senza volto fosse
l’avvocato più bravo del paese.
Dovevano scagionarlo, non era colpa sua, era legittima difesa, lo aveva
studiato alle superiori quando per caso era entrato in
quell’aula di diritto
mentre cercava di sfuggire da geometria.
Così
poi avrebbe potuto incontrarlo in giro per la città, lo
avrebbe portato fuori a
cena e gli avrebbe fatto capire cosa voleva dire essere amati. Lo
desiderava
così tanto. Lo avrebbe fatto ridere e avrebbero litigato
perché era troppo
bello e le ragazzine lo avrebbero guardato per la strada. Lo avrebbe
portato a
casa sua cacciando Zayn per lasciargli la stanza da letto buona e gli
avrebbe
insegnato cosa significava fare l’amore.
Il
comandante Tyler, che non si era neanche accorto fosse entrato nella
stanza,
gli mise una mano sulla spalla e gli disse di scendere, lì
aveva finito. Lo
guardò con un’espressione spenta e si
girò a per dare un’ultima occhiata a quel
futuro che gli si era improvvisamente palesato davanti e che qualcuno
gli stava
già strappando dalle mani.
«Ciao
Louis.» disse quello cercando i suoi occhi. Si guardarono e
poi uscì dalla sua
vita.
Fine.
Solo
io penso che tutto questo non ha un senso? Purtroppo Harry in tuta
arancione mi
si è palesato davanti mentre su twitter cercavo
un’idea per una storia “originale”
e non voleva andarsene più. Credo che Boo sia fuori
carattere, ma che ci posso
fare, non sono riuscita a renderlo meglio in questa situazione.
Sappiate che io
lo trovo molto sexy in uniforme e che mi ha fatto molta tenerezza
scrivere di
lui in questa situazione. Giusto per dare alcune informazioni, la
prigione che
ho descritto esiste veramente, anche tutti gli altri posti sono
realmente
esistenti in quel di Londra. Naturalmente non so come funziona
veramente tutto
il sistema giudiziario/penitenziario dell’Inghilterra quindi
ho bellamente
inventato. Scappo a teatro.
Spero
vi sia piaciuto comunque : )
Peace
and Stylinson, Nana.